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Il cibo degli Dei [ di Simone Barcelli ]

Fin dall’antichità le piante hanno costituito per l’uomo uno strumento importante. In esse è presente il bene ed il male, l’azione e la stasi; le energie contenute possono essere opportunamente e sapientemente sfruttate, soprattutto riconoscendo nella forma delle piante corrispondenze con parti del corpo umano, di animali, di tutte le forme presenti in natura. Anche gli odori sono da considerare una vera e propria energia, da sempre sfruttata nelle arti magiche. L’utilizzo di queste erbe è variegato: la preparazione di decotti, infusi e oli per la salute o per scopi magici, il bruciarle nei bracieri, farne infine fumigazioni o bagni purificatori. Anche l’uso di droghe di origine vegetale era appannaggio di tutti gli antichi popoli. Il soma, la canapa indiana, l’oppio e la coca venivano, infatti, definite “erbe dell’immortalità”. Il soma, che potrebbe essere definito un liquore inebriante, si preparava utilizzando un tipo di erba che, stando alle indicazioni fornite dal Rg-Veda, il più antico testo sacro dell’India, proveniva dal cielo portata da una grande aquila e s’identificava con una divinità. D’altronde, le leggende di molti popoli ci narrano di semi che vengono dal cielo, donati agli uomini dagli dèi. Pur nell’impossibilità di comprendere da quale tipo di pianta derivasse per l’ermetismo dello scritto indiano, il succo di tale sostanza guariva tutti i mali, donava la vista ai ciechi e la fertilità alle donne, soprattutto era portatrice di saggezza e immortalità. Il testo spiega che, per la preparazione dell’infuso, occorreva macerare in un mortaio i gambi della pianta, quindi filtrarne il succo rosso e giallo che usciva e far depositare la sostanza. L’ebbrezza poteva causare danni all’organismo, finanche la follia. Sembra di capire, quindi, che l’uso sconsiderato di tale bevanda potesse indurre i classici sintomi di un’intossicazione. Anche la canapa indiana rientrava nei consumi degli indiani: la chiamavano “fonte di gioia” o “suscitatrice di risa”. Pur essendo diversa dal soma, anch’essa produceva stati di estasi e di benessere spirituale. È una pianta della famiglia delle Urticacee, originaria dell’Himalaya settentrionale, la cui coltura si è poi estesa alla Cina e alla Persia per giungere infine in Africa, America meridionale ed Europa. Dalle specie tropicali si estrae la droga nelle sue varie concentrazioni, come ad esempio le più comuni marijuana e hashish. Per la testimonianza pervenutaci dallo storico Erodoto (IV libro delle “Storie”, il Melpomene), sappiano che questa droga era in uso anche presso gli Sciti, che la impiegavano nelle cerimonie di purificazione dopo la sepoltura dei defunti. L’oppio è invece una droga che deriva dal processo di coagulazione del lattice del Papaver somniferum; dal procedimento sono estratti degli alcaloidi come la morfina, la codeina, la papaverina, la narcotica e l’eroina. La sostanza è nota fin dall’antichità e lo dimostrano i rinvenimenti archeologici in alcune delle grotte abitate dagli uomini di Cro-magnon, ove sono stati trovati i resti della parte superiore del fiore. Settemila anni fa furono i Sumeri ad adoperare gli estratti della pianta, tanto da far pensare che, assieme ai Caldei, potessero già avere una buona conoscenza anche di altri arbusti a effetto tossico o narcotico. Anche gli Egizi avevano cognizione dell’uso di numerose piante, tra cui la mandragola, il giusquiamo e appunto l’oppio, con cui preparavano pozioni, unguenti e medicine. Dalla traduzione di un papiro scoperto nel 1872, è possibile leggere, tra l’altro, una delle preparazioni a base di oppio per indurre il sonno nei bambini. Gli Inca, durante i loro riti sacrificali, facevano largo uso di coca, tipica droga dell’America meridionale. Le foglie della pianta, prima di essere masticate, erano essiccate oppure sottoposte a fermentazione. Solamente i sacerdoti e gli appartenenti alla casa reale potevano far uso di tale sostanza ma, con l’arrivo degli europei, il consumo si estese immediatamente alle popolazioni locali poiché l’uso della droga rendeva più sopportabile la vita di tutti i giorni: al riguardo sono esplicative le testimonianze del cronista dell’epoca, lo spagnolo Garcilaso de la Vega.

LA MENTE SI MANIFESTA
Anche gli allucinogeni, oggi diremo sostanze psicadeliche (letteralmente tradotto “manifestatrici della mente”), erano largamente diffusi, soprattutto tra le civiltà dell’America precolombiana. Derivano da alcuni funghi molto diffusi nel nuovo continente e, per lo meno, se ne distinguono quaranta specie: in Europa, invece, si possono contare sulle dita di una mano. Il più conosciuto allucinogeno è il péyotl, appartenente alla famiglia delle cactee. Era utilizzato, come altri allucinogeni (simili, in tutto e per tutto: l’ololiuhqui, il tlapatl, il tzintintlapatl, il mixitl e il nanacatl) da Nahua, Cicimeci, Zapotechi, Aztechi e Maya. Chi mangiava la polpa o beveva il suo succo era preda di stati di ebbrezza e le visioni che ne scaturivano si trasformavano da fittizie a reali; erano, in definitiva, riconducibili alle divinità di quei popoli. L’uso di questo particolare fungo avveniva durante le cerimonie propizianti per la semina e la raccolta del mais e in quelle religiose, dove i sacerdoti inca, i cosiddetti hacuc, avevano il compito di ‘parlare’ con la divinità e spiegare al popolo gli oracoli. Durante le cerimonie a forte caratterizzazione sciamanica, bevevano chicha, fumavano erbe inebrianti e danzavano, cantando, fino allo sfinimento: erano così in grado di fornire i loro oracoli in una lingua comunque incomprensibile per il popolo. In ogni modo, che la voce divina si rivelasse attraverso profeti e sacerdoti è ben documentabile e le teocrazie mesopotamiche, egiziane ed ebraiche proprio su questo sono fondate. Dopo la conquista, gli spagnoli cercarono, in ogni modo ma inutilmente, di proibire l’allucinogeno, da loro denominato ‘radice del diavolo’. Oggi rimane il retaggio tanto è vero che i locali continuano a utilizzare allucinogeni come il teonanacatl, la cosiddetta ‘carne degli dei’, un fungo talmente amaro che, prima di riuscire a ingurgitarlo, è necessario cospargerlo di miele. Chiaramente il senso originario di questo ‘nutrimento sacro’ è andato ormai perduto. In proposito è indicativa l’esperienza di Carlos Castaneda che nel secolo scorso compì numerosi viaggi nel Messico centrale, entrando in contatto con indios depositari delle antiche tradizioni esoteriche. L’etnologo, i cui studi sono stati sempre fortemente osteggiati e criticati (pur riscontrando un buon successo tra il pubblico), in un primo tempo pensava che l’uso delle ‘piante del potere’, in buona sostanza sostanze psicotrope vegetali, fosse fondamentale per raggiungere uno stato ascetico ma in seguito si avvide che le trasformazioni efficaci e le scoperte degli stregoni accadevano sempre in stato di piena coscienza. Il suo precettore, lo sciamano don Juan, gli fornì, infatti, la risposta: l’assunzione di queste droghe psicotrope, pur non essendo indispensabile, poteva facilitare l’apprendista poiché interrompeva in lui la classica visione del mondo e gli permetteva, ponendo al centro di tutto la ragione, di assimilare le molteplici informazioni in arrivo da un’altra dimensione, comprendendo infine che il mondo è pura immagine.

LO STARGATE
C’è una droga che, come vedremo, potrebbe essere stata usata nell’antico Egitto dai sacerdoti di Eliopoli per “aprire la porta” agli dèi: un fungo che induceva esperienze allucinatorie, una sorta di stargate chimico. Il neurologo Andrija Puharich (che nell’ultimo dopoguerra indagò per i servizi segreti americani le tecniche di manipolazione psicologica con l’uso di sostanze allucinogene), sulla scorta di alcuni disegni prodotti nel 1954 dal sensitivo olandese Harry Stone in stato d’ipnosi (nella circostanza portavoce di un certo Rahotep, un sommo sacerdote di Eliopoli vissuto durante il regno di Sneferu o di Cheope), fu in grado di identificare il fungo come l’amanita muscaria o agarico moscario. D’altro canto, in quel periodo, Puharich stava conducendo delle ricerche sulle sostanze psicotrope in grado di stimolare le capacità paranormali e, negli anni a seguire, convoglierà tali studi verso la cosiddetta ‘teleosservazione’, in altre parole il viaggio fuori dal corpo per descrivere a distanza altri luoghi. Già l’anno prima aveva preso contatto, con il micologo R. Gordon Wasson, che stava studiando da qualche tempo la “carne di dio”, il fungo allucinogeno utilizzato dagli sciamani messicani ‘curanderos’. Al riguardo va fatta una menzione del programma di ricerca avviato in quegli anni, sia dalla CIA sia dalla marina militare statunitense, sulle piante narcotiche dell’America Latina. Il ruolo di Puharich non appare secondario in questi esperimenti, poiché fu incaricato di individuare una droga che potesse in qualche modo stimolare le capacità paranormali. Nel 1955 Puharich s’incontrò con Wasson e fornì un primo dettagliato resoconto alla CIA circa il lavoro che questi stava svolgendo. L’anno dopo Wasson intraprese una spedizione in Messico e negli anni a seguire, assieme a Roger Heim, fu coautore di un volume dedicato ai funghi allucinogeni del Messico.

LA MEMORIA EREDITATA
Negli anni venti del secolo scorso, il dottor William McGovern, allora vicedirettore della sezione di etnografia sudamericana del Museo Fielding di Storia naturale, stava facendo ricerche sugli insediamenti indiani del Rio delle Amazzoni. Notò che gli indigeni riuscivano a preparare una sostanza psichedelica, estraendola da una liana, la cosiddetta “Banisteriopsis caapi”, che contiene harmalina, una sostanza allucinogena. Sappiamo dai suoi resoconti che chi faceva uso di tale bevanda, dopo essere caduto in una specie di trance, riusciva a ‘vedere’ cosa succedeva a distanza di centinaia di chilometri, nella fattispecie altri villaggi che, chiaramente, non poteva aver mai visto prima. Le annotazioni dello studioso servirono a confermare la veridicità delle affermazioni degli indigeni. In quello stesso contesto uno sciamano ‘vide’ anche la morte del capo di una tribù stanziata nella lontana Pira Panama. L’harmalina, negli anni successivi, fu importata nel Vecchio Continente e studiata presso l’Istituto Pasteur di Parigi dai ricercatori di quella struttura; sperimentata su alcuni soggetti, venne accertato che la sostanza li rendeva particolarmente dotati sotto l’aspetto paranormale. Che l’assunzione di allucinogeni possa destare il risveglio di quella che alcuni considerano la “memoria ereditata”, trova conferma anche negli studi dello psichiatria cecoslovacco Stanislav Grof: nella cura con somministrazione controllata di LSD di una sua paziente affetta da turbe autodistruttive, si rese conto che la stessa possedeva ricordi di una precedente vita, poi verificati esatti: in teoria non avrebbe dovuto avere quelle informazioni perché mai possedute.

LE ORIGINI DEL SAPERE
Negli anni Ottanta del secolo scorso l’antropologo Jeremy Nardy svolse una serie di studi in Amazzonia tra le popolazioni indigene del Perù. In quel frangente, egli non poté fare a meno di riscontrare l’incredibile competenza botanica di questa gente, soprattutto per quel che concerne l’uso che fanno di alcune piante quali rimedi naturali per la cura di numerose patologie: gli sciamani ‘ayahusqueros’ sono in grado di preparare medicine efficaci con la mistura di un paio di piante. Il fatto sconvolgente è che nella foresta pluviale ci sono ben ottantamila specie di piante. Prendendo in considerazione, ma solo per un attimo poiché tale ipotesi sarebbe già da escludere in partenza, che siano arrivati al risultato attraverso ripetuti tentativi (ciò comporterebbe miliardi di combinazioni), non si può nemmeno trascurare la complessa procedura per l’estrapolazione delle parti attive di ogni singola pianta per giungere a ottenere una medicina in grado di curare un particolare problema. Secondo Nardy questi sciamani, facendo uso di sostanze allucinogene presenti in natura, soprattutto l’ayahuasca, cadono in trance e in tale stato sono in grado di raccogliere fondamentali informazioni che poi trovano spazio nella vita quotidiana. In sostanza, queste popolazioni amazzoniche non si arrogano la pretesa di aver inventato queste misture, asserendo che sono stati gli spiriti a fornirle loro col necessario tramite degli sciamani. Narby chiese quindi lumi agli sciamani e gli fu risposto che le proprietà delle piante e il procedimento esatto per combinarle sono informazioni che sono fornite da entità spirituali, durante gli stati di vigile incoscienza procurati dall’assunzione di allucinogeni.

APRIRE LA MENTE
A ben vedere lo studio finora intrapreso sull’uso di sostanze vegetali psicotrope nell’antichità, la cosiddetta “carne degli dèi”, pare essere veramente allo stadio iniziale e, nonostante gli sforzi compiuti per dare un senso ad antiche tradizioni, rimane un tema complesso da sviscerare. Quel che manca oggi agli studiosi è un approccio radicalmente diverso: pur tenendo in considerazione i postulati della scienza, è davvero necessario accostarsi a questa e altre problematiche con una completa apertura mentale e un notevole bagaglio multidisciplinare affinché si possa prestare maggior attenzione alle essenziali informazioni che ci arrivano dalle pieghe di un passato che sembra sfuggirci continuamente di mano.
Documento inserito il: 18/12/2014

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