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Lusso e consumatori in età moderna

Francesco Servetto


Negli anni 1650-1800, l’arrivo di nuovi prodotti sul mercato europeo, come tè, caffè, tabacco e zucchero ha determinato cambiamenti nel pensiero e nelle abitudini in primis dei cittadini inglesi e olandesi, quindi europei in genere. L’idea del lusso, spesso, è stata giudicata in maniera negativa e amorale, a causa del persistere di precetti e condizionamenti religiosi, politici e morali. Dal lusso prende forma tutta una serie di concetti espressi simbolicamente, che contribuiscono in maniera decisa ad elaborare codici morali e di comportamento. Numerosi intellettuali si sono interessati all’analisi del fenomeno, ponendo l’accento sugli equilibri della bilancia commerciale, in seguito all’espansione del commercio, notevolmente rafforzato dai prodotti di lusso. Henry Martin ha studiato l’importazione dei tessuti indiani, giungendo ad affermare che esportare oro per ottenere tessuti risulta vantaggioso, non solo per i commercianti inglesi, ma per tutta l’Inghilterra, poiché tale commercio attiva la produzione di beni di qualità in patria, una parte dei quali incrementa il valore delle esportazioni inglesi; il calcolo delle esportazioni dei prodotti di produzione interna di un paese, per Davenant – tra i massimi economisti dell’Illuminismo britannico – coprirebbe solo un quarto delle importazioni, nel più auspicabile dei casi.
Ne La ricchezza delle nazioni (1776) Adam Smith riflette sullo stretto rapporto tra produzione e consumo, che nella società commerciale denota contenuti economici e culturali, sia per i beni di prima necessità, sia per quelli ritenuti di lusso. Tra la fine del XVII secolo ed il successivo, si manifesta una crescita dei consumi extra-europei, accompagnata da un indebolimento della cultura mercantilista. I nuovi valori che prendono campo vedono nella terra, nel commercio e nel credito le fondamenta dello sviluppo della ricchezza e non connettono più il consumo alla morale pubblica e alla potenza dello Stato. Il secondo fondamento della nascente economia politica è la libertà economica, sia nel commerciare, sia nel godere di determinati prodotti, quindi di consumare. Per Smith, lo scopo della società commerciale è di condurre ogni uomo al perseguimento del proprio interesse, secondo le sue capacità, «su un piano liberale di equità, libertà e giustizia». I vecchi valori della società agricola, definiti «gotici» da Marcello Carmagnani nel saggio Le isole del lusso, sono spazzati via, e con essi mutano prospettiva e significato termini come consumo e lusso, venendo meno l’antica tendenza all’autarchia e la destinazione elitaria di determinati beni. Nell’ultimo terzo del XVII secolo, quindi, le nuove droghe di provenienza asiatica e americana acquistano una notevole importanza nel determinare libertà commerciale e libertà decisionale del consumatore. Va ricordato come il concetto di lusso sia da sempre legato al vizio, alla corruzione morale, alla decadenza e, sovente, il consumo di questo tipo di beni non sia ritenuto necessario. Eppure, l’apporto di questo settore commerciale non può essere sottaciuto per mera ideologia.
Data fondamentale è il 1663, quando è autorizzata l’esportazione monetaria inglese per permettere alla Compagnia delle Indie Orientali di importare senza limitazioni i cotoni indiani, il cui prezzo inferiore permette, soprattutto alle classi più svantaggiate, di risparmiare una parte del proprio reddito, per essere, perciò, investito nell’acquisto di beni più pregiati prodotti in Inghilterra. Per produrre internamente merci che abbiano un prezzo inferiore sul mercato internazionale, il sistema più efficace è ridurre i costi di produzione tramite migliore organizzazione e innovazioni tecniche. Nel 1714 viene pubblicata «La favola delle api», di Bernard de Mandeville, che propone riflessioni originali sul problema del lusso e sulla propensione al consumo, considerandoli ricadute sulla libertà naturale degli uomini. Egli dissocia le virtù cristiane dal mondo del potere e della ricchezza, analizzando autori come La Rochefoucauld, La Fontaine e Pierre Bayle. Per Mandeville la società finisce per autoregolarsi sulla base delle tensioni tra le opposte passioni umane ed il commercio annulla le connotazioni morali delle azioni umane; il lusso, inoltre, è da lui visto come ciò che non è necessario alla sussistenza dell’uomo in quanto essere vivente, ma come un qualcosa che contribuisce a rendere la vita più confortevole. In quanto tale assume una valenza positiva, perché, insieme al commercio e alla libertà di consumo, non è di ostacolo alla ricchezza della nazione, anzi ne aumenta le proporzioni e di conseguenza il benessere economico dei privati, il prestigio dello stato e il suo potere in campo internazionale.
La trasformazione commerciale, che ha visto coinvolte Europa, Asia e America durante il XVIII secolo, supera il vetusto e stagnante concetto di mercantilismo e promuove una nuova concezione del consumo. Il commercio a lunga distanza porta ad un’espansione dell’economia finanziaria, generando maggiori profitti ed ispirando innovazioni tecnologiche, finanziarie e assicurative. Con le nuove forme di credito, le Compagnie delle Indie orientali inglese e olandese riescono a ridurre l’uso dell’argento fisico nei commerci e nei pagamenti dei dipendenti in Asia. Particolare interesse riveste il fenomeno delle riesportazioni, legato alla creazione di depositi commerciali statali in grado di immagazzinare le merci importate senza pagare dazi; se immesse nel circuito del consumo interno sono soggette a dazi, se invece riesportate ne sono esentate. Ciò porta ad un rafforzamento della divisione del lavoro mercantile, in quanto le figure dei commercianti generici vengono separate dai grossisti specializzati e dai commercianti banchieri. Particolare importanza riveste la città di Amsterdam già a partire dalla fine del XVII secolo, legata alle principali piazze mercantili inglesi, mediterranee, americane, nord ed est europee, ed asiatiche. Il commercio di beni di provenienza extraeuropea vede un incremento molto significativo tra la seconda metà del XVII secolo e la prima metà del successivo, relativamente alle importazioni, di sei volte, e la partecipazione dell’Asia e delle Americhe nel commercio totale sale a un terzo del valore. Nel corso della seconda metà del XVII secolo, il processo di espansione dei prodotti extraeuropei accelera con un tasso annuo del 2,2%, generando un aumento di consumi pro capite di beni extraeuropei dell’1,4%.
A partire dal XVIII secolo, importanti sono l’affermarsi e la crescita del fenomeno del pagamento tramite cambiali, il cui sconto è regolato dai tre principali centri commerciali e finanziari: Amsterdam, Londra e Parigi. La moltiplicazione del numero delle filiali delle aziende commerciali gestite all’estero, perlopiù da parenti e figli, rende possibile l’estensione temporale del credito, inoltre le cambiali possono avere molteplici girate e diventano quindi più negoziabili. Va altresì ricordato il decisivo contributo della compagnia mercantile, nata verso la fine del XVII secolo, che apre nuove possibilità di commercio per piccoli e medi imprenditori inglesi, come nel caso della Virginia per l’acquisto del tabacco. Il commercio nella prima metà del XVIII secolo acquista la proprietà di essere multilaterale, coinvolgendo le tre principali nazioni in un sistema di riesportazioni e scambi che, col tempo, finirà per favorire maggiormente inglesi e francesi, mentre vedrà il declino dell’Olanda, penalizzata da pratiche restrittive e dall’aumento delle tasse su consumo e reddito, che, tuttavia, porterà avanti un significativo sistema di trasformazione in patria dei prodotti importati: cotone, lino, zucchero, tabacco e cacao. In un secolo e mezzo, il ruolo delle Americhe nel fornire beni ai Paesi europei si espande, a scapito dell’Asia, la cui competitività perde gradualmente terreno.
Con l’affermarsi delle idee favorevoli alla depenalizzazione dei beni di lusso e parallelamente al protrarsi della crisi della società mercantilista, il mondo europeo assiste a una vasta diffusione del commercio di tutti i prodotti, anche quelli di norma eticamente criticati, per il loro non essere indispensabili nella vita quotidiana. Ormai commercio e consumo dei beni di lusso sono ritenuti compatibili con la virtù e non portatori di degrado nei costumi. Nel suo Essai politique sur le commerce, Jean François Melon per primo afferma l’utilità del commercio, che permette «allo spirito della pace di illuminare l’Europa», sostituendosi al dannoso e vetusto «spirito di conquista»; il commercio è visto, perciò, come il motore della ricchezza della nazione, lo strumento principale per soddisfare le necessità della popolazione, i cui bisogni aumentano costantemente. Tra bisogni e produzione, egli individua una stretta correlazione, che reputa il vero fondamento della potenza e della ricchezza di uno stato. Il lusso, soddisfacendo l’uomo e le sue passioni, favorisce la sicurezza dei governi e, evolvendo rapidamente, dimostra l’inutilità della sua relegazione e fama in termini negativi e fissi, perché, ciò che un tempo era lusso nel senso di frivolo e inutile, al presente non lo è più e così sarà per altre merci nel futuro: il termine acquista quindi la valenza di parola senza idea e significato precisi. Melon è molto influenzato dalla lettura di Mandeville e di Pierre Bayle, che considerava il consumo del lusso derivante dalle passioni umane, così come gli altri consumi. Dutot rielabora le tesi di Melon analizzando il rapporto tra moneta di carta e moneta metallica, liberando il commercio dal pesante legame con la bilancia commerciale, e afferma che esso sgrava lo stato dai beni superflui che produce oltre il bisogno di consumo interno, permettendo di ottenere dall’estero i beni necessari altrimenti mancanti, arricchendo, inoltre, lo stato e il privato. Anche Montesquieu considera il consumo in rapporto con la libertà politica ed economica degli individui: la molteplicità dei rapporti negli scambi commerciali determina cambiamenti di abitudini e di gusto; gli uomini vedono affinare i propri modi grazie al «dolce commercio» e si vedono stimati come attori di un processo fondato su bisogni veri e non vani.
Il fine ultimo del commercio è la pace ed essa nasce dalla possibilità per le nazioni di creare dipendenza reciproca per soddisfare i bisogni di tutti. La connessione indispensabile tra libertà di commercio e libertà di consumo, difesa dai tre citati autori, opera una svolta nella storia, non solo economica, poiché l’interdipendenza deve attuarsi inevitabilmente in un clima di pace. Vincent de Gournay collega produzione, commercio e consumo alla libertà economica per tutte le attività, che deve essere tutelata dalla politica favorendo la concorrenza, secondo una nuova concezione della bilancia commerciale, vista come «il frutto dei molteplici rami meccanici del commercio». François Veron de Forbonnais, appartenente al circolo di Gournay, critica l’idea fisiocratica che ritiene la produzione industriale come una spesa sterile, poiché la ricchezza, sostiene, deriva da ogni produzione, volta a soddisfare bisogni reali quanto di opinione, compresi quelli di lusso, che per emulazione generano nei ceti inferiori voglia di fare e di elevarsi. Ogni scambio genera lavoro, rende la popolazione attiva e fa crescere la produzione, il tutto in un contesto che va analizzato operando necessariamente un’astrazione della morale, eliminando il pregiudizio verso il lusso e andando oltre il contrasto tra virtù politica e virtù economica. L’abate Galiani ritiene legati sviluppo produttivo e produzione di merci superiori, mentre Uztariz aggiunge che questo legame sia da estendere al commercio di tutti i beni, purché vi sia un intervento del governo all’atto della pianificazione della politica commerciale. Richard Cantillon afferma che il valore di un bene dipende dalla terra, da cui si trae ricchezza, e dal lavoro dell’uomo, delineando tre tipologie di consumo: di necessità, di benessere e di lusso. Le idee dei citati autori possono essere ricondotte ad una visione comune secondo la quale i bisogni sono fondamento di qualsiasi attività economica e i diversi tipi di beni possono essere sostanzialmente di tre tipi, di prima necessità, di comodo o di lusso, poiché favoriscono la comodità, oppure strumentali per produrre altri beni, e il loro consumo è da valutare necessariamente in relazione al rapporto tra reddito e livello di consumo.
I fisiocratici del Settecento francese ammettono libertà di commercio e di consumo, affermando, però, la necessità di salvaguardia dell’ordine naturale, fondato sull’agricoltura, l’unica attività che genera per loro prodotto netto, quindi vera ricchezza. Mirabeau, considerato uno dei padri fondatori della fisiocrazia insieme a Quesnay, sostiene che numerose attività non agricole portino forme di consumo negative e le associa alla corruzione dilagante in Francia, durante gli anni della crisi dell’antico regime. Il consumismo va sorretto donando maggiore libertà al commercio interno ed esterno, per permettere lo sviluppo di socialità e una divisione più accurata tra beni di lusso, intermedi o di prima necessità. Per Condillac, che radicalizza Locke in direzione sensista, fondamentale è il lavoro, il cui scopo è ottenere un vantaggio. Egli, inoltre, ritiene che il commercio moltiplichi i consumi e il lusso sia un concetto relativo, legato al grado di percezione della nuova comodità da parte del potenziale consumatore. Marcel de la Rivière, sensista pure lui, associa il diritto di proprietà alla libertà economica di consumare e di commerciare, insistendo sull’importanza del ruolo del diritto pubblico e privato nel raggiungimento del benessere sociale. Critiche a Mirabeau e a Quesnay arrivano da Jean Joseph Louis Graslin, il quale sostiene che la ricchezza è l’insieme di tutte le cose di qualsivoglia natura. La ricchezza della nazione aumenta con l’aumentare dei bisogni, che saranno soddisfatti in base al reddito personale disponibile. Operano distinzione tra lusso moderato e lusso eccessivo Nicolas Baudeau e Butini, entrambi ponendo l’attenzione sul fatto che il lusso moderato non causa l’impoverimento della nazione.
Nel «Trattato sulla Natura» David Hume, il gigante dei Lumi scozzesi, considera la passione non riconducibile alla ragione e pone la ragione stessa al servizio delle passioni, inserendone gli effetti nel delinearsi tra società civile e società naturale: nella prima la legge è positiva e le sue sanzioni favoriscono la collaborazione tra gli attori sociali, nella seconda ciò non avviene. Anche Adam Smith opera questa distinzione, differenziandosi così dalla fisiocrazia e contribuendo a svelare la secolarizzazione delle decisioni umane e la convinzione che non dipendano da una fonte esterna all’uomo. Il lavoro dell’uomo dà inizio alle azioni economiche che generano civiltà, la quale favorisce la divisione del lavoro, che a sua volta darà vita ad un ordine sociale stabile e, tramite il commercio, è possibile creare un sistema pacifico di scambi tra popoli e culture diverse. Col fiorire delle arti liberali ed affinandosi il gusto si favorisce il consumo dei beni di lusso, che gratificano i sensi, creano occupazione, incentivano lo sviluppo delle arti e delle scienze ed accrescono le risorse dello Stato. Sia il commercio di importazione, sia quello di esportazione, permettono e favoriscono lo sviluppo industriale, rendendo persino i ceti popolari in grado di entrare in contatto col lusso. La condizione necessaria per il commercio è la libertà decisionale degli attori economici, grazie alla quale, tramite lo scambio, si possono realizzare le connessioni tra produzione e consumo. Il mercato rende possibile l’aumento del reddito individuale e familiare.
Anche l’abate Genovesi, il capofila del newtonianesimo napoletano, tiene in considerazione il concetto di lavoro, che permette di tenere a bada le passioni, e considera i beni di lusso benefici, poiché il loro consumo permette un innalzamento del livello della società. Inoltre, egli opera una distinzione tra commercio estero passivo o eccessivo e commercio attivo o produttivo, che reca benefici all’uomo e incentiva la concorrenza. L’influenza di Genovesi su Juan Semper y Guarinos è riscontrabile nella sua «Storia del lusso», una decisa critica alle leggi suntuarie spagnole del XVIII secolo, in cui l’autore suggerisce al governo di scoraggiare l’uso di beni di lusso importati e di sostenere quelli prodotti all’interno del paese. Anche per lui, il lusso stimola l’industria, consente un’espansione dei consumi e contribuisce alla gloria e alla potenza della nazione. Analogamente, Saint-Lambert valuta gli effetti positivi del lusso, suggerendo un equilibrio nei consumi tra importazione e produzione interna, ponendo l’accento sull’importanza della libertà economica. Nel corso del XVIII secolo, la nuova società commerciale ha acquisito quindi coscienza di sé, ha posto l’individuo e le sue passioni al centro del sistema economico, valutando l’importanza e la mutevolezza dei bisogni, contribuendo alla legittima rivendicazione dei diritti e alla altrettanto legittima ricerca del benessere terreno, e ha consentito agli Stati di beneficiare di maggiori entrate grazie all’espansione dei consumi.
Ne «La ricchezza delle Nazioni» (1776), Adam Smith inserisce per la prima volta il concetto di consumo nella teoria economica, preceduto ed ispirato da Turgot e Verri, autori rispettivamente delle «Riflessioni sulla funzione e la distribuzione della ricchezza» e delle «Meditazioni sull’economia politica». Entrambi traggono spunto dal commercio e sostengono che l’inizio del processo economico sia la riproduzione, da cui derivano il risparmio dei redditi e dei prodotti che formano il capitale, e focalizzano l’attenzione sull’importanza degli scambi di beni, che creano nuovi valori. Il concetto di valore è considerato solo dal punto di vista soggettivo, in quanto manca l’individuazione del nesso tra quest’ultimo e il lavoro. Verri fa notare l’esistenza di un rapporto tra produzione annua e crescita economica, mentre Turgot sottolinea il costante mutamento tra economia e società, per effetto dello scambio e della circolazione mercantile. Per quest’ultimo, il lusso può portare alla distruzione dell’accumulo del capitale, poiché diminuisce la quantità di capitale da prestare ed espande la domanda di prestiti: sarà quindi maggiormente preferibile orientare le risorse negli investimenti, il tutto comunque in un mercato libero, e propone l’eliminazione di tasse inutili unitamente a una politica maggiormente liberale che favorisca anche le opere pubbliche e il sociale. In Verri, campione dell’Illuminismo lombardo sotto gli austriaci, il rapporto tra produzione e consumo è condizionato dalla bilancia commerciale, ha il punto di partenza nei bisogni umani ed ha il fine di raggiungere un equilibrio virtuoso, che permetta una migliore distribuzione della ricchezza. Individua tre classi sociali, in cui suddividere il popolo: riproduttori, mediatori e consumatori, che si differenziano da funzionari pubblici, magistrati, soldati ed ecclesiastici. Per la prima volta è definito il consumatore, che deve essere titolare di un reddito, e che partecipa indirettamente alla produzione, stimolando la domanda; non esiste un solo tipo di consumatore: si va dai possessori di redditi più elevati agli accattoni, ed ognuno di essi è autonomo e fondamentale nel processo che connette produzione e consumo.
Per Smith, il consumo «è il solo scopo e obiettivo di tutta la produzione» e il consumatore merita che il proprio interesse non sia sacrificato a quello del produttore. Tra etica ed economia individua uno stretto collegamento, riscontrabile in tutte le azioni umane, sociali ed individuali, guidate dalle passioni, in un meccanismo complesso, che si collega sempre alla simpatia e all’empatia. Le passioni virtuose volgono verso un miglioramento generale della società, consentendo addirittura il miglioramento del bene altrui. Smith analizza simpatia ed interesse personale, inserendoli in un contesto da cui possono essere distinti tre sistemi: sintattico, semantico e delle azioni. Da ciò, conclude che interesse personale e socialità, così come interesse personale e simpatia, non sono in contraddizione, poiché nel loro rapporto determinano la società di mercato. L’attività economica va regolata e limitata dalla giustizia e dalle forze di governo, nonché garantita dalla polizia, di modo che gli attori economici, esercitando una loro libertà naturale, non arrechino danno alla società.
Nella società commerciale, la divisione del lavoro assume un’importanza decisiva, è foraggiata dallo scambio per mezzo del denaro e dall’accumulazione del capitale e si sviluppa solo in rapporto ad esso. Insieme allo scambio, prende parte al sistema del mercato, in cui intervengono tutti gli attori economici, le cui azioni spesso determinano conseguenze involontarie. Necessarie sono la regolazione della giustizia e delle politiche governative, per limitare i contrasti nella società derivati dall’egoismo soggettivo degli individui, consentendo loro, tramite un approccio etico, di acquisire ricchezza, onori e privilegi. Il consumo è uno dei propulsori dell’estensione del mercato, muovendo i capitali e aumentando di conseguenza profitti, rendite, salari e ricchezza. Nelle società primitive questo non avviene, tuttavia le minime ricchezze determinano, in alcune di esse, una disuguaglianza tra gli appartenenti, che spinge l’uomo ad assumere atteggiamenti di comando e subordinazione. Per Smith, la disuguaglianza di reddito è essenziale per la comparsa del consumo e il salario monetario ne favorisce l’estensione. Importanza decisiva assume il fenomeno dell’urbanizzazione, che favorisce la tendenza al consumo degli abitanti, proporzionalmente alle dimensioni della città. Essa è il principale motore del consumo, grazie non solo al rapporto con la campagna e alla propria produzione, ma anche perché occupa una posizione centrale, raccordandosi al mercato estero. I nuovi consumi, per Smith, si diffondono dai ceti più abbienti e raggiungono quelli inferiori per merito dello spirito emulativo. Centrale è la figura del consumatore, i cui bisogni vanno soddisfatti, purché i vari interessi non ledano quelli del produttore. Nel consumo convergono i redditi del lavoro produttivo e di quello improduttivo, ed entrambi contribuiscono alla crescita economica. Smith ritiene, inoltre, che ogni uomo debba poter decidere liberamente quale parte del proprio reddito spendere ed in quale modo: distingue i beni necessari, di prima necessità e di comodo, e quelli di lusso, su cui, tuttavia, rifiuta di porre un giudizio morale riguardo l’uso. Se i primi sono indispensabili al sostentamento, quelli di comodo hanno confini labili, poiché spesso cambiano definizione col tempo, in seguito alla perdita della caratteristica stessa del lusso.
Parallelamente all’aumento delle importazioni dei tessuti indiani, dopo il 1710 cresce il consumo di beni di provenienza americana e asiatica ed, soprattutto, i nuovi prodotti - tè, caffè e tabacco - si diffondono anche presso i ceti popolari, ponendo in discussione il concetto di lusso. In buona parte dell’Europa, la discussione sulle proprietà e sulle critiche ai beni di provenienza extraeuropea prende piede a partire dalla metà del XVII secolo, pur essendo riscontrabili riferimenti ad essi già nel secolo precedente. Rumsey e Antaki producono scritti favorevoli al consumo del caffè, la Royal Society londinese indaga sui suoi effetti tra i soci residenti ad Aleppo, ma non mancano voci ostili, come il botanico Simon Pauli ed Anglo Cosmio. In Italia, Naironi nel 1671 pubblica uno scritto che esalta le proprietà della bevanda, mentre in Francia Jacob Spon nel 1685 per primo la elogia, insieme al tè e al cioccolato, finendo per influenzare le idee di Nicolas Blegny. Un decennio prima, in Francia è in corso una polemica contro il caffè ad opera della corporazione dei medici e, pochi anni dopo, Aignan propone di far consumare i prodotti autoctoni, perché ogni terra produrrebbe il giusto per i suoi abitanti, senza il bisogno di beni provenienti dall’estero. In Inghilterra, la medicina di Paracelso si oppone agli interessi mercantili della East India Company, svelando un retroscena di interessi non solo medici, ma anche economici, a tutela dei proprietari rurali, minacciati dalla società mercantile. Nell’ultima fase del Seicento, in Inghilterra e in Francia fioriscono le caffetterie e le cioccolaterie, nuovi centri di aggregazione sociale al posto delle taverne ed i suoi frequentatori sono studiosi, persone con un ruolo definito nella società, nonché giovani provenienti da famiglie rispettabili. Al loro interno si diffondono opuscoli che esaltano le proprietà delle nuove bevande, come al «Rainbow Coffe-House» di Londra, dipingendole talora come elisir salutari. Jean La Roque parla dell’origine e della diffusione del caffè, analizzandone il consumo a partire dal 1670 a Marsiglia, per giungere ai primi anni del secolo successivo e notare un forte incremento delle caffetterie nelle principali città francesi. James Douglas scrive una storia sulla pianta del caffè, ne descrive le due principali rotte commerciali dal centro di origine di Moka nello Yemen. In Italia, Civinini nel 1725 ne sancisce la non pericolosità per la salute umana, seguendo in ciò una tendenza presente anche nel resto del continente.
J.F. Melon sostiene l’esistenza di «isole di un lusso nuovo» che producono i nuovi bisogni, seta, tabacco, caffè, tè e zucchero che, aggiungendosi ai prodotti europei, favoriscono lo scambio e la crescita della nazione, generando benefici tra i consumatori, ceti popolari compresi. Lacombe de Pierrel afferma che il consumo dei beni di lusso e di comodo favorisce gli scambi, saldando il commercio interno con quello esterno, focalizzando l’attenzione sullo zucchero, la cui trasformazione in Europa lo rende molto gradevole ed ambito. Un medico francese, Lemery, nella seconda metà del XVIII secolo, propone uno studio sul ruolo degli alimenti nel determinare lo stato di salute, arrivando a considerare nocivo solo il tabacco. Oramai, non si trovano più giudizi morali sui beni extraeuropei di lusso, a testimonianza della loro diffusione e del fatto che sono percepiti come di seconda necessità o di comodo. Butini mette in guardia dal lusso eccessivo, pur esaltando le proprietà del commercio, che ha permesso, tramite i beni di lusso, che anche famiglie di bassa estrazione potessero usufruirne, cosa impensabile solo pochi decenni prima. Altri autori che parlano della diffusione dei nuovi beni e delle loro ripercussioni positive sono Moya in Spagna, Mosley in Inghilterra, Bona e Verri in Italia, quest’ultimo in quella Milano che è nel Settecento la capitale dei Lumi giuridici ed economici.
Per Adam Smith i beni extraeuropei hanno creato nuove divisioni del lavoro e nuovi progressi nelle arti, ampliando il mercato, ma è importante pure la sua critica al colonialismo, che favorisce un monopolio di pochi. Ciononostante, l’ampiamento del mercato generatosi contribuisce in modo netto all’aumento della produttività e del reddito, sia nelle aree europee, sia in quelle extraeuropee. Similmente, Simac de Meilhau sostiene che il progresso tecnologico ha reso più efficiente l’industria, rendendo possibile la diffusione anche presso i ceti più poveri di beni un tempo riservati ai più abbienti e questo progresso è stato determinato anche dal commercio dei beni di lusso extraeuropei.
Smith opera una differenza tra consumo immediato e consumo durevole e la rapporta al consumo totale, togliendo definitivamente al lusso le caratteristiche di ostentazione e di vanità dell’epoca precedente. Il consumo di beni durevoli permette agli individui di essere produttivi, contribuendo allo sviluppo economico dello Stato e alla sua crescita nel campo sociale. Consumo ed accumulo di capitale sono collegati e il loro rapporto dipende dallo stadio progressivo, stazionario o decadente in cui agisce la società commerciale, per la quale fondamentale è il rapporto tra consumo e produzione. Il salario subisce un’evoluzione che influenza il rapporto citato, dipendendo dalla domanda di lavoro e dal prezzo dei generi di sussistenza e di comodo. Nel già citato Le Isole del Lusso, Carmagnani critica l’affermazione di Smith secondo cui l’imposta sui beni di lusso non influirebbe sul salario, e la inserisce, con un certo sforzo, nell’analisi del bilancio familiare e del ruolo dei prezzi relativi dei beni, senza tuttavia convincersene. Per Smith, la prosperità di una nazione si individua non partendo dalla bilancia commerciale, ma tenendo conto del valore di scambio dei prodotti e del lavoro del paese, che si evidenzia nell’aumento del reddito annuale degli abitanti. Elabora, inoltre, il concetto di prodotto interno monetario, ossia il valore in termini monetari di scambio del prodotto annuale della terra e del lavoro, escludendo la produzione auto-consumata: da esso sottrae il valore dei beni di consumo immediato e lo fa coincidere col risparmio nazionale, elaborando i presupposti della contabilità nazionale. L’affermazione che il consumo è il solo obiettivo di tutta la produzione è, perciò, alla base del cambiamento di pensiero che nel secolo XVIII rese obsoleto il mercantilismo, visto come una vera e propria limitazione della libertà naturale.


Nell'immagine, La pagina di copertina del libro di Adam Smith, La ricchezza delle nazioni.


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Documento inserito il: 30/11/2024
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