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La sicurezza dell’Adriatico: la risposta veneziana

di Federico Moro


«We have no eternal allies and we have no perpetual enemies. Our interests are eternal and perpetual and those interests it is our duty to follow (Non abbiamo alleati eterni e non abbiamo nemici perpetui. I nostri interessi sono eterni e perpetui e questi interessi è nostro dovere perseguire).»(1)

«(…) tutta l’azione normanna, si allinea meglio all’impulso che spinge le energie politiche italiche ad espandersi nel Mediterraneo verso Oriente, pur mettendosi in reciproco conflitto per la conquista dell’egemonia marittima.»(2)


All’alba dell’anno 1000 la situazione geostrategica veneziana richiede massima attenzione perché cresce la pressione lungo la frontiera terrestre e i traffici via mare, fondamento esistenziale della comunità lagunare, sono minacciati tanto dalla pirateria che dalla concorrenza. In particolare sull’essenziale mercato di Costantinopoli. Narentani, Arabi e Amalfitani rappresentano altrettante sfide mortali(3). La risposta del governo del doge Pietro II Orseolo configura quella che definiamo Dottrina Orseolo: un insieme di principi da cui deriva una strategia attuata attraverso un ventaglio di soluzioni tattiche destinato a diventare la bussola della geopolitica veneziana. Sino alla caduta della Repubblica, nel 1797. Tale Dottrina si distilla dall’azione politico-militare del governo lungo l’intero dogado di Pietro II, quindi dai trattati e dalle campagne navali. Un caso di applicazione della Teoria della Complessità, dove alla carenza di testi scritti, le “fonti”, si sopperisce combinando le informazioni per cogliere l’emergere del nuovo dalle dinamiche verificate.
Premessa della Dottrina Orseolo è la valutazione delle costanti geopolitiche di lungo periodo su cui s’innesta l’interesse nazionale veneziano, da cui deriva l’adozione di misure capaci di tutelarlo. Da qui viene la concezione per cui la libertà delle rotte commerciali a lungo raggio, marittime e terrestri, e la piena agibilità dei loro terminali, in particolare Costantinopoli e Pavia, è necessaria alla prosperità e alla stessa sopravvivenza della comunità lagunare. Il primo passo consiste nel rendere irreversibile la scelta marittima dei predecessori. Le suggestioni verso la terraferma, ancora forti sotto il dogado di Pietro IV Candiano, vengono scardinate dalle priorità marittime e a queste rese funzionali. Pietro II Orseolo sviluppa una quadruplice iniziativa simultanea: verso i due imperi, Bizantino e Sacro Romano; le potenze musulmane della sponda meridionale del Mediterraneo; le realtà intermedie croate e narentane, collocate là dove si trovano strozzature geografiche decisive(4).
La prima preoccupazione riguarda Costantinopoli. Nel marzo 992 una missione veneziana ottiene dai regnanti Basilio II e Costantino VIII una crisobolla che inquadra e definisce la presenza dei Veneziani nell’Impero orientale. Diventerà la base di partenza per una serie di trattati che giungerà sino alla sua caduta nel maggio 1453. Il testo è giunto in una cattiva traduzione dell’originale greco, ma nella sostanza prevede uno scambio su base paritaria: Venezia garantisce la logistica marittima per le forze bizantine rimaste nell’Italia meridionale in cambio di tariffe agevolate, semplificazioni burocratiche e libertà di accesso ad alcuni mercati dell’Impero. Delinea lo schema tipico dell’approccio veneziano alla libertà di commercio, intesa come acquisizione di condizioni di privilegio rispetto alla concorrenza. Tra poco tale pretesa verrà sostanziata dalla minacciosa presenza di squadre navali pronte a esercitare adeguata pressione militare sulla controparte(5).
In maniera analoga la diplomazia lagunare si muove con le potenze musulmane e l’Egitto in particolare. Soddisfacenti sulla carta, gli accordi restano, però, largamente inapplicati, soprattutto per la parte relativa alla pirateria, che continua a colpire le navi veneziane. Non si deve dimenticare che Alessandria d’Egitto rappresenta dopo Costantinopoli il secondo mercato per il commercio veneziano e la marineria musulmana una sua concorrente strutturale. È la grande differenza che intercorre rispetto a quella bizantina, ormai residuale. Da qui la frequente comunanza d’interessi, economici e geostrategici, tra Impero orientale e Dogado.
Nel luglio 992, Pietro II Orseolo conclude il rinnovo degli accordi già in essere anche con l’imperatore occidentale, Ottone III. Nel capitolo I del trattato viene riaffermata l’intangibilità dei «fines Venetiarum», concetto assai diverso da quelli di proprietas e predia e che dimostra ancora una volta la già lunga indipendenza di Venezia da chiunque(6). Il nuovo corso impresso al rapporto con l’Impero Sacro Romano si concretizza nella favorevole, per Venezia, risoluzione del contenzioso esistente con il vescovo di Belluno in merito alla via d’acqua del Piave. Vale a dire una delle arterie principali tra il mercato realtino e la Germania. Il doge riesce a respingere le pretese di controllo del vescovo e a ristabilire la situazione preesistente(7).
Nell’occasione Pietro II Orseolo inaugura una postura assertiva sostenuta da spiegamento di forza militare, secondo uno schema che diventerà tipico dei Veneziani: trattare, tenendo pronto ad agire lo strumento bellico. Nel momento in cui il vescovo di Belluno e il suo superiore feudale diretto nella Marca Veronese, il duca Enrico, oppongono resistenza al missus imperiale Brunone, che porta le decisioni imperiali favorevoli al Dogado, scattano immediate le rappresaglie veneziane sulla frontiera, a cominciare dal blocco del commercio di un prodotto essenziale quale il sale. A Verona, nel marzo 996, Ottone III ribadisce il proprio appoggio alle ragioni veneziane. Il vescovo di Belluno, però, continua a tergiversare. La diplomazia dogale riesce comunque a sottrargli il supporto dei vescovi di Ceneda e Treviso, costringendolo a capitolare(8). Pietro II Orseolo completa l’opera alzando una serie di fortezze a controllo dei sorgitori fluviali tra cui spicca il gironum sul Lemene. Al momento di rientrare in Germania, Ottone III rilascia un nuovo diploma che sottolinea la libertà di commercio veneziana e l’intangibilità di beni e persone nei mercati lungo l’Adige e il Po, con particolare riguardo alla capitale del Regno, Pavia(9).
Cuore della Dottrina Orseolo resta comunque la geopolitica adriatica. L’arretramento bizantino da quella che era stata un tempo la Prefettura dell’Illirico, trasformata in Tema con capoluogo Durazzo dalla riforma di Basilio II con abbandono però della Dalmazia, porta all’espansione di nuove realtà imperiali: dagli Avari ai Bulgari per finire con i Serbi. L’incapacità carolingia e ottoniana d’imporre il proprio controllo sull’area aveva favorito il fiorire di una serie di microstati locali, dominati da singole personalità e parte di fragili alleanze. Nelle cronache incontriamo grandi zupan croati, duchi narentani e signorotti sloveni, ma nessuno di questi assurge al rango di egemone, spesso neppure a quello di stato organizzato. Ciò rende la realtà geostrategica della zona quanto mai complessa e, di conseguenza, insicure le rotte marittime con il relativo danno al commercio. Allo stesso tempo, però, dischiude prospettive impensabili di guadagno ed espansione politico-militare a chiunque abbia i mezzi e la volontà per tentare la sorte. Aiuta in questo la debolezza strutturale e la vocazione esclusivamente terrestre del Sacro Romano Impero: il mare non è di nessuno, dunque, libero in un certo senso ovvero di chi se lo prende. La grandezza di Pietro II Orseolo è di comprenderlo e di elaborare un’efficace azione incernierata sui concreti interessi veneziani. Prima, però, consolida l’alleanza con Ottone III e l’occasione è offerta dalla richiesta imperiale di un passaggio navale da Ferrara a Ravenna(10).
Il doge esplora in un primo momento la via negoziale per stabilizzare la situazione sulla sponda orientale adriatica. Il fallimento lo spinge verso l’opzione militare. Il pretesto viene offerto dall’offensiva croato-narentana contro le residue città latine della costa, le quali già in passato avevano sollecitato un intervento veneziano. Il terreno viene preparato anche dal punto di vista formale partendo proprio dalla richiesta di aiuto e il riconoscimento dell’autorità del doge da parte delle realtà istro-dalmate. Nel maggio dell’anno 1000, il giorno dell’Ascensione, una potente flotta salpa da Venezia al comando di Pietro II Orseolo(11). Pare si debba collegare a questa occasione l’istituzione della Festa della Sensa con la cerimonia dello Sposalizio del Mare, che si ripete ancora oggi. Forse è solo un altro dei tanti Miti veneziani, tuttavia è significativo che l’evento sia stato considerato tanto importante da meritare l’accostamento. Perché, in effetti, lo è.
La squadra sosta una prima volta a Parenzo, in Istria, quindi prosegue per Pola e Ossero, dove arriva il 5 giugno. Questi centri riconoscono l’autorità dogale ed entrano nell’orbita veneziana. Soprattutto, diventano scali del filo di perle della catena di basi marittime che Pietro II Orseolo ha deciso di creare a tutela della rotta orientale adriatica(12). Da qui, la flotta parte per eliminare le formazioni pirata e i loro nidi di resistenza. Una divisione veneziana intercetta, al largo dell’isola di Cazza, nell’arcipelago di Lagosta nella Dalmazia meridionale, un convoglio narentano in fase di rientro dalla Puglia. Lo cattura. Intanto, una seconda divisione blocca Traù nella Dalmazia centrale, a circa 30 chilometri da Spalato. Con un’operazione anfibia a forze combinate, Pietro II Orseolo espugna la roccaforte croata di Zaravecchia, oggi Biograd, e infine raggiunge Zara. L’esibizione di forza veneziana spacca il fronte avversario, con i potenti locali che fanno a gara a sottomettersi per non mettere in pericolo beni e posizione personale. Persino il duca narentano cerca un accordo separato. Resistono ormai solo Curzola e una manciata di isole del sud. Lagosta si rivela un osso duro, in particolare per la natura del terreno, che costringe il corpo da sbarco veneziano a un lungo e difficile assedio. La campagna porta il doge fino a Ragusa, oggi Dubrovnik, con la quale Pietro II Orseolo conclude un vantaggioso accordo. A questo punto, soddisfatto dei risultati sul campo, rimette la prua a nord ripercorrendo la medesima rotta già seguita, per rinforzare il messaggio di potenza appena inviato. Rientra fregiandosi del titolo di dux Veneticorum et Dalmatinorum(13).
La spedizione dell’anno 1000 segna la nascita del concetto di Stato da Màr come catena di basi(14) la cui missione è quella di garantire la sicurezza delle rotte marittime, attraverso il supporto offerto dalla flotta e alla flotta. La Dottrina Orseolo trova piena realizzazione. Il dominio del mare, a partire dall’Adriatico, che non per caso i Veneziani finiranno per chiamare semplicemente il “Golfo”, diventa la bussola in grado di orientarne l’intera geopolitica. Tra il 1002 e il 1003, la Dottrina Orseolo trova nuova applicazione lungo un’altra delle costanti veneziane di lungo periodo: quella che porta le navi di San Marco in Puglia, al fine di prendere pieno controllo del Canale d’Otranto e imporre la propria egemonia all’interno fin dove possibile. La Puglia, del resto, è necessaria a Venezia per due materie prime fondamentali, grano e sale. Da sottolineare come, ancora una volta, la flotta si muova in nome dell’interesse nazionale e, al contrario del caso dalmata, in assenza di pretesti o coperture formali e solo all’interno di una logica di potenza. La quale pretende la propria libertà di navigazione. Il crollo della residua presenza bizantina, del resto, dischiude le porte all’avanzata araba. Se questa avesse successo consegnerebbe le coste pugliesi al peggiore concorrente marittimo e avversario navale(15). L’Armata Veneziana sfoggia una formidabile efficienza, in particolare nelle operazioni anfibie a forze combinate. Diventerà la principale caratteristica dei rinnovati exercitus et classis Venetiarum, la chiave per comprenderne i futuri successi.
Una delle conseguenze del primo trionfo adriatico di Pietro II Orseolo è l’incontro personale e segreto a Venezia con l’imperatore Ottone III. Promosso e ricercato da quest’ultimo, avviene dopo laboriose trattative e trasferimenti notturni a Palazzo Ducale. Non è per niente chiaro il perché di tanta segretezza(16). Con ogni probabilità nell’ottica ottoniana dovrebbe portare a un obiettivo analogo già inseguito invano dall’impero con il defunto doge Pietro IV Candiano. Vale a dire l’integrazione dello stato veneziano e, soprattutto, della sua formidabile flotta all’interno della geo-strategia imperiale. Una prospettiva resa ancora più allettante per il sovrano germanico alla luce dell’acquisita egemonia adriatica da parte del Dogado, perché capace di dare proiezione di forza a un impero sprovvisto di forze navali. Se le motivazioni ottoniane sono chiare, altrettanto lo sono le ragioni della resistenza veneziana. Non si vede quale vantaggio, infatti, dovrebbe venire allo stato lagunare dal subordinarsi all’Impero, visto che le condizioni da questo elargibili sono già patrimonio acquisito da tempo. Oltretutto la nuova postura lagunare garantisce ai suoi uomini un grado di autonomia fin lì impensabile, ponendoli su un piede di parità con le maggiori potenze mediterranee(17). Nonostante questo, Pietro II Orseolo riesce a conservare buoni rapporti sia con Ottone III che con il successore, Enrico II, il quale conferma gli accordi in essere. L’abilità manovriera del doge viene confermata dal matrimonio del proprio figlio Giovanni con una principessa bizantina(18).Uno dei meriti maggiori di questo grande doge, comunque, resta la pacificazione interna. L’aver placato le discordie civili gli permette di reintrodurre l’istituto della correggenza, al quale viene chiamato Giovanni, mentre riesce a distribuire tra gli altri figli le maggiori cariche ecclesiastiche. Il fatto di raggiungere l’obiettivo attraverso le normali procedure previste non cambia la sua natura nepotistica, tesa a mantenere e ampliare il peso della famiglia Orseolo all’interno dello stato. La fine dei conflitti interni gli concilia comunque il favore popolare, grazie al maggior livello di sicurezza e prosperità economica garantiti dal suo governo.
Pietro II Orseolo rafforza anche l’indirizzo evergetico nell’utilizzo del patrimonio personale, per altro all’epoca in nulla distinto da quello pubblico, avviato già dal padre con l’Ospizio Orseolo realizzato in Piazza San Marco tra il 976 e il 978. Pietro II allarga, però, il raggio d’azione dei suoi interventi sino alla frontiera del Dogado, da Grado a Eraclea Infine, alla luce dei precedenti, predispone la suddivisione dei propri beni tra gli eredi per evitare il sorgere di contenziosi. Supera anche la premorte del figlio correggente, Giovanni, facendo assumere la carica a un altro figlio dal significativo nome di Ottone(19).
Il lascito politico di Pietro II Orseolo, del resto, è notevole anche proprio sul lato terrestre dei confini veneziani. Recupera lo strategico Castello di Loreo e il relativo territorio(20); si ripete a Eraclea contro le appropriazioni del vescovo di Belluno(21); quindi a Cavarzere che si era allargata in direzione della laguna. La centralizzazione politica, resa plasticamente dalla capacità del doge di manipolare il placito indirizzandolo secondo la propria visione e dal rinforzarsi della figura dei gastaldi, funzionari di nomina centrale sul territorio, prosegue senza però riuscire a eliminare le esistenti forme di autonomia locale. Questo vale in particolare per la periferia del Dogado, da Grado a Equilo, Loreo, Chioggia(22). Tuttavia l’organizzazione politico-amministrativa prevede il rapporto diretto tra Palatium e Curtis Palatii e i gastaldi: questo trasforma curiosamente i funzionari periferici nei più tenaci difensori delle prerogative decentrate. Come dimostra il mantenimento degli statuti particolari, tra gli altri, delle località dalmate da poco integrate nello stato(23).
L’interesse della Dottrina Orseolo e dell’azione politica generale di Pietro II è nella capacità di ricombinare di continuo, in modo nuovo e spesso originale, le tessere del mosaico geostrategico grazie a una chiarezza concettuale che permette ai decisori di cavalcare con rapidità ed efficacia le mutevoli onde dell’orizzonte geopolitico in virtù del principio cardine «Non abbiamo alleati eterni e non abbiamo nemici perpetui. I nostri interessi sono eterni e perpetui e questi interessi è nostro dovere perseguire.» Non a parole, ma nei fatti.


Nell'immagine, le rotte commerciali medievali.


Note:

(1) Henry, J. Palmerston, 1848, Treaty of Adrianople, charges against Viscount Palmerston, HC Deb 01 March, vol. 97, cc-122 (intero discorso Ivi cc 66.123), api.parliament.uk/history.
(2) Roberto, Cessi, 1965, Venezia Ducale, II, 1 Commune Venetiarum, Venezia, Deputazione di Storia Patria, p. 87, n.1.
(3) Liutprandi, «Relatio de legatione constantinopolitana», Anapodosis, Monumenta Germaniae Historica, Hannover, Pertz-Waitz, 1826-1886 (= MGH) Script. III, pp. 350 e 357-359. (4) Giovanni, Diacono, 1890, Chronicon Venetum et Gradense, Giovanni Monticolo (cur.), Fonti della Storia d’Italia e del Reale Istituto Storico Italiano, Roma (=Iohan. Diac. Chron.) p. 149.
(5) Ibidem. (6) MGH Constit. I, pp. 45 e segg, n. 20; Ivi, Diplom. Reg. et imp. II, pp. 511 e segg.
(7) Ivi, Diplom. Reg. et imp. II, pp. 571 e segg; Iohan. Diac. Chron. pp. 149-150.
(8) Iohan. Diac. Chron. pp. 150-152.
(9) MGH Diplom. Reg. et imp. II, pp. 600.
(10) Iohan. Diac. Chron. pp. 154.
(11) Ivi, p. 155. (12) Ivi, p. 156. (13) Ivi, pp. 157-160. (14) Alfred T. Mahan, 2007, The influence of Sea Power Upon History, 1660-1783, A.E. Warren (cur.), eBook The Project Guttenberg, gutenberg.org, p. 514.
(15) Iohan. Diac. Chron. pp. 165-166; Annales Barenses, MGH Script. V, p. 53.
(16) Iohan. Diac. Chron. pp. 160-162.
(17) Ivi, pp. 163-170; MGH Dipl. reg. et imp. III, p. 830.
(18) Iohan. Diac. Chron. pp. 165-168.
(19) Ivi, pp. 169-170.
(20) MGH Const. I, p. 44, n. 20; ivi, Dipl. reg. et imp. II, p. 511.
(21) Iohan. Diac. Chron. p. 150.
(22) Andrea, Gloria, 1877, Codice diplomatico padovano, dal secolo sesto a tutto l’undicesimo, Venezia, Deputazione Veneta di Storia Patria, I, p. 114, n. 82.
(23) Iohan. Diac. Chron. p. 171.

Documento inserito il: 08/03/2025
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