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Cibele e altri culti orientali nella Siracusa romana

di Giorgia Bana


Cibele è un’antica dea Madre asiatica, conosciuta e venerata nel Mediterraneo dagli inizi del VI secolo a.C. circa. La dea, come ha sottolineato Philippe Borgeaud, è una divinità senza nome a cui i fedeli si rivolgono con epiteti differenti in base alle diverse località. Infatti, tali epiteti rimandano a specifici toponimi, come ad esempio “Grande Madre Idea”, che deve il suo nome al monte Ida nei pressi di Troia. Il teonimo greco-romano “Cibele” potrebbe appunto significare “Madre della Montagna”, in quanto deriverebbe dal frigio “Matar Kubileya/Kubeleya”.
Cibele era strettamente legata alla divinità nord-siriana Kubaba, diffusasi in Asia Minore nel corso del II millennio. I frigi della capitale Gordion, che avevano tessuto una rete di rapporti con Karkemiš in Siria, centro principale del culto di Kubaba, avrebbero preso il teonimo e creato un corrispettivo nella loro lingua, ovvero “Kubile”. Tale ipotesi trova sostengo in una serie di ritrovamenti archeologici e nelle fonti antiche che testimoniano i rapporti di carattere politico e culturale tra questi due poli. Il dibattito circa l’etimologia e la morfologia di questi termini, che potrebbero essere teonimi ma anche aggettivi o toponimi, è ancora aperto. È innegabile l’assonanza tra il nome della dea nord-siriana e i termini associati alla Madre frigia. Anche dal punto di vista iconografico le rappresentazioni frigie si avvicinano molto a quelle tardo-ittite della dea in posizione frontale inserita in una sorta di rudimentale naiskos.
È la signora degli animali (potnia theron) e dei luoghi selvatici, che incarna la dualità della natura possedendo la capacità di creare e, allo stesso tempo, la facoltà di distruggere. Rappresenta anche la terra, la fertilità, il mondo sotterraneo ed è legata al mistero della nascita e della morte.
In Asia Minore ebbe un ruolo centrale il santuario di Pessinunte, antica città della Frigia, dove nacque anche il mito che la vede protagonista. Si racconta che Zeus nel tentativo di rapirla, mentre la dea dormiva sotto forma di roccia, eiaculò involontariamente a terra. Essendo Cibele la terra stessa, rimase incinta e partorì un figlio mostruoso e bisessuato chiamato Agdistis. Dioniso riuscì a reprimere la natura violenta di questa creatura facendolo prima ubriacare fino allo svenimento, e poi legando i suoi organi genitali al ramo di un albero; in questo modo quando questi si alzò in piedi si strappò via i genitali. Dal sangue che sgorgava dalla ferita nacque un mandorlo, o un melograno a seconda delle versioni. La ninfa del fiume Sangario prese un frutto dall’albero, e appoggiandolo sul ventre concepì un figlio. Il dio del fiume, e padre della ninfa, ripudiò la figlia ed espose il bambino subito dopo la sua nascita. Cibele intervenne a favore della madre e del figlioletto, permettendogli di crescere e di diventare un bellissimo giovane chiamato Attis. Con il tempo la dea si innamorò del giovane e riuscì a sedurlo, ma questo idillio durò ben poco. Quando la dea scoprì che il suo amato l’aveva tradita scatenò in lui una disperata follia che portò il giovane a evirarsi sotto un pino, morendo dissanguato. Secondo Pausania e Arnobio Cibele raccolse i suoi genitali, li avvolse in un lembo di tessuto, e li seppellì; in questo modo risparmiò dalla corruzione i resti del giovane Attis.
Il culto di Cibele viene importato a Roma con uno stratagemma assai particolare per volere della classe senatoria. L’episodio in questione viene narrato da Tito Livio. Nel 205 a.C., quando l’esercito romano era impegnato contro quello cartaginese di Annibale, ed era in grande difficoltà, il senato venne a conoscenza di una profezia custodita nei libri Sibillini. La profezia dichiarava che in caso di invasione straniera l’Italia sarebbe stata liberata solo se la Madre Idea fosse stata condotta da Pessinunte a Roma. Inoltre, la vittoria del popolo romano venne confermata anche dall’oracolo pitico a cui un’ambasceria aveva donato delle offerte; questi dichiarò che Roma avrebbe vinto un bottino decisamente più grande dell’ultimo conquistato.
Il senato inviò una delegazione alla corte di Attalo, re della Frigia, per trasportare il betilo, cioè la pietra nera con cui veniva identificata la dea, a Roma. Fu Publio Scipione Nasica a ricevere il simulacro alla foce del Tevere e, insieme a un gruppo di matrone, tra cui spicca la figura di Claudia Quinta, a portarlo nel tempio della Vittoria sul Palatino. Questo evento fu anche teatro di un “miracolo” che vede protagonista Claudia Quinta nei panni di una vestale dalla pessima reputazione. La donna riuscì a mettere a tacere le chiacchiere e a ristabilire il suo nome grazie all’intervento della dea, che garantì la sua purezza permettendogli di compiere un miracolo. Quando la nave che trasportava il simulacro si incagliò alla foce del Tevere, Claudia Quinta iniziò a camminare verso il tempio e l’imbarcazione la seguì come sotto incantesimo. Tale episodio venne narrato nei Fasti di Ovidio e immortalato su un altare conservato oggi nei Musei Capitolini, nelle Sale dei Culti orientali.
Per celebrare l’ingresso della grande dea, che già nel primo anno garantì un raccolto eccezionale, e pochi anni dopo, nel 202 a.C., consentì la vittoria di Scipione l’Africano sul condottiero cartaginese, vennero inaugurati i giochi chiamati Megalensia. Durante tali cerimonie, che si svolgevano nel mese di aprile, i partecipanti donavano a Cibele focacce al formaggio ed erbe, e assistevano a spettacoli teatrali e giochi circensi. Precedentemente, verso la fine del mese di marzo, la statua raffigurante la dea era stata portata in processione fino all’Almone, uno degli affluenti del Tevere, per venire benedetta insieme agli oggetti rituali in una cerimonia detta lavatio.
Nel mondo romano si celebravano anche i Tristia, festività legate al lutto, a cui facevano seguito gli Hilaria, ovvero feste all’insegna della gioia. Tali cerimonie erano basate sulle parti salienti del mito, cioè la morte e la resurrezione di Attis, che rappresentava “l’archiviazione” dell’anno passato e la nascita dell’anno nuovo, quindi la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. Coloro che si consacravano al culto della dea dovevano emulare il gesto estremo compiuto dal suo paredro: automutilarsi gli organi genitali. Chi voleva diventare sacerdote di Cibele si autoevirava durante il rituale di iniziazione in uno stato estatico e delirante. Secondo Frazer l’atto di offrire il membro significava donare la forza fecondatrice alla Madre terra. Questa interpretazione è stata contestata da filologo inglese Onians, le cui ricerche avrebbero messo in luce la tendenza in antichità a identificare come sede del liquido seminale la testa; il ruolo dei testicoli sarebbe stato quello di canale attraverso cui il liquido transitava per essere espulso. Il Filologo, però, non è stato in grado di dimostrare questa tesi poiché non ha fornito un quadro chiaro e completo delle fonti a sostegno.
La pratica dell’evirazione causò un certo scompiglio nella popolazione romana fin dalla sua introduzione, tanto da interdire l’accesso alla cerimonia ai cittadini; questi potevano entrare nel circuito del culto come sodalitates, cioè come simpatizzanti senza gli obblighi a cui venivano sottoposti i sacerdoti ufficiali. Il primo sacerdote eunuco votato alla dea fu il cittadino romano Genucio, ordinato nel 101 a.C.; è interessante notare che solamente l’anno precedente era stato condannato all’esilio uno schiavo appunto per aver praticato l’autoevirazione in onore di Cibele. I sacerdoti del culto venivano chiamati “galli”, ed erano tendenzialmente di nazionalità frigia fino al regno di Claudio. Stando alle varie rappresentazioni pittoriche durante le processioni indossavano indumenti dai colori sgargianti e suonavano strumenti come il flauto, il tamburello, il cembalo e il corno. L’imperatore Claudio si dimostrò più aperto nei confronti della cultura e dei culti stranieri; difatti il divieto di presenziare alle cerimonie del culto dedito alla dea venne meno. Il collegio sacerdotale dei quindecemviri, organo che si occupava di sorvegliare sulle religioni straniere, partecipò alla cerimonia per la Grande Madre e da questo momento in avanti si scorgono nomi romani tra i galli e l’archigallus, il capo dei sacerdoti. Quest’ultimo veniva chiamato “Attis populi Romani”, cioè Attis del popolo di Roma, e appariva come una figura effemminata, acconciato e agghindato in maniera femminile. Basti vedere il famoso rilievo custodito nel museo Capitolino che ritrae un archigallo con il capo sormontato da tre medaglioni, che porta al collo una grande icona a mo’ di collana, ed è circondato da simboli e oggetti cultuali.
In epoca successiva al regno di Claudio vennero introdotte delle nuove cerimonie in onore, non solo di Cibele, ma anche di Attis, che si svolgevano dal 15 al 27 marzo secondo il calendario di Filocalo. Le celebrazioni iniziavano con la processione del collegio dei portatori di canne fino al tempio di Cibele. Il giorno seguente aveva inizio il “castus Matris deum”, ovvero il tempo dell’astinenza verso alcuni alimenti e l’atto sessuale per partecipare alla vicenda dolorosa e luttuosa della dea. Questa fase di astinenza e purificazione durava fino al 22 marzo e culminava con la celebrazione chiamata “arbor intrat”: il collegio dei dendrofori entrava all’interno del tempio trasportando il pino sacro addobbato da viole, nastri, immagini del compianto defunto e gli strumenti rituali tipici del culto. Dal 22 al 24 marzo si susseguivano delle feste dai toni luttuosi e disperati chiamate tristia. Il 24 si festeggiava il “dies sanguinis”, una sorta di Venerdì Santo in cui si praticava il digiuno, l’autoflagellazione, autopunizioni varie, e forse l’autoevirazione. Il giorno seguente era all’insegna della gioia, e difatti si celebravano gli hilaria, cioè le feste in onore del ritorno di Attis. Il 26 si dedicava la giornata al riposo, requietio, e l’ultimo giorno si concludeva con la lavatio, la benedizione con l’acqua dell’Almone. Pare che all’operato di Claudio debba essere ascritta anche la figura dell’archigallo che, nonostante fosse al vertice della gerarchia del culto frigio, non praticava l’autovirazione. Secondo svariate fonti questa figura aveva la facoltà di entrare in contatto con la dea per divinare il compimento del taurobolium.
Il taurobolio, spesso legato al criobolio, quindi l’atto di sacrificare un esemplare di toro e di ariete, diventa il rito centrale del culto frigio in età imperiale, verso circa la seconda metà del II secolo d.C. Inizialmente tale cerimonia appare dal carattere “aperto” e connessa a una dimensione più pubblica, essendo praticata per l’imperatore e i suoi parenti, per i coloni e alcuni municipi; con il tempo questo sacrificio tende a essere praticato in contesti più privati ed elitari per la purificazione dell’individuo.
Il culto di Cibele e del suo paredro subì una evoluzione nel corso del tempo: da culto mistico divenne culto misterico in età imperiale. Già in epoca ellenistica le cerimonie in onore della dea si contraddistinguono per un certo esoterismo e il carattere iniziatico. Le parole di autori cristiani come Clemente Alessandrino (II- III secolo d.C.) e Firmico Materno (IV secolo d.C.) testimoniano il carattere segreto, doloroso e iniziatico delle cerimonie per diventare “mista di Attis”. Grazie alle loro testimonianze si apprende che tra i rituali connessi al culto si annoverano anche pasti sacri e pratiche orgiastiche, oltre alle varie punizioni autoinflitte di cui si è scritto sopra. Esaminando le fonti a disposizione non emerge quella dimensione soteriologica che invece caratterizza i culti precedentemente trattati; non è però azzardato ipotizzare che il devoto avesse un rapporto intimo con la divinità, a cui chiedeva salute e prosperità, considerando il lato “materno” della dea e la sua condotta benefica nei confronti del morente Attis, a cui permette di risorgere.
Nel IV secolo d.C. l’imperatore Valentiniano II vietò di compiere sacrifici e di partecipare ai rituali all’interno dei delubri. Con il suo successore, Eugenio, più flessibile, i seguaci della Grande Madre compirono un rito di purificazione di massa e tentarono di restaurare i loro rituali, riportando alcuni successi come il ritorno dei Megalensia. Sotto Teodosio il culto di Cibele sembra scomparire, anche se Bossuet, vescovo e teologo del XVII secolo, sostenne l’ipotesi che vede lo gnosticismo e altri gruppi considerati eretici come una sorta di prosecuzione della religione della Madre Idea. Tali dottrine concepiscono nella loro trinità lo Spirito santo come il Principio femmineo sacro, riconoscendo il lato femminile del divino.
All’interno del cristianesimo stesso si trovano svariate correlazione tra la Cibele e la figura della Madonna. Al di là del fatto che entrambe sono una manifestazione dell’archetipo del Femminino sacro e della Grande Madre, e che vivono una vicenda luttuosa che culmina con il ritorno della persona amata, anche le raffigurazioni di Maria vengono immerse nell’acqua o asperse durante particolari rituali che hanno luogo in Italia. Veniamo ora al culto di Cibele a Siracusa.
Per quanto concerne l’attestazione del culto della dea frigia e del suo paredro in Sicilia, le testimonianze sono sostanzialmente di carattere monumentale. Ancora una volta, il solo documento letterario che dichiara per conoscenza diretta l’esistenza di un tempio dedicato alla Matris Magnae nell’antica Engio appartiene alle Verrine di Cicerone. Tale documento ha sollevato però una serie di perplessità, dato che le sue affermazioni entrano in contrasto con le versioni fornite da altri autori, come Diodoro Siculo e Plutarco, sul tempio in questione. La dea venne menzionata da Pindaro nella III Pitica, nell’ode dedicata a Ierone I, che era stato colpito da una malattia. Lo scritto risale alla prima metà del V secolo a.C., e dimostra indirettamente la conoscenza da parte della corte del tiranno della Grande Madre, che veniva invocata per riottenere la salus.
Pochi sono i ritrovamenti archeologici che attestano il culto della dea in tutta l’Isola, ma senza dubbio i principali centri di attestazione del culto sull’isola sono Siracusa e Akrai, l’odierna Palazzolo Acreide, un piccolo borgo situato sui Monti Iblei in provincia di Siracusa. Tucidide menziona l’antica Acrae, nome latinizzato della città, nel libro VI de La guerra del Peloponneso, come colonia siracusana fondata nel VII secolo a.C. circa.
I resti archeologici di Siracusa e della sua colonia mostrano una continuità del culto rivolto a Cibele dal IV secolo a.C. all’età imperiale. Un naiskos in marmo pentelico del IV secolo a.C. che raffigura la dea è stato ritrovato nel quartiere dell’Acradina. Il naiskos ha un piccolo frontone che poggia su due pilastri, e all’interno è ritratta Cibele a tutto tondo, seduta con i piedi poggiati su uno sgabello. Il volto, assai rovinato, è incorniciato da lunghe ciocche di boccoli, e il capo è coronato da un importante modio. Ad avvolgere il corpo della dea sono un chitone e un himation che ricade sul braccio sinistro, lasciando scoperto il destro, per adagiarsi sulle gambe creando delle pieghe. La mano sinistra impugna un’asta o, verosimilmente, uno scettro. In prossimità della gamba destra si trova il leone, che è posto frontalmente e assume una posa rigida. Sul pilastro destro è rappresentato un giovane che indossa una corta tunica e che con la mano destro regge una coppa. Su quello sinistro, invece, vi è una giovane donna abbigliata da una lunga veste che porta nella mano sinistra una fiaccola. Il tipo dell’esemplare siracusano si avvicina notevolmente ai rilievi provenienti da Atene e conservati nel Museo archeologico cittadino, salvo per lo scettro che viene sostituito da un grande timpano; si può infatti supporre che quello siracusano sia frutto della stessa mano ateniese. È il reperto archeologico che attesta la presenza di Cibele più antico di Siracusa, ma non necessariamente dimostra l’esistenza di un Metroon, luogo di culto dedicato alla dea, né tantomeno prova la diffusione del suo culto presso la corte di Ierone I.
Sulla parete rocciosa del colle Temenite, nei pressi del cimitero cittadino, è scolpita l’immagine della dea all’interno di una nicchia. Il rilievo, purtroppo, è gravemente consumato, ma si può far risalire all’età ellenistica. Cibele è seduta in trono, ed è circondata ai lati da due leoni di cui rimangono poche tracce. Con la mano sinistra la dea regge un oggetto che potrebbe essere identificato con un timpano. Un santuario rupestre dedicato ad Artemide, nei pressi della porta Hexapyla, sarebbe secondo Graillot prova dell’identificazione o dell’associazione di Artemide e Cibele a Siracusa. La dea della caccia è rappresentata in alcune terrecotte ritrovate in situ con una mano poggiata sulla testa di un leone. Entrambe le dee governano il mondo della natura e le bestie selvatiche, ma nonostante le numerose connessioni non vi sono prove sufficienti per avvalorare tale identificazione.
Allo stesso modo è dibattuta l’identificazione di Attis in due piccole maschere realizzate in materiale metallico, che decoravano una cassetta ritrovata in una tomba greca. Le maschere ritraggono ad alto rilievo il volto pasciuto di un giovane con una folta chioma di ricci, e che sulla testa indossa un berretto frigio. Il tipo è stato riscontrato in svariati bronzi e terrecotte più tardi del III secolo a.C., periodo a cui si fa risalire il reperto. L’unica testimonianza della presenza di Attis a Siracusa è una piccola statua di II-III secolo d.C., che si presenta mutila in più parti e in uno stato di cattiva conservazione. Il piccolo marmo proviene dal cortile di una casa romana, e il suo ritrovamento testimonierebbe, in accordo con il contesto: la devozione degli abitanti della casa, il prestigio acquisito dal giovane dio e il suo impiego per motivi ornamentali.
Cibele è raffigurata anche sul disco di una lucerna in terracotta di III secolo d.C. di provenienza ignota. Qui la dea è seduta sul dorso di un leone e poggia la mano sinistra sulla testa dell’animale; l’immagine corrisponde al tipo Caelestis. Esisterebbe una gemma di corniola su cui sarebbe stata incisa la dea seduta sul leone con la corona turrita, affiancata da due coribanti, che nell’inventario del Museo di Siracusa vengono associati al tiaso bacchico. Nonostante l’esplosione del culto di Cibele durante l’età imperiale, Siracusa non sembra quasi esserne stata interessata. Dalla documentazione archeologica risultano essere stato praticato in una forma greca, ovvero connesso al culto dei morti eroicizzati sul colle Temenite.
Sul versante meridionale del Colle Orbo, nel territorio di Palazzolo Acreide, si trova il grande complesso figurativo rupestre dedicato al culto della Magna Mater, che costituisce il centro principale di devozione a Cibele in tutta la Sicilia. La struttura è formata da dodici nicchie di diversa grandezza che ospitano immagini scolpite a rilievo, conosciute con il nome di “Santoni”. Purtroppo, tutti i rilievi versano in un pessimo stato di conservazione. Undici nicchie sono disposte in fila lungo una balza rocciosa di m. 30 circa, intervallate da nicchie più piccole e incavi privi di immagini. La dodicesima è collocata a una quota inferiore, insieme a una sprovvista di rilievi. A est e ovest del santuario sono visibili numerose nicchie e incisioni nella roccia, mentre alle estremità del sito si aprono due spiazzi di forma semicircolare, al centro dei quali si trova un basamento circolare di altare. Seguendo il naturale andamento della roccia, è stata creata una struttura coerente dal punto di vista architettonico, entro le limitazioni tecniche e naturali del caso.
Durante gli scavi condotti da Judica nel XIX secolo vennero ritrovati: carboni, ceneri, lucerne, olle e patere di piccole dimensioni. Tali reperti e “il carattere unitario” della struttura consentono di riconoscere il sito come “un vero e proprio santuario e non un semplice aggregato di rilievi a carattere votivo, dovuti a iniziative individuali molteplici e risalenti a momenti successivi”. Tra i rilievi, a dominare la scena è una figura femminile che ricorre in tutte le nicchie, talora accompagnata da altre figure. La presenza del modio, del timpano e dei leoni ha consentito di identificare la figura come Cibele. Salvo un rilievo in cui la dea compare in piedi, nelle altre rappresentazioni è seduta in trono. L’identificazione di Cibele con il soggetto centrale del Rilievo XII, della nicchia posta a una quota inferiore, è stata messa in dubbio. Sulla sinistra è rappresentata una figura che indossa una tunica corta e un mantello, e con le mani regge due oggetti dalla forma allungata; quello di sinistra è rivolto verso l’alto, mentre quello destro verso il basso. Potrebbe trattarsi di un rimando a Cautes e Cautopates del culto di Mitra. Alla destra della scena compaiono due personaggi in piedi e affiancati l’un l’altro, fiancheggiati da due leoni. Nonostante le tracce sulla parete siano molto scarse, il soggetto di sinistra pare indossare il modio sulla testa e avvicinare un oggetto tondeggiante verso il leone che lo affianca sulla destra. Della figura di destra, di dimensioni minori, sono visibili solamente le gambe, che appaiono incrociate. Questo personaggio potrebbe essere identificato con Attis per via della posizione assunta dalle gambe. Se il modio, i leoni e l’oggetto tondeggiante, probabilmente un timpano, richiamano l’iconografia di Cibele, le figure con la tunica corta e le ipotetiche fiaccole rimandano a Mitra; il pessimo stato di conservazione non permette di sbilanciarsi. Nelle dieci nicchie in cui figura Cibele seduta in trono in posizione frontale, la dea indossa un chitone e un himation che ricade dalla spalla sinistra alle ginocchia. I capelli sono raccolti in una sorta di chignon, a forma di “melone”, e il volto è incorniciato da due lunghe ciocche ricce. La testa è sempre coronata da un modio, che però somiglia di più a un diadema, in quanto la parte centrale risulta più prominente.
Nel Rilievo IV e nel Rilievo VIII appoggiata al trono, in basso a destra, si trova la patera; invece, a sinistra compare un grande timpano. Nei restanti rilievi si può solo ipotizzare la loro presenza, soprattutto in virtù delle tracce visibili, anche se poco, sulla parete. Nei Rilievi che vanno dal IV al IX, escluso il VI, appaiono a fianco della dea due leoni accovacciati. Nel Rilievo I Cibele è accompagnata da un solo leone, mentre nei restanti rilievi (VI-X-XI) non è possibile affermare la presenza dell’animale araldico a causa della totale assenza di tracce. In generale, il tipo iconografico ricorrente della dea in trono affiancata da due leoni, coronata da un modio, e accompagnata da patera e timpano, rimanda al tipo greco della Meter theon (la madre degli dèi); tipo che sarebbe stato creato da Agoracrito secondo Plinio.
Nei Rilievi I, IV, V, VIII e IX si possono scorgere due figure di piccole dimensioni ai lati del capo della dea; questi sono abbigliati da una tunica più o meno corta, da un mantello e da un berretto frigio. I loro attributi sono: un oggetto tondeggiante, probabilmente un timpano, e una lunga asta, che però non compare in tutte le rappresentazioni. Al di là di alcune varianti attestate nei vari gruppi, questi personaggi sembrano aderire al medesimo schema raffigurativo. Secondo Bernabò Brea, che riconosce nell’oggetto tondo un timpano, si tratterebbe della rappresentazione di: galli, cureti e coribanti. I coribanti erano nella mitologia divinità minori che costituivano la corte di Cibele; onoravano la dea con danze orgiastiche, musiche travolgenti, e cerimonie cruente. I cureti invece erano divinità minori che formavano il seguito di Rea, che vennero spesso confusi con i coribanti. Se si raffrontano questi personaggi con altre rappresentazioni, come ad esempio il Rilievo di Villa Medici in cui viene riprodotta la facciata del santuario dedicato a Cibele del Palatino, salta subito all’occhio la loro staticità.
Un personaggio di facile identificazione è invece scolpito nel Rilievo II. Qui la dea è stante ed è accompagnata da tre leoni, su uno dei quali poggia il suo piede sinistro. La Magna Mater spalanca le braccia e posa le mani sul capo di due figure, compiendo una sorta di gesto di protezione. La figura di destra porta una tunica corta, un mantello e regge in mano un caduceo; si tratta quindi di Hermes. La figura alla sinistra della dea potrebbe essere Attis, in quanto è raffigurata con le gambe incrociate, porta una corta tunica e regge un lungo bastone rituale. Tale triade appare rappresentata in altri monumenti, come ad esempio in un rilievo ateniese esposto nel Museo archeologico nazionale, che ritrae Attis con le gambe incrociate alla sinistra di Cibele ed Hermes alla sua destra; qui il messaggero degli dèi è contraddistinto dal petaso, il cappello a tesa larga tipico dei viaggiatori. Nel Rilievo II, alla sinistra di Attis vi è una figura femminile assai logora, della quale si intuisce il movimento dato dal piede destro che pare avanzare, e la presenza di un oggetto allungato nella mano sinistra. Potrebbe trattarsi della vergine dadofora, la portatrice di fiaccola, attestata in svariate raffigurazioni insieme a Cibele ed Hermes; la più antica documentata è un’incisione realizzata su un coperchio argenteo di V secolo a.C., proveniente da Olinto. Alle estremità del Rilievo II vi sono due soggetti maschili a cavallo, che indossano una piccola tunica e un clamide che scende dietro le spalle. Senza troppe difficoltà tali personaggi sono stati riconosciuti come i Dioscuri, i gemelli divini figli di Zeus; l’associazione tra la dea e la divina coppia in questo rilievo non costituisce un caso isolato. In due iscrizioni, una proveniente da Tomi, l’altra dall’Egitto, compare una dedica alla Madre degli dèi Agdistis e ai Dioscuri; la dea, nel corso del tempo, è stata identificata con la Magna Mater, come testimonia, per esempio, Diodoro Siculo. Nel Museo di Brindisi si trova una statua che ritrae Cibele, sulla cui base sono raffigurati a bassorilievo proprio i Dioscuri. In conclusione, il santuario acrense, risalente al III secolo a.C. circa, si contraddistingue per la sua ricchezza e complessità iconografica, costituendo “una sorta di sintesi delle dottrine religiose connesse al culto metroaco”.
Con il nome di Dea Syria, invece, spesso si è identificata la dea Atargatis data la profonda connessione che lega queste due dee. È un’antica dea multiforme che è stata rappresentata secondo diversi tipi iconografici; infatti, la possiamo trovare raffigurata con attributi vegetali, celesti, marini e animali. A Dura-Europos, a Hatra e Raha la dea è affiancata da una coppia di leoni creando un’associazione con Cibele. In altri casi porta corone e collane di foglie e poggia su una vite a forma di spirale, accompagnata da foglie d’acanto, fichi, melograni e piccole rose. Viene rappresentata recante una cornucopia o un timone in mano, mentre sul capo spicca una corona turrita, simbolo di protezione della città; tutti questi attributi l’avvicinano al tipo iconografico di Tyche-Fortuna. Altre volte si possono scorgere i segni zodiacali introno al suo capo, oppure una specie di aureola creata da un velo. Atargatis viene spesso ritratta con le sembianze di una sorta di sirena e viene considerata la dea dei pesci; infatti, Luciano la identifica con la dea pesce fenicia Derceto. In svariati siti nell’attuale Iraq, come Hatra, e nell’attuale Giordania, come Petra, la dea risulta connessa ad animali marini, tra cui: pesci, mostri, e soprattutto delfini. Dunque, si crea un parallelo con Afrodite, Galatea e altre creature marine come le Nereidi. È una divinità dalle origini misteriose, che non ha una sola forma e che può essere accostata, per un motivo o per un altro, alle principali dee dell’antichità.
Secondo Diodoro Siculo vicino alla città siriana di Ascalona, dove vi era un grande lago colmo di pesci, lì si trovava un temenos dedicato alla dea sirena chiamata Derketo dai Siri. Gli abitanti della zona narravano che Afrodite sfogò la sua ira contro questa dea facendola innamorare di un giovane fedele al suo culto, con il quale ebbe una figlia. La dea in preda alla vergogna si sbarazzò del giovane e della figlia, prima di gettarsi nel lago dove si trasformò in pesce. Per questo motivo i Siri non mangiano il pesce, ma anzi lo venerano. Per volere divino la bambina era stata abbandonata vicino a una colonia di colombe che la nutrirono permettendogli di sopravvivere; infatti, anche le colombe divennero oggetto di culto in Siria. Hadad era il compagno della dea; dio del tuono di origine semitica che abitava sulla cima delle montagne, ed era legato alla dimensione celeste. Per le sue caratteristiche venne accostato a Zeus, essendo il Padre del Cielo, ma non venne mai anteposto o equiparato ad Atargatis. Nelle varie raffigurazioni sparse per la Siria il dio appare sempre più anonimo, modesto, e assai meno imponente della dea.
Il centro di culto principale della dea siriana era la città di Hierapolis-Bambyke, dove si erge un santuario a lei dedicato, che venne descritto dallo pseudo-Luciano. All’interno del monumentale complesso vi erano le statue d’oro della triade divina, straordinariamente adornate da pietre preziose. Atargatis viene chiamata dall’autore “Era”, mentre il suo paredro “Zeus”. La dea era rappresentata seduta su dei leoni, mentre il dio era poggiato su dei tori. La natura multiforme di questa divinità viene confermata dall’autore che, sì la riconosce come Era, ma vede nella statua degli attributi e delle caratteristiche proprie delle altre dee del pantheon greco-romano. Infatti, reca in una mano uno scettro e nell’altra un fuso, mentre la testa è sormontata da raggi e una corona turrita, e porta la cintura tipica di Afrodite Urania. La terza divinità è di identificazione incerta, anche se gli antichi assiri la riconducevano a Semiramide.
Il culto della dea Syria si diffuse da Oriente ad Occidente, ed entrò in contatto con Roma a partire dalla seconda metà del II secolo a.C. stando alle varie testimonianze storiche. Floro narra di uno schiavo originario della Siria che per organizzare una rivolta servile pare avesse finto di essere in contatto con la dea, che avrebbe incitato alla libertà gli schiavi fedeli. Nel mondo ellenistico-romano tale culto, infatti, si diffuse tra le classi più basse della popolazione, anche se godette per un certo periodo del benestare di Nerone come racconta Svetonio.
Il clero itinerante della dea Syria troverà ospitalità nei luoghi di culto della dea Madre. I suoi sacerdoti si caratterizzano anche per “l’atteggiamento femmineo”: difatti ricorrevano al trucco e ad abiti vistosi. Apuleio descrive l’arrivo di questi sacerdoti in un villaggio della Tessaglia e la loro irruzione in una villa patrizia. Con il loro aspetto stravagante, tra urla e coreografie rituali, fanno il loro ingresso brandendo delle spade, tagliandosi le braccia e prendendosi a morsi. Veniamo ora alla dea Syria a Siracusa.
Una traduzione latina settecentesca di un’iscrizione greca frammentaria, ormai perduta, attesta l’esistenza di una sorta di clero devoto ad Atargatis nella città di Siracusa. La traduzione recita: Dum esset sacerdos Syriae deae / Tiberius Tiberii f. / pontifex fil. Dapsili / Amphilobi vero Paeadia / qui fuit Theodori qui fuit / Morrecini qui iusta fecere / Praesides Syriae deae singulis annis / p. Plonus P. filius / M. Pomponius Di… . / L. Lucinius … . / L. Octavius l. / T. Phaecius … . / Attale … . / Eutich … .
Nell’epigrafe venivano elencati nomi greci e romani, tra cui spiccano i titoli: sacerdos, praesides, pontifex e amphilobi. Sebbene l’interpretazione di tali termini sia stata discussa, e sia stato messo in dubbio se davvero si tratti di cariche religiose, l’importanza che riveste il reperto è indiscutibile. Oltre a testimoniare la presenza sul territorio di un gruppo organizzato dedito al culto della dea, con elementi eletti annualmente per la celebrazione delle cerimonie religiose, tale iscrizione può essere messa in relazione alla rivolta servile a Enna del II secolo a.C. operata dallo schiavo siro Euno. Da una parte tale episodio dimostra che il culto della dea Syria era profondamente diffuso nella classe servile, presente in maniera massiva nei latifondi siciliani. Dall’altra parte non emergono elementi a favore della pervasività del culto tra i locali.
È stata presa in considerazione l’ipotesi secondo cui il culto sarebbe penetrato in Sicilia anche attraverso la presenza dei vari negotiatores Siri trapiantati in Occidente. L’epigrafe siracusana, impossibile da datare ma attribuibile all’età romana, “trova un precedente storico nella manifestazione di devozione per Atargatis da parte del siro Euno e dei suoi seguaci”.


Nell'immagine, Statua di Cibele, la grande madre degli dei.


Bibliografia

R.S.P. Beekes, Etymological Dictionary of Greek, Leiden 2009.
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Nota

Per i rilievi citati nel testo e per la trascrizione dell’iscrizione si fa qui riferimento a Judica e a Sfameni Gasparro.

Documento inserito il: 09/04/2025
  • TAG: storia della religioni, archeologia, culti orientali, Roma antica, Siracusa

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