Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia, storia contemporanea: Il tenente Avezzano Comes ed il suo plotone di carabinieri. Il coraggio di disobbedire
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Il tenente Avezzano Comes ed il suo plotone di carabinieri. Il coraggio di disobbedire

di Francesco Caldari


Chi conosce Genova sa che le alture che contornano questo strategico golfo dell’alto Tirreno sono punteggiate da un sistema di fortificazioni militari, costruite in diverse epoche, che ha segnato gli eventi della storia della città: sedici forti principali e ottantacinque bastioni distribuiti lungo diciannove chilometri. I forti, inizialmente edificati dalla Repubblica a difesa del territorio, vennero riconsiderati, manotenuti ed utilizzati in epoca napoleonica, poi durante il Risorgimento e sino alla Prima e alla Seconda guerra mondiale.
Tra gli altri, il forte San Martino fu realizzato a partire dal 1820 dal governo sabaudo e terminato nel 1832, a difesa delle allora municipalità autonome di Albaro e San Martino, in quello che è oggi un quartiere del levante cittadino. Presto circondato dall’espansione urbanistica, stante la sua posizione favorevole per la difesa di attacchi dal cielo e dal mare venne comunque impiegato per ospitare nel tempo postazioni di artiglieria ed una batteria contraerea.
Il 14 gennaio del 1944, fu invece teatro di un eccidio di partigiani ad opera dei nazifascisti, tuttora vivido nella memoria delle Istituzioni e della cittadinanza e ricordato annualmente, che vide un particolare episodio di apparente insubordinazione di un plotone di carabinieri, che merita di essere ricordato.
Il tenente Giuseppe Avezzano Comes, originario di Monopoli – in provincia di Bari –, ove era nato il 24 marzo 1915, nel settembre 1943 si trovava sbandato con i suoi carabinieri nei Balcani, dopo che nella confusione sorta dall’armistizio firmato a Cassibile, le disposizioni provenienti dall’Alto Comando avevano ricalcato il discorso alla nazione proveniente via radio dal Generale Badoglio: “ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Gli ex alleati tedeschi assunsero da subito una postura ostile, e Avezzano per sottrarsi ad una possibile cattura solo nel dicembre successivo, dopo un lungo viaggio per terra e mare, era riuscito a raggiungere Genova, per presentarsi ai superiori presso quel Comando Legione e porsi a disposizione là dove era stato in forza prima dell’invio in teatro oltremare. Qui fu posto al comando di un nucleo di carabinieri come lui rientrati dall’estero e da altre parti d’Italia, addetti a compiti di ordine e sicurezza pubblica, con particolare riferimento a gallerie e rifugi antiaerei e soccorso ai sinistrati dopo le incursioni aeree e navali che continuavano a martoriare il capoluogo ligure.
Ad avvenuta costituzione della Repubblica Sociale Italiana (RSI) dal 23 settembre 1943, in quel periodo confuso ed instabile, i tedeschi esercitavano un controllo non solo sulle istituzioni governative situate sul lago di Garda, ma anche su quelle periferiche, spalleggiati da fedelissimi del regime. I primi sostenitori erano gli appartenenti alla formalmente istituita l’8 dicembre 1943 Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), erede della Milizia Nazionale (MVSN), con l'obiettivo di incorporare e sostituire le forze di polizia esistenti, carabinieri compresi, a loro volta visti con sospetto dai nazisti, che imputavano loro inclinazioni monarchiche e temevano la potenziale collaborazione con i partigiani antifascisti e le forze cobelligeranti italiane. Ben presto la GNR (i cui appartenenti continuavano comunemente ad esser chiamati “miliziani”) fu pesantemente coinvolta in azioni repressive contro la Resistenza italiana. Partecipò a rastrellamenti e rappresaglie, spesso insieme alle forze tedesche. Fu anche utilizzata per combattere il banditismo e mantenere l'ordine nei territori occupati, dando corpo a quello che è ricordato come il brutale apparato di sicurezza della RSI durante le ultime fasi della Seconda guerra mondiale.
Il 13 gennaio 1944 nella centralissima via XX Settembre a Genova, un attentato compiuto da appartenenti ai GAP (Gruppi di Azione Patriottica) ebbe come obiettivo due ufficiali tedeschi, uno dei quali morì in seguito alle ferite riportate. Come risposta, il comando nazista richiese una severa azione di repressione. Prefetto era il nobile di origine siciliana ma cresciuto a Stresa Carlo Emanuele Basile, sindaco (e poi podestà) della sua città in diverse circostanze tra il 1914 e il 1935, già segretario federale di Novara e Torino e membro del Direttorio nazionale del Partito Nazionale Fascista nonché deputato alla Camera. Aveva aderito convintamente alla RSI, ma fu necessario un colloquio con Mussolini in persona perché accettasse con riluttanza la nomina a Prefetto e Capo della Provincia di Genova. Gli era, evidentemente, chiaro ciò che lo attendeva. In città, il 28 ottobre 1943, giorno successivo al suo insediamento, fu ucciso dai partigiani un capo manipolo della Milizia.
Basile, avuta notizia dell’attentato ai due ufficiali e della morte di uno, pressato dal comando nazista, non perse tempo: convocò un “Tribunale Straordinario”, cui chiamò alla presidenza il comandante della Legione carabinieri, colonnello Alfredo Alois, che si rese irreperibile. Lo sostituì allora col comandante della locale 36^ Legione GNR, il colonnello Salvatore Grimaldi, affiancato da altri due ufficiali della Milizia, che nottetempo condannarono a morte otto civili, detenuti nel carcere cittadino situato nel quartiere di Marassi come prigionieri politici, accusati di vari atti di "sovversione" come aver stampato e distribuito manifesti antiregime o aver partecipato a scioperi.
Si trattava della prima rappresaglia a Genova. La questione delicata era organizzare l’esecuzione: il compito venne affidato al questore Arturo Bigoni, che aveva assunto l’incarico da una manciata di giorni. Questi convocò per un non meglio specificato servizio di ordine pubblico un ufficiale e venti carabinieri. Qui entrò in gioco il tenente Avezzano Comes, che ebbe chiare disposizioni dal colonnello Alois di renderlo edotto tempestivamente di quanto gli sarebbe stato richiesto. Presentatosi con venti carabinieri per lo svolgimento delle incombenze, solo all’alba ad Avezzano fu ordinato di recarsi presso il forte San Martino per un “urgente servizio d’ordine”. Giunti sul luogo, i militari dovettero attendere all’esterno che si facesse giorno, prima di veder giungere un’auto militare, dalla quale scese tra gli altri Grimaldi. Questi, preso da parte il tenente, chiaritogli che eseguiva disposizioni date dal questore, lo invitò a recarsi nel cortile del Forte con i suoi carabinieri. Poco dopo, giunse un corteo di automezzi. Insieme arrivarono miliziani, soldati delle SS, un frate cappuccino ed otto uomini sommariamente assicurati con del filo elettrico, che portavano evidenti i segni di percosse subite. A quel punto Grimaldi chiamò nuovamente a sé Avezzano e, chiaritogli che gli parlava quale presidente del Tribunale Militare Straordinario ed ufficiale superiore più elevato in grado della Piazza di Genova, gli ordinò di costituire con i suoi carabinieri un plotone di esecuzione per procedere alla fucilazione degli otto detenuti, sì da applicare la sentenza inflitta nottetempo a seguito della morte dell’ufficiale tedesco. Il tenente non ebbe esitazione. Come lui stesso racconta in una memoria: “mi passarono in quel momento per la mente la tradizione di 140 anni di storia dell’Arma dei carabinieri, tutta una educazione e un’istruzione impartite al rispetto della legge e della persona umana, al rifiuto della violenza e pensai che, come ufficiale e come uomo, non potevo essere da meno di coloro che nella Arma dei carabinieri mi avevano preceduto”. Rispose pertanto che non avrebbe eseguito l’ordine, poiché lo riteneva illegittimo, non riconoscendo l’Autorità che aveva emesso la sentenza. Grimaldi intimò nuovamente di adempiere, indicando che quello stesso Tribunale era riunito in quel momento (aveva nel frattempo fatto avvicinare altri due ufficiali della Milizia) e che avrebbe potuto sentenziare anche per Avezzano la pena di morte per disobbedienza. Il tenente rispose che i carabinieri erano lì su richiesta del Questore esclusivamente per eseguire un servizio d’ordine pubblico, ribadendo la sua indisponibilità. Grimaldi allora lo dichiarò in arresto, assumendo egli stesso il comando del plotone, che nelle sue parole avrebbe provveduto prima alla fucilazione degli otto condannati e poi dello stesso tenente.
Fu sistemato il plotone, e posti innanzi ad esso i primi due carcerati. Grimaldi diede l’ordine di fare fuoco. Nessuno dei carabinieri sparò. Uno dei malcapitati, il professor Bellucci, esclamò:”ragazzi, fate presto, mirate dritto al cuore, se non mi uccidete voi, lo faranno gli altri”. Ma i carabinieri alzarono ostentatamente i moschetti verso l’alto. Tutti i miliziani ed i nazisti accorsero verso il centro del cortile e, scansati i carabinieri, iniziarono a far fuoco sui due. Grimaldi proseguì il triste rito sino a che vennero trucidati gli otto i condannati (Dino Bellucci, responsabile della stampa clandestina, di cui abbiamo detto; Giovanni Bertora, tipografo; Giovanni Giacalone, straccivendolo; Romeo Guglielmetti, tranviere; Amedeo Lattanzi, giornalaio; Luigi Marsano, saldatore elettrico; Guido Mirolli, oste; Giovanni Veronelli, operaio). I carabinieri serrarono le fila ed assistettero all’esecuzione mantenendo in alto i moschetti, ad ulteriore dimostrazione che non avevano intenzione alcuna di partecipare a quel massacro, per poi accogliere tra loro l’Avezzano, che nella confusione generatasi si era allontanato dalla camera ove era stato rinchiuso e da dove aveva potuto assistere alla scena. Grimaldi, i fascisti e le SS si allontanarono, mentre il frate cappuccino che dava l’ultima benedizione alle salme assicurò al tenente che avrebbe provveduto a dare notizia ai familiari degli otto caduti ed alla loro tumulazione, invitandolo ad allontanarsi velocemente per timore di un ripensamento dei nazi-fascisti.
Rientrato in caserma, Avezzano stracciò il foglio del Memoriale di servizio sul quale erano riportati i nomi dei venti carabinieri impegnati in quello che doveva essere un servizio di ordine pubblico, perchè risultasse difficile risalire ai loro nomi, e quindi si presentò ai superiori, che gli diedero massimo appoggio, evitando che fosse interrogato dalle SS tedesche, che ne avevano fatto richiesta. Per allontanarlo dal capoluogo ne disposero il trasferimento ad Albenga (Savona).
Il restante periodo bellico fu per Avezzano Comes tormentato: i tedeschi non dimenticavano il suo comportamento. Egli venne arrestato in due occasioni, sottoposto a torture e sevizie, ed entrambe le volte riuscì a fuggire, entrando infine in Liguria – assieme al fratello Ignazio, tenente dei carristi – nella Resistenza. Alla liberazione da parte degli Alleati, fu invitato da questi a ricomporre i carabinieri di Albenga, ove assunse nuovamente il comando della Compagnia. Fu chiamato a deporre come testimone al processo che si tenne presso la Corte di assise di Genova contro Grimaldi e gli altri miliziani per l’eccidio del forte San Martino. La condanna a morte di Grimaldi e le altre a pene detentive per i suoi associati caddero per amnistie e condoni.
La città di Genova nel 1984 (nel frattempo esercitava la professione di avvocato), gli conferì la cittadinanza onoraria poiché “con la propria apposizione costituì un fulgido esempio di resistenza alle barbarie ed all’arroganza nazi-fascista”. Più recentemente è stato ricordato dai ferrotranvieri cittadini (tra gli otto trucidati vi era un loro collega). L’Azienda Mobilità e Trasporti (AMT) gli ha intitolata l’Officina Deposito della Metropolitana di Genova e sulla targa ivi apposta ha ricordato il “combattente della libertà”.
In punta di diritto, la giurisprudenza penale militare ha consolidato che il principio di "obbedienza dovuta" non può essere invocato per giustificare atti criminosi o contrari alle leggi di guerra. I militari non devono obbedire a ordini criminali o illegittimi, la cui esecuzione costituisce manifestamente reato. I tribunali, affermando tra gli altri nei processi all’ufficiale nazista Priebke e agli autori della strage di Sant'Anna di Stazzema (Lucca) del 1944, in cui furono uccisi 560 civili, che i militari avevano agito con "coscienza e volontà" nella commissione di crimini di guerra e contro l'umanità, hanno stabilito la loro condanna.
L’opposizione di Avezzano Comes e dei venti carabinieri del suo plotone si scontrò contro la realtà dei tesi momenti che essi ebbero a vivere. Il loro subdolo invio sul luogo dell’esecuzione e la pretesa del colonnello Grimaldi di dare una parvenza di legalità all’operato del fantomatico Tribunale Straordinario mediante l’utilizzo degli stessi carabinieri, si scontrò con “tutta una educazione e un’istruzione impartite al rispetto della legge e della persona umana” che passò in quel momento nella mente del tenente, il quale “come ufficiale e come uomo”, sentì che non poteva “essere da meno di coloro che nella Arma dei carabinieri” lo avevano preceduto.


Nell'immagine, il Tenente Avezzano Comes.

Documento inserito il: 07/03/2025
  • TAG: Strage di Forte San Martino, Genova, Carabinieri, Avezzano Comes

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