Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia autori: Risorgimento. Pro o contro i cattolici?

Risorgimento. Pro o contro i cattolici? [ di Gianpaolo Romanato ]

A livello popolare alleanza per “fare gli italiani”

Aprendo nello scorso dicembre il X Forum culturale della Cei dedicato al centocinquantenario dell’unità d’Italia il card. Bagnasco ha sorpreso non pochi ascoltatori e commentatori affermando che “i cattolici a giusto titolo si sentono soci fondatori di questo Paese”. Ma come, veniva da ribattere, e la Questione romana? E il non expedit? E le scomuniche di Pio IX? E le leggi “eversive” del 1866-67? E la Conciliazione del ’29? Se non è esistito il conflitto, che conciliazione è stata, chi si è riconciliato con chi? Obiezioni legittime, perplessità giustificate.
E tuttavia chi scrive è convinto che il Presidente della Cei abbia detto una cosa non solo giusta politicamente ma anche giustificata storicamente. A patto di intendersi. Il conflitto fra la Chiesa e lo Stato è esistito, e come se è esistito. E ha pesato enormemente sulla storia i tre o quattro generazioni di italiani, con non trascurabili riflessi anche sul piano internazionale. La Conciliazione ha posto termine a un dissidio vero, che aveva lacerato le coscienze non meno delle istituzioni.
Ma la storia non si svolge soltanto ai piani alti. Si sviluppa anche (e molto di più) ai piani bassi. E’ a questo livello che si situa il contributo del cattolicesimo italiano alla costruzione della nazione. Mentre infatti Stato e Chiesa si guardavano in cagnesco e si ignoravano a vicenda, nell’Italia profonda un esercito di cattolici lavoravano indefessamente, benchè forse non sempre consapevolmente, per “fare gli italiani”.
Chi? Tutti quei filantropi che in silenzio, spesso misconosciuti, si inventavano istituzioni benefiche a vantaggio dell’Italia abbandonata e dimenticata rappresentata da orfani, ragazzi di campagna, handicappati, gente di periferia, classi sociali miserabili, cioè quei milioni di persone che socialmente e politicamente, vivendo ai margini, se non al di fuori del Paese (verrebbe quasi la tentazione di riutilizzare la distinzione dei cattolici intransigenti ottocenteschi tra Paese legale e Paese reale…) costituivano la massa degli italiani ancora da fare. Parlo (e cito alla rinfusa) dei don Bosco, don Guanella, don Orione, don Nascimbeni, don Baldo, cioè di quei preti che constatando l’infinita miseria dell’Italia profonda, quella che in molto casi non aveva ancora superato il gradino di partenza, cioè la civilizzazione, dedicarono la vita alla redenzione del popolo.
L’Italia ufficiale spesso neppure s’accorse di ciò che facevano. Benedetto Croce nella Storia d’Europa giunse a scrivere che la Chiesa era ormai “incapace di generare nuove forme e persino nuovi ordini religiosi”. Ma nelle colonie agricole di Orione, negli oratori di Giovanni Bosco, nelle scuole professionali di Piamarta, negli istituti di assistenza di Guanella (tutti fondatori di nuovi ordini), negli innumerevoli asili delle suore (prodotto anch’esse delle inedite congregazioni femminili), nasceva un rinnovato associazionismo, una disciplina ecclesiastica le cui regole erano dettate soprattutto dai bisogni del popolo.
Bisogna rileggere le pagine dimenticate della commissione Jacini sullo stato del mondo rurale, oppure certe inchieste giornalistiche del tempo (sulle zolfare siciliane, sulle campagne padane, sulle periferie urbane) per rendersi conto dell’impressionante stato di degrado, civile e morale prima che politico e culturale, dell’Italia uscita dal processo di unificazione. E’ questo il Paese che la filantropia cattolica aiutò un po’ alla volta a redimersi, mentre l’Italia ufficiale, per tenerlo a freno, non esitava a fare ricorso all’esercito e ai tribunali militari.
Per non parlare di quella vicenda penosa e troppo spesso rimossa che fu l’emigrazione. Milioni di italiani costretti a cercare lavoro all’estero, in Europa e nelle Americhe, con un viaggio che per molti, troppi, fu di sola andata. Come ha dimostrato l’ormai ricca bibliografia sull’argomento, l’Italia pensò a loro tardi e male, quando la grande fuga era già avvenuta da un pezzo. Anche qui, furono i cattolici a darsi da fare. Con le opere di madre Cabrini, con le iniziative di Scalabrini e Bonomelli e di tanti altri meno noti.
Se ne accorse Adolfo Rossi, giornalista di gran fama dopo essere stato egli stesso emigrante, che dal 1902 fu il primo ispettore viaggiante del neonato Commissariato Generale dell’Emigrazione. Mandato nel 1904 a controllare lo stato dei nostri connazionali negli Stati Uniti scrisse sul “Bollettino dell’emigrazione” (rivista governativa) giudizi impietosi. Impietosi sul governo italiano che tollerava in patria condizioni di vita subumane, costringeva la gente ad emigrare disinteressandosi poi della sua sorte e lasciandola in balia di se stessa, senza neppure rendersi conto che questi poveri emigranti sporchi, laceri e analfabeti, preda di raggiri e di irrisione, disprezzati da tutti, diventavano pessimi ambasciatori dell’Italia nel mondo, testimoni di un paese che aveva più ragioni di provare vergogna che di andare fiero di se stesso. Gli unici elogi di Rossi (tutt’altro che un clericale) furono per la Società San Raffaele di Scalabrini e per le suore della Cabrini. “Il bene che esse fanno è veramente notevole”, scrisse raccomandando che il governo le sovvenzionasse. E aggiunse: “Grazie a madre Cabrini e alle sue compagne, migliaia e migliaia di bambini imparano l’italiano e l’inglese; molti orfani di immigrati sono ricoverati, vestiti, nutriti ed educati; e parecchie centinaia di immigranti italiani vengono ogni anno curati gratuitamente”.
La costruzione della nazione e l’unificazione degli italiani è passata insomma attraverso mille canali, si è servita di innumerevoli strumenti e quelli forniti dai cattolici non furono né meno efficaci né meno incisivi. Furono soltanto meno appariscenti. Come meno appariscente ma non meno determinante fu il contributo che la struttura ecclesiastica fornì alla tenuta del Paese in occasione del drammatico tornante della Prima guerra mondiale. Lo scrisse fuori dai denti il vescovo di Vicenza Ferdinando Rodolfi in una lettera amara e tagliente spedita al Presidente del Consiglio il 30 maggio 1918.
Poiché nei confronti del clero erano frequenti le misure repressive delle autorità, il vescovo vicentino, che operava con i suoi sacerdoti in uno dei territori più martoriati e flagellati, pensò bene di mettere le cose in chiaro: “Ho 700 preti, 200 sotto le armi, 500 in cura d’anime (…). Con essi stanno anche 130 allievi del mio seminario nei posti più difficili: aviatori, arditi, nelle trincee, molti ufficiali, molti premiati, parecchi feriti”. Ebbene, nessuno “ha mani mancato al suo dovere, nessuno. Non uno è fuggito. Non uno m’ha chiesto un trasloco. Può il governo dir lo stesso dei suoi funzionari?”. Eppure, conclude amaramente Ridolfi, “contro questi intemerati cittadini, i quali nell’ora della prova, con coraggio singolare, stanno al loro posto e vi confortano le infelici popolazioni di questo lembo torturato d’Italia, esempio di quella resistenza vera, fatta di opere e di sacrifici, si ordisce tutta una trama di delazioni e di denunce da parte di coloro i quali, dalle vellutate società di una resistenza di paroloni e di proclami, non pensano che a sfogare lo spirito partigiano, sotto la comoda maschera dello zelo per la patria. Ed è singolare che a ciò si prestino i decreti luogotenenziali e i magistrati dei tribunali”.
La partecipazione dei cattolici alla costruzione di questo Paese è passata dunque attraverso difficoltà, strettoie, fraintendimenti, dovendo risalire una marginalità che neppure la lunga stagione di governo democristiana è valsa a colmare del tutto. L’infelice conclusione della Prima repubblica ha steso un velo di oblio su tutto ciò che di positivo la cultura politica dei cattolici a fornito all’Italia, nel secondo dopoguerra, durante quasi mezzo secolo di governo. Si è dimenticata così una stagione di pace, di progresso e di modernizzazione che ci ha definitivamente inseriti nel campo ristretto delle nazioni più civili e avanzate.
Ricordare tutto questo non significa promuovere o difendere una memoria di parte, ma ricomporre le tessere sparse di una memoria nazionale che esiste, ed è viva e feconda, solo se riconosciamo che si compone di diversità storiche, ideologiche, sociali, culturali e politiche. Sono queste diversità, ora componendosi e ora scomponendosi, talvolta integrandosi e più spesso scontrandosi, che hanno costruito lentamente l’Italia. Credo perciò che solo dal riconoscimento e dal rispetto delle diverse memorie che compongono il nostro passato – posto che gli eventi trascorsi sono oggettivi, irrevocabili, e il loro ricordo inevitabilmente soggettivo - sarà possibile guardare avanti e progettare un futuro di condivisione e non di ulteriori fratture.


Articolo già pubblicato su Avvenire, il 13 marzo 2011 nella rubrica Agorà, pag. 5
  • TAG: forum culturale cei, risorgimento, questione romana, non expedit

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