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La restaurazione giustinianea in Italia [ di Andrea Capecchi ]

Successi e limiti di un programma ambizioso.

La difficile eredità della guerra greco-gotica


Il lungo conflitto che tra il 535 e il 553 contrappose Ostrogoti e Bizantini per il controllo dei territori italiani produsse effetti devastanti sulla popolazione locale e portò a un generale impoverimento dell’intera penisola, per quasi un ventennio divenuta teatro di violenti scontri tra gli eserciti barbari e imperiali. Il progetto giustinianeo di riconquista dell’Italia, primo passo verso una più ampia quanto difficile ricostituzione dell’autorità imperiale in Occidente, poté così compiersi con successo, ma ad un prezzo molto alto in termini umani ed economici. Un costo che ben presto si sarebbe rivelato impossibile da sostenere per un Impero d’Oriente minacciato militarmente su più fronti e diviso al suo interno dalle controversie religiose.
Il quadro che emerge nella penisola al termine della guerra greco-gotica rivela una forte disintegrazione delle strutture politiche, amministrative e fiscali presenti nelle province italiane. Molte di queste vennero ripetutamente sconvolte dal passaggio delle truppe e dal continuo cambio di dominio, che obbligò gli abitanti del luogo a tassazioni insostenibili e straordinarie per coprire le spese di arruolamento e di vettovagliamento di entrambi gli eserciti. Nel corso del conflitto, infatti, la maggior parte dei territori situati lungo il versante adriatico o nell’area laziale passarono più volte sotto il controllo ostrogoto e bizantino: emblematico fu il caso della Romagna, persa dagli Ostrogoti nel 540, che venne riconquistata da Totila due anni dopo prima di cadere definitivamente in mano bizantina nel 554 con il trionfale ingresso di Narsete a Ravenna. In un contesto del genere l’amministrazione dei territori italiani fu affidata a generali con pieni poteri in campo civile e militare, spesso presenti con le proprie truppe nei centri di maggiore importanza strategica. Accanto alla difesa delle piazzeforti e della popolazione urbana, essi si occuparono in prima persona della riscossione dei tributi, spesso estorti in maniera arbitraria a una cittadinanza già provata da carestie ed epidemie.
Ma l’aspetto forse più significativo dell’intero conflitto è rappresentato dall’intenso spopolamento delle città, i cui abitanti non esitarono a volgersi verso le campagne per scampare agli stenti causati dai prolungati assedi, dalla costante penuria di rifornimenti di grano e di altri beni essenziali e dalla conseguente diffusione di violente epidemie di colera e vaiolo. Tale fenomeno risultò particolarmente evidente nei centri del Lazio, dell’Umbria e della Toscana orientale, nonché dell’entroterra campano; al contrario, i porti della costa adriatica (Rimini, Ancona, Brindisi, Otranto) e tirrenica (Ostia, Anzio, Napoli) furono utilizzati dall’esercito imperiale per lo sbarco dei contingenti militari e per il rifornimento delle truppe, risentendo in misura minore delle difficoltà della guerra.
Un caso particolare è rappresentato dalla città di Roma, le cui vicende di questo periodo sono minuziosamente narrate dallo storico Procopio di Cesarea nel suo De bello gothico. Nel corso del conflitto l’antica capitale imperiale diventò per molti anni teatro di lunghe quanto cruente battaglie tra l’esercito bizantino di Belisario e le truppe gote di Vitige e Totila. La città fu sottoposta a ben tre assedi ostrogoti, cadendo temporaneamente in mano nemica nel 546 e nel 550; tuttavia i nuovi occupanti non riuscirono mai a esercitare un forte e duraturo controllo sulla città, limitandosi a distruggere sezioni della cinta aureliana e a saccheggiare gli edifici pubblici e le abitazioni dell’aristocrazia senatoria.
La popolazione romana uscì estremamente provata dal conflitto: l’Urbe vide cadere in rovina parte delle mura e dei ponti sul Tevere, distrutti durante gli assedi ostrogoti, insieme a molti altri illustri edifici dell’età antica, che nel successivo periodo di pace i governatori bizantini e i pontefici si sforzarono di restaurare. Le difficoltà di vettovagliamento, causate dai ripetuti blocchi delle principali vie di comunicazione terrestri e dall’occupazione nemica della foce del Tevere, avevano portato al collasso delle attività economiche e commerciali presenti in città e al manifestarsi di uno spopolamento ancora più accentuato. Condizioni analoghe erano presenti presso le comunità cittadine e rurali delle regioni interne della penisola, dalla Lucania fino all’Emilia, sulle quali ricadde il peso maggiore del conflitto.


Il ripristino dell’ordinamento romano

La conclusione della guerra nel 552, avvenuta dopo le decisive vittorie bizantine sull’ultima resistenza ostrogota guidata da Teia, evidenziò ancora di più lo stato di miseria e di regresso economico che caratterizzava la penisola alla metà del VI secolo. I vincitori dovettero pertanto affrontare fin da subito un difficile e impegnativo processo di ripristino e riorganizzazione di tutte quelle strutture burocratiche, amministrative e fiscali proprie della precedente età tardo-imperiale che erano state sconvolte o abbattute durante il conflitto.
Principale protagonista e artefice della ricostruzione fu l’eunuco Narsete, già tesoriere e praepositus del palazzo imperiale di Costantinopoli: si trattava di un personaggio che godeva della fiducia pressoché assoluta di Giustiniano, dal quale aveva ricevuto il comando supremo dell’esercito a seguito della destituzione di Belisario. Appena giunto in Italia, ordinò la nuova dislocazione delle armate imperiali nelle aree strategiche della penisola, rinforzò i suoi effettivi assoldando numerosi contingenti di mercenari longobardi, eruli, alani e massageti e portò brillantemente a termine la campagna contro gli Ostrogoti. Dotato di grandi capacità militari e politiche, non si lasciò scoraggiare dalla difficile situazione italiana; dopo essersi insediato a Ravenna con l’esercito nel 554, diede avvio a una serie di disposizioni immediate che preparassero il terreno per una più ampia riforma giuridica e amministrativa dei territori riconquistati.
Dal punto di vista militare, Narsete si occupò inizialmente del congedo dei veterani, del pagamento delle truppe mercenarie e della ricostruzione delle principali fortificazioni andate in rovina durante le operazioni belliche. Notevole fu anche il suo impegno finanziario per la riedificazione della cinta muraria di Roma e il ripristino delle infrastrutture (ponti, strade e soprattutto acquedotti) per garantire alla popolazione dell’Urbe un rapido superamento della crisi. Nei quattordici anni in cui attese al governo della penisola, si preoccupò di istituire una linea di difesa dei territori italiani attraverso la creazione di presidi militari lungo le vallate alpine, con lo scopo di bloccare eventuali incursioni delle popolazioni barbariche d’Oltralpe: alcune di queste erano state alleate degli Ostrogoti nella guerra, e le loro rapide incursioni avevano causato saccheggi e massacri nei centri presi di mira. Narsete trattenne in Italia i suoi magistri militum più esperti e affidò loro il comando dei quattro distretti militari posti lungo la frontiera settentrionale nella fascia subalpina, con sede nelle piazzeforti di Cividale, Trento, Isola Comacina e Susa. Ad essi furono assegnati cospicui contingenti di milites limitanei, specializzati nel controllo e nella difesa delle linee di confine, il cui utilizzo era stato determinante qualche anno prima per consolidare il potere imperiale nell’Africa riconquistata a scapito dei Vandali.
Il nuovo governo fu presto chiamato a promulgare urgenti misure anche in materia economico-fiscale per far fronte a una situazione di generale e diffusa crisi, conseguenza diretta di un ventennio di guerra ininterrotta. Vennero recuperati nuovi fondi, in buona parte provenienti dalla requisizione del tesoro ravennate di Teodorico, da destinare alla ricostruzione delle opere pubbliche e delle infrastrutture. A ciò si aggiunse la riorganizzazione del sistema fiscale, accompagnata dal tentativo di eliminare gli abusi di un’amministrazione locale che continuava a vessare la popolazione; si registrarono inoltre timide misure volte a favorire la ripresa del commercio marittimo con gli altri territori dell’Impero e a porre un freno al continuo aumento dei prezzi, causato dalla scarsità di beni primari e dalla cronica carenza di manodopera sul mercato italiano. Tuttavia tali provvedimenti non ottennero il successo sperato e contribuirono ad accrescere ulteriormente il divario economico tra l’Italia e le altre regioni orientali.


La Prammatica Sanzione e i nuovi assetti amministrativi

A Costantinopoli Giustiniano e i suoi consiglieri si resero ben presto conto che la situazione italiana necessitava di misure di ampio respiro per consentire all’Impero un governo stabile e duraturo sui nuovi territori. Fu grazie a tale consapevolezza che l’imperatore promulgò nel 554 la celebre Prammatica Sanzione, ritenuta dagli storici la testimonianza più evidente e significativa del disegno politico giustinianeo. Con l’entrata in vigore di questo editto, volto a riportare la normalità dopo i lunghi anni di conflitto, giungeva a compimento, almeno dal punto di vista formale, il processo di restaurazione imperiale dei vincoli giuridici e sociali presenti da secoli in Occidente, che la politica antiromana degli ultimi sovrani ostrogoti aveva pesantemente sconvolto.
La Prammatica Sanzione dispose il rientro in Italia degli esuli e dei prigionieri di guerra, la restituzione delle proprietà confiscate ai legittimi possessori, il ritorno dei servi sotto gli antichi padroni, oltre a stabilire l’organizzazione del sistema fiscale e la separazione tra il potere civile e quello militare nell’amministrazione dei territori. Furono inoltre introdotti i nuovi codici di diritto romano elaborati da Triboniano e dai giuristi costantinopolitani negli anni Trenta del VI secolo, a testimonianza di un’attività legislativa estesa su tutti i livelli e intenzionata a conferire una sistemazione organica ai codici dell’età teodosiana.
Nell’ambito dell’amministrazione civile i quadri della penisola rimasero inalterati rispetto all’età tardo-imperiale. Alcuni significativi mutamenti si ebbero nella geografia amministrativa delle regioni italiane, la cui ampiezza territoriale subì un sostanziale ridimensionamento. La Sicilia, il cui status di provincia separata dal dominio diretto di Roma affondava le proprie radici nell’età repubblicana, mantenne la propria autonomia sotto il controllo di un pretore direttamente nominato da Costantinopoli; la Dalmazia venne unita alla provincia dell’Illirico, mentre Corsica e Sardegna entrarono alle dipendenze della ricostituita provincia d’Africa. I restanti territori, costituiti dall’area peninsulare e padana, vennero riorganizzati secondo gli antichi confini amministrativi; nelle città il potere civile fu affidato ai tribuni o comites, rappresentanti del governo imperiale responsabili dell’amministrazione giudiziaria e della riscossione delle imposte. Ad un livello più alto, l’amministrazione civile della penisola continuò a essere gestita dal prefetto del pretorio d’Italia, il quale era coadiuvato da due vicarii risiedenti rispettivamente a Roma e Milano. Il praefectus vicarius Urbis continuò a svolgere entro le mura cittadine e nelle aree suburbane le funzioni già ricoperte durante l’età tardo-imperiale: si occupava di garantire l’ordine pubblico, assicurare il rifornimento annonario e il vettovagliamento della città, controllare le attività commerciali e finanziarie svolte nei mercati e, in alcuni casi, amministrare la giustizia. Il vicarius Italiae, con sede a Milano, svolgeva funzioni analoghe ma estese a tutti i distretti amministrativi dell’Italia settentrionale, configurandosi come il principale rappresentante del potere imperiale in tutta l’area padana.
Diversa rispetto al passato era anche la situazione religiosa presente in Italia dopo la riconquista giustinianea. Durante il regno di Teodorico si era affermata una politica di sostanziale tolleranza religiosa e di pacifica convivenza, come testimoniato dalle architetture religiose presenti nella stessa Ravenna, tra i Romani di fede cattolica e i Goti di confessione ariana, fedeli a una Chiesa nazionale dotata di una struttura autonoma e indipendente da quella di Roma. Tuttavia tale regime di compresenza, già messo in crisi dalla guerra, venne definitivamente abbattuto da Narsete con la decisiva collaborazione di papa Vigilio: il pontefice approfittò della mutata situazione politica per avviare un’intensa opera di conversione dei Goti al cattolicesimo e di cancellazione della Chiesa ariana in Italia, tramite l’incameramento dei suoi beni fondiari e il loro passaggio entro le proprietà delle diocesi regionali della Chiesa romana. Ma mentre quest’ultima si avviava lentamente e faticosamente a intraprendere un processo di riorganizzazione generale del sistema di gestione del proprio patrimonio, i vincitori favorirono fin da subito la sede arcivescovile di Ravenna, destinata ad acquistare entro breve tempo una posizione di indiscusso privilegio nel panorama ecclesiastico della penisola. Essa crebbe in prestigio non solo per le ingenti donazioni fatte dall’imperatore e derivanti dal nuovo ruolo politico della città romagnola, divenuta centro del potere bizantino in Italia, ma anche per la ricchezza materiale di cui godette sotto il regno di Giustiniano. Protetti e dalle autorità imperiali, i rettori della Chiesa ravennate amministravano in totale autonomia i vasti patrimoni ecclesiastici disseminati in Sicilia, Calabria, Puglia e lungo la costa adriatica, consentendo alla sede di poter disporre di un notevole e regolare afflusso di rendite.


I limiti del programma imperiale

Considerato nei suoi aspetti globali, l’ambizioso progetto di riconquista della pars Occidentalis dell’Impero portato avanti da Giustiniano fu caratterizzato da un discreto successo immediato a cui però fece seguito uno sforzo insostenibile sul lungo periodo. Se la sottomissione dell’Italia, dell’Africa romana e dell’Andalusia rappresentò un grande successo di Costantinopoli almeno sul piano militare, lo stesso non si può dire in merito alle misure prese dal governo imperiale nei confronti di questi territori, lasciati troppo presto privi di difese e non supportati da un’adeguata struttura politico-amministrativa, capace di assicurare ai Bizantini un controllo stabile e duraturo.
Già durante l’apogeo del regno di Giustiniano cominciarono a manifestarsi quelle difficoltà e quelle forze disgregatrici che avrebbero condotto il suo Impero sull’orlo della caduta: tra le cause primarie della crisi spiccano la ripresa del lungo ed estenuante conflitto con i Persiani in Mesopotamia, la difficile situazione economica e finanziaria delle province orientali e il riaccendersi di aspri conflitti religiosi tra la Chiesa di Costantinopoli e le comunità nestoriane e monofisite di Egitto e Siria. Il contemporaneo sorgere di tali difficoltà ebbe ripercussioni molto gravi in Italia, dove la restaurazione giustinianea non poté compiersi in maniera completa ed efficace. Il trasferimento di numerose truppe imperiali sul fronte persiano fu il primo, inequivocabile segnale dell’incapacità dei Bizantini di provvedere da soli alla difesa della penisola, che con il passare degli anni venne considerata da Giustiniano come un territorio di sfruttamento e di conquista, e non più come il primo passo verso la riunificazione tra la vecchia e la nuova Roma.
Le stesse disposizioni della Prammatica Sanzione accrebbero la diffidenza della popolazione nei confronti dei nuovo dominatori, considerati come dei “padroni” alla stregua dei Goti, piuttosto che dei “liberatori” dal giogo barbarico: la tanto desiderata autonomia dell’Italia, pur proclamata dai vincitori, finì per diventare un fatto puramente formale, lasciando alla penisola un ruolo di provincia marginale dell’Impero d’Oriente, sostanzialmente ininfluente dal punto di vista economico e militare. Non a caso nel processo di riorganizzazione politica, amministrativa e giuridica avviato da Narsete l’aristocrazia romana ed italica venne sistematicamente esclusa dalle più alte cariche pubbliche nel nuovo assetto della penisola, dal momento che i generali affidarono tali uffici a personaggi di fiducia di provenienza orientale. Rimaneva inoltre irrisolto, da parte delle autorità bizantine, uno dei principali problemi su cui la Prammatica Sanzione aveva maggiormente insistito: il ripristino di una netta distinzione tra il potere civile e quello militare, elemento che per secoli aveva regolato e ordinato l’amministrazione romana. Una rigida divisione tra i due poteri era rimasta in vigore per tutto il V secolo, quando sovrani barbari come Odoacre e Teodorico si sforzarono di mantenere assai marcato il confine tra le due funzioni: tale esplicita volontà dovette però scontrarsi molto presto con prassi ormai radicatesi nel costume amministrativo durante le frequenti guerre che sconvolsero la penisola in questo periodo. Divenne abituale, e in molti casi resa necessaria dalle situazioni contingenti, la tendenza alla sovrapposizione, se non addirittura alla totale unificazione tra le due cariche, con comandanti militari rivestiti di funzioni prettamente civili. Neppure Narsete riuscì a porre un freno alle continue ingerenze dei comandi militari negli affari interni gestiti dall’amministrazione locale, che in breve tempo divenne esecutrice degli interessi del governo di Costantinopoli. Proprio l’incapacità di definire con chiarezza le rispettive sfere di influenza dei poteri civile e militare indebolì sul nascere il dominio imperiale in Italia e minò le basi della sua solidità e della sua unità, quest’ultima messa in crisi a partire dal 560 dallo scisma religioso dei Tre Capitoli tra la Chiesa di Roma e la sede di Aquileia, destinato a protrarsi per più di un secolo e a dividere profondamente il clero italiano.


Riferimenti bibliografici

C. Azzara, L’Italia dei barbari, Il Mulino, Bologna 2002.
M. Meier, Giustiniano, Il Mulino, Bologna 2007.
Procopio di Cesarea, La guerra gotica, a cura di D. Comparetti, Garzanti, Milano 2007.
G. Ravegnani, I Bizantini in Italia, Il Mulino, Bologna 2004.

Documento inserito il: 21/12/2014
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