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Dopo la Costituzione. L’arrivo delle Regioni ordinarie

di Savino Strazza


Con l’approvazione del Titolo V della Costituzione repubblicana e l’entrata in vigore di quest’ultima nel 1948, il nuovo ente regionale avrebbe visto la propria nascita a breve. Almeno questa era l’intenzione dei padri costituenti. In realtà, così non avvenne!
L’VIII disposizione transitoria della Costituzione stabiliva che “le elezioni dei Consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali” dovessero essere indette “entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione”.
La stessa disposizione transitoria statuiva anche che “Leggi della Repubblica” avrebbero regolato “per ogni ramo della pubblica amministrazione il passaggio delle funzioni statali attribuite alle Regioni”. Altre leggi avrebbero, inoltre, disciplinato “il passaggio alle Regioni di funzionari e dipendenti dello Stato”.
Infine, la IX disposizione transitoria stabiliva che la Repubblica, “entro tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione”, avrebbe adeguato “le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni”.
Era, dunque, chiaro che il processo di regionalizzazione della Repubblica non potesse andare avanti se prima non si fosse attuato quanto contenuto in tali disposizioni. E proprio sul termine di un anno per le elezioni dei Consigli regionali si giocò la battaglia tra i fautori delle Regioni e coloro che preferivano rimandare la loro entrata in funzione.
Con l’approssimarsi di tale scadenza in Parlamento si aprì un ampio dibattito. Il 9 dicembre del 1948, infatti, tre senatori del gruppo repubblicano, Giulio Bergmann, Giovanni Conti e Raja, vedendo che il governo non stava prendendo alcuna iniziativa per lo svolgimento della consultazione elettorale né per la proroga del termine, presentarono una Proposta di Legge nella quale si fissava la data per lo svolgimento delle elezioni nel giorno 8 ottobre 1949, qualora “non si fossero già svolte prima”.
La proposta veniva approvata e si trasformava nella Legge 24 dicembre 1948 n. 1465 (c.d. Legge Bergmann) che prorogava il termine della VIII disposizione transitoria sino al 30 ottobre 1949.
Il 19 dicembre, intanto, il governo di De Gasperi aveva provveduto a presentare due disegni di legge per l’attuazione dell’VIII disposizione transitoria: il primo per l’attuazione dell’ordinamento regionale, poi diventato legge n. 62 del 10 febbraio 1953 (c.d. Legge Scelba), il secondo recante “Norme per l’elezione dei Consigli regionali e degli organi elettivi delle Amministrazioni provinciali”, poi ritirato il 31 gennaio 1950.
Il dibattito politico sul percorso regionalista pagava lo scotto di una opinione pubblica indifferente e di una incertezza generale sul tipo di regionalismo da attuare rispetto allo schema aperto della carta costituzionale. La Democrazia Cristiana, pur restando favorevole alle Regioni, avvertiva che il ribaltamento della posizione delle sinistre, ormai dichiaratesi anch’esse favorevoli, preludeva ad una “occupazione di campo”, paventando una possibile vittoria avversaria nelle regioni rosse del centro Italia, con la perdita del controllo politico di fette importanti del territorio. Di qui una posizione più attendista e una predilezione per una visione più accentratrice. Una “politica dei tempi lunghi”, dunque, che avrebbe consentito, tra l’altro, “di approvare prima e meditatamente il complesso delle leggi-quadro in grado di conferire alle regioni quel carattere amministrativo che le avrebbe inserite a pieno titolo nel sistema degli enti locali”.
Ma vediamo, un attimo, le posizioni delle altre forze politiche. Mentre i repubblicani erano regionalisti, si dichiaravano contrari alle Regioni i liberali, quantomeno nella raffigurazione data nella Costituzione. Assolutamente contrari erano, poi, i partiti di centro-destra, specialmente il Movimento Sociale per il timore di una frattura dell’unità nazionale. Queste posizioni emersero chiaramente nel dibattito parlamentare per l’approvazione della legge Bergmann.
Il 25 ottobre 1949 la Legge n. 762, proposta dal deputato democristiano Roberto Lucifredi, disponeva una nuova proroga delle elezioni dei Consigli regionali al 31 dicembre 1950.
Il 16 dicembre Mario Scelba, Ministro dell’Interno, presentava alla Camera tre Disegni di Legge per le elezioni locali. Mentre quelli per le leggi elettorali dei Comuni e delle Province furono approvati (Legge 24 febbraio 1951 n. 48 e Legge 8 marzo 1951 n. 122), quello recante “Norme per la elezione dei Consigli regionali” decadde al termine della legislatura.
Quello che, invece, non decadde fu il già menzionato disegno di legge presentato dal Governo il 19 dicembre 1948, trasformato nel 1953 nella c.d. Legge Scelba. Il progetto governativo era molto agile, si limitava, principalmente, a fissare le modalità per le riunioni del Consiglio regionale, compresa la prima, per l’elezione del Presidente e della Giunta, per l’adozione e la pubblicazione delle deliberazioni; regolamentava la nomina e l’attività del Commissario di governo e della Commissione di controllo sugli atti amministrativi delle regioni; rinviava, infine, la più puntuale organizzazione agli statuti regionali e regolamenti assembleari.
Il disegno di legge incontrò subito l’opposizione di ambienti democristiani rappresentati dall’on. Lucifredi il quale rilevò l’inadeguatezza della normativa proposta nei confronti della complessità della problematica costituzionale. Diventava, perciò, necessaria una più precisa regolamentazione legislativa per definire, specialmente, i limiti dell’attività delle Regioni e i “controlli” cui doveva essere sottoposta. Il testo venne così modificato dalla Commissione Interni della Camera anche con l’aggiunta di un elenco dettagliato delle materie “che avrebbero dovuto essere disciplinate dalla legge nazionale prima di dar vita alle regioni”.
Dopo ulteriori rimaneggiamenti, il testo che ne uscì riguardava principalmente la potestà statutaria, la composizione e il funzionamento degli organi regionali, i controlli sulle Regioni e di queste sugli atti degli enti locali. Ma ciò che ormai appariva chiaro dai lavori della Commissione Interni era la consapevolezza che l’attuazione dell’autonomia regionale non si sarebbe esaurita in una sola legge ma avrebbe comportato successivi interventi normativi. Così, in aperto contrasto con lo spirito dell’VIII disposizione transitoria della Costituzione, veniva fissato il “prudente criterio di gradualità” con cui si sarebbe dovuto svolgere il percorso di nascita delle Regioni.
La Camera approvò il nuovo testo nel novembre del 1951. L’esame fu ripreso dal Senato soltanto un anno dopo per concludersi nel gennaio del 1953. Il dibattito parlamentare rivelava un clima di aperta preoccupazione per le nascenti autonomie regionali e lo stesso governo mostrava tutti i suoi dubbi e le sue incertezze per possibili vittorie delle forze di opposizioni.
La Legge Scelba rispondeva sicuramente ad una filosofia ampiamente riduttiva delle funzioni regionali, viste soprattutto nei loro connotati amministrativi. Dati questi limiti, la normativa venne largamente abrogata in coincidenza con l’approvazione degli Statuti delle regioni ordinarie.
Questa connotazione più amministrativa dell’impalcatura dell’autonomia regionale caratterizzò le iniziative del governo nei successivi dieci anni, nel corso della II e III Legislatura, sulla motivazione dell’importanza del decentramento amministrativo e dell’efficienza della stessa macchina amministrativa. Di qui i vari disegni di legge sulla finanza e la legge elettorale regionale, ma anche le diverse leggi-cornici nel tentativo di lasciare sempre meno spazio alla funzione legislativa regionale. Di fronte a tutto questo il dibattito parlamentare replicava gli scontri tra autonomisti e contrari, tra attendisti e chi voleva accelerare il processo. Fondamentalmente non si arrivò ad alcuna decisione di rilievo.
Le cose cambiarono con gli anni ’60 e con il formarsi dei governi di Centro-Sinistra. L’attuazione del dettato costituzionale in materia regionale diventava un punto importante del programma del IV Governo Fanfani del febbraio 1962, formato da DC, PRI e PSDI, con l’appoggio esterno del PSI. Ma a spaventare la Democrazia Cristiana giunse il timore che le alleanze PCI-PSI in molti Comuni potessero essere riproposte nei governi regionali.
Nel I Governo Moro del dicembre 1963 il tema regionale ritornò al centro del programma politico anche in vista di una estensione del metodo della programmazione per superare i divari ancora esistenti nel Paese, in particolare quello tra Nord e Sud. Aldo Moro, peraltro, nel 1960 aveva presieduto la “Commissione di studi per l’attuazione delle Regioni di diritto comune”, istituita con lo scopo di studiare le modifiche alla normativa del 1953 e di elaborare un progetto sul finanziamento delle Regioni.
Il 21 giugno 1967 il Ministro dell’Interno, Paolo Emilio Taviani, presentò alla Camera un disegno di legge poi approvato come legge elettorale regionale (Legge 17 febbraio 1968 n. 108). Era il momento conclusivo di un lungo dibattito politico tra i sostenitori delle elezioni a suffragio universale e diretto e coloro che sostenevano elezioni indirette di secondo grado affidate ai consiglieri provinciali. Il disegno di legge governativo definitivo optò per le elezioni dirette anche per il clima politico diverso venutosi a creare, con il consolidamento della collaborazione DC-PSI.
La Legge n. 108 (“Norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale”) concluse il suo iter parlamentare con il voto favorevole dei partiti di governo (DC, PSI, PRI e PSDI), oltre che delle opposizioni di sinistra (PCI e PSIUP), e il voto contrario di PLI, MSI e monarchici.
Nel testo legislativo si stabiliva, inoltre, che le prime elezioni regionali dovessero avvenire “contemporaneamente alle elezioni comunali e provinciali” e che, in ogni caso, si sarebbero dovute tenere entro il 1969, termine poi spostato alla primavera del 1970 dalla Legge 7 novembre 1968.
Il 22 maggio 1970 fu pubblicata la Legge 16 maggio 1970 n. 281 (“Provvedimento finanziari per l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario”), c.d. legge finanziaria per le regioni a statuto ordinario.
La normativa era espressione di una scelta “restrittiva” dell’autonomia finanziaria regionale. Di fronte al dettato dell’art. 119 della Costituzione, infatti, si adottava una interpretazione riduttiva, non consentendo alle regioni di istituire tributi propri pur nei limiti dei principi statali. A nulla valse l’opposizione delle sinistre, in special modo del Pci, che presentarono una propria proposta di legge.
Con l’elezione dei Consigli Regionali del 1970 le Regioni entrarono nelle storia istituzionale italiana, provvedendo subito alla propria fase costituente con l’approvazione degli Statuti.
Gli Statuti vennero promulgati il 22 maggio 1971, ad eccezione di quelli dell’Abruzzo e della Calabria dove i ritardi erano stati provocati dalla scelta del capoluogo di regione, promulgati nel luglio.
A completare la prima fase del regionalismo italiano intervenne la delega per la definizione delle funzioni, degli uffici e del personale da trasferire ai nuovi Enti come stabilito dall’art. 17 della legge n. 281 del 1970. Tale disposizione della legge finanziaria delegava il Governo ad emanare, entro due anni dalla sua entrata in vigore, dei decreti aventi valore di legge ordinaria per regolare il passaggio alle Regioni delle funzioni previste dall’art. 117 della Costituzione oltre che del relativo personale statale.
Come ha precisato il Cuocolo l’art. 17 della legge 281 modificava anche radicalmente l’art. 9 della legge 1953, n. 62 (in forza del quale, e salvo marginali eccezioni, veniva subordinata la possibilità delle Regioni di legiferare alla previa emanazione delle c.d. “leggi-cornice”, cioè di “leggi della Repubblica contenenti, singolarmente per ciascuna materia, i principi fondamentali cui deve attenersi la legislazione regionale”), ammettendo la possibilità per le Regioni di legiferare nei limiti dei principi fondamentali quali risultavano da leggi che espressamente li stabilivano per singole materie o quali si desumevano dalle leggi vigenti, rendendo così non necessaria la previa emanazione delle leggi cornice. Inoltre, l’art. 17 faceva decorrere l’inizio della possibilità di legiferare da parte delle Regioni dall’emanazione (e dunque non dall’entrata in vigore) dei decreti di trasferimento delle funzioni amministrative o, in caso di mancata emanazione di tali decreti, dopo un biennio dall’entrata in vigore della l. 281 (e cioè, al più tardi, dal 6 giugno 1972).
Con il Decreto-legge n. 1121 del 28 dicembre 1971, intanto, si stabiliva che i decreti ex art. 17 L. 281 avrebbero avuto effetto, per quanto riguardava “il trasferimento delle funzioni amministrative”, dall’1 aprile 1972, precisando che dalla stessa data sarebbe iniziato l’esercizio da parte delle Regioni delle funzioni trasferite.
I decreti delegati, 11 in tutto, vennero emanati, i primi 6 il 14 gennaio 1972, gli altri 5 il 15 gennaio dello stesso anno. Essi trasferivano alle Regioni le funzioni amministrative nelle seguenti materie: circoscrizioni comunali e polizia locale; acque minerali, cave e torbiere; assistenza scolastica, musei e biblioteche; assistenza sanitaria ed ospedaliera; trasporti; turismo ed industria alberghiera; fiere e mercati; urbanistica, viabilità ed espropriazione; beneficenza pubblica; istruzione artigiana e professionale; agricoltura, caccia e pesca.
La fase preliminare alla emanazione dei decreti, di consultazione delle Regioni e di confronto con le amministrazioni centrali, profondamente restìe a spogliarsi di funzioni, personali e beni, si concluse con soluzioni di compromesso che, messi da parte i progetti di una riforma statale, produsse un vero e proprio spezzettamento delle materie trasferite e varie esclusioni, in aperta violazione dei criteri di delega stabiliti dalla legge secondo cui il trasferimento delle funzioni statali alle Regioni sarebbe dovuto avvenire “per settori organici di materie”.
Successivamente le Regioni avrebbero tentato di ricomporre il quadro organico delle funzioni utilizzando lo strumento dell’impugnativa davanti alla Corte costituzionale, strumento cui avevano fatto ricorso negli anni precedenti le stesse Regioni a Statuto Speciale. Di qui l’impugnazione di 5 decreti, per contrasto con l’elenco delle materie dell’art. 117 della Costituzione e per violazione dei criteri direttivi della delega, da parte di Liguria, Emilia-Romagna, Lombardia, Puglia e Umbria.
Ma la Corte, con le sentenze nn. 138-142 del 1972, respinse le tesi regionali, propendendo per una interpretazione restrittiva delle norme costituzionali, chiamando in causa l’interesse nazionale, gli obblighi comunitari e internazionali e la salvaguardia delle funzioni degli enti locali e ritenendo, in sostanza, legittimo il metodo del ritaglio di competenze.
Pur con qualche decisione successiva della Corte favorevole alle Regioni, si dovette aspettare il luglio del 1975 con la Legge n. 382 e il 1977 con il DPR n. 616 per avere un indirizzo legislativo e giurisprudenziale più favorevole all’autonomia regionale, ma le Regioni si erano ormai conquistati sul campo quelli che sarebbero stati i successivi sviluppi istituzionali a partire dalla riforma del Titolo V operata dalla Legge Costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001.


Nell'immagine, in grigio le regioni a statuto ordinario, in rosso le regioni a statuto speciale e provincie autonome.


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Documento inserito il: 24/05/2024
  • TAG: Costituzione, Repubblica Italiana, regioni ordinarie, regioni a statuto speciale

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