Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia autori: La Patria di confine di Cesare Battisti

La Patria di confine di Cesare Battisti [ di Antonio Gibelli ]

Dopo diaspora e sofferenze inizia in Trentino la gestazione di una nuova idea di nazione.

Era l’alba del 10 luglio 1916 quando Cesare Battisti, geografo e giornalista trentino, deputato socialista a Vienna, esponente di punta dell’irredentismo e volontario nell’esercito italiano, fu catturato dagli austriaci. Gli avvenimenti che seguirono, svoltisi sotto l’attenta regia delle autorità asburgiche, configurarono una specie di via crucis e di rito sacrificale che nel giro di tre giorni sfociò nell’esecuzione del condannato all’interno del Castello del Buonconsiglio di Trento. Messo in catene, fu condotto sopra una carretta galiziana in mezzo ad ali di folla convocata per l’occasione o spinta dalla curiosità, con soste cadenzate allo scopo di permettere ai convenuti di guardarlo da vicino e di insultarlo. Nelle manifestazioni di ostilità, in parte spontanee in parte alimentate ad arte, affiorò l’identificazione degli irredentisti come capro espiatorio per le violenze inferte alla terra e alla popolazione trentina per aver voluto la guerra (“porchi taliani”, “vi daremo noi le prediche e le conferenze per la guerra”). In effetti, il Trentino era diventato zona di operazioni – con tutte le conseguenze del caso consistenti in distruzioni, sfollamenti, deportazioni - dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria nel 1915, anche se dall’anno precedente i suoi abitanti erano stati mobilitati in quanto sudditi dell’impero nell’immane scontro esploso in Europa.
Nel castello del Buonconsiglio Battisti, con l’istriano Fabio Filzi che ne aveva fino a quel momento condiviso la sorte, subì un sommario processo concluso con la condanna a morte. La sentenza fu eseguita il 12 luglio in una serata ancora luminosa dell’estate trentina, dopo che agli imputati fu fatto indossare, al posto della divisa militare, un vestito di stoffa ruvida a grandi riquadri. Battisti affrontò la prova con grande dignità e fermezza: il portamento eretto, lo sguardo severo (aveva occhi nerissimi), il pizzo scuro rivolto in avanti in segno non di sfida ma di una specie di imperturbabilità che niente poteva scalfire. Nel cortile interno del castello erano stati fatti affluire numerosi militari destinati ad assistere al supplizio, mentre un contorno di curiosi si era assiepato nelle vicinanze senza riuscire ad affacciarsi. Un fitto, insistito lampeggiare da ogni parte di scatti fotografici accompagnò tanto il trasferimento quanto l’esecuzione: pare infatti che il divieto di fare fotografie legato allo stato di guerra fosse stato sospeso per l’occasione. Una sequenza di tali fotografie è oggi conservata nei musei trentini e documenta l’evento con angosciosa dovizia di dettagli.
Ad eseguire la sentenza con una sorta di garrota fu il boia Josef Lang, con la collaborazione di alcuni aiutanti. Il gruppo è rimasto rappresentato in posa attorno al corpo esanime di Battisti, in attitudine compiaciuta per il lavoro eseguito, in diverse inquadrature fotografiche circolate per qualche tempo clandestine, poi oggetto di una divulgazione a scopo propagandistico che crebbe nel corso degli anni. Qualche anno dopo il celebre commediografo austriaco Karl Krauss, nell’opera Gli ultimi giorni dell’umanità scrisse pagine brucianti contro l’autorappresentazione di ferocia che aveva marchiato l’Austria in quella occasione, non solo per il rituale della messa a morte ma per la sua oscena moltiplicazione in un evento mediatico, un vero e proprio spettacolo della crudeltà, che ne aveva sanzionato di fronte al mondo la decrepitezza. L’impero aveva offerto così all’Italia la migliore arma propagandistica già confezionata. “Perché non solo abbiamo impiccato, ma ci siamo anche messi in posa, e abbiamo fotografato non solo le esecuzioni, bensì anche gli spettatori, e addirittura i fotografi”. L’impiccagione di Battisti fu in questo senso un tramite tra ancien régime e modernità: del primo aveva il carattere di spettacolarità del supplizio col concorso di popolo, della seconda l’uso dei mezzi di riproduzione meccanica e di circolazione di massa delle immagini.
Pensata come un monito rivolto a tutti coloro che volevano ribellarsi al dominio asburgico, la macabra sceneggiata si ritorse dunque contro gli autori. Battisti divenne ben presto l’icona principe del patriottismo italiano, entrò a pieno titolo nel martirologio nazionale e nel culto degli eroi, fu eretto, non senza forzature, a figura simbolo del nazionalismo (mentre la sua visione era ispirata a una più ampia idea di riscatto dei popoli, secondo i moduli dell’interventismo democratico), fu usato da Mussolini per promuovere politiche di italianizzazione contro la popolazione tirolese di lingua tedesca. Negli anni venti e trenta ritratti fotografici dell’uomo e del l’evento erano disposti, per impulso di maestri e maestre zelanti, alla sommità di piccoli altari di scuola o di classe custoditi da scolari e scolare che erano invitati a scrivere lettere di deferenza alla vedova Ernesta Bittanti così come alla madre di Fausto e degli altri fratelli Filzi: lettere piene di ingenuo odio contro i carnefici immaginati in preda alle fiamme dell’inferno e di espressioni affettuose per gli eroi proiettati nell’apoteosi della vita eterna.
Se Battisti non fosse stato che l’esponente di punta di un popolo insofferente del dominio imperiale, il discorso sull’italianità del Trentino potrebbe finire qui. Ma non è così. Al di là della pattuglia irredentista celebrata dalla mitologia nazionale, gran parte della popolazione non aveva motivo per mettere in discussione la lealtà al vecchio imperatore, al centro di un ordine multinazionale che appariva immutabile, anche se non si sentiva austriaca ma semplicemente trentina. In questo senso la figura del martire non solo non esaurisce, ma per certi aspetti ha finito per nascondere la storia del Trentino in guerra e della lacerante gestazione della sua italianità. Oltre la figura ieratica dell’eroe, c’è un intero popolo attraversato come la sua terra di confine da un solco di sofferenze, travolto da una diaspora senza precedenti a causa del conflitto: un popolo – come è stato detto – scomparso, cioè a lungo dimenticato dalla memoria pubblica e dalla storia. Se la Grande Guerra, con la sua tragica mescolanza di linguaggi e di destini nelle trincee, ha avuto un ruolo fondamentale nel fare gli italiani, in Trentino ciò è avvenuto attraverso un cammino doppiamente lacerante e tortuoso che ha richiesto decenni per essere rielaborato
. Il clima nazionalistico del dopoguerra esaltò infatti la scelta ideale di quanti – spesso giovani o giovanissimi – avevano condiviso l’ispirazione irredentista, che furono circa 700, molti dei quali pagarono con la vita la propria opzione ideale, e cancellò gli altri, quasi tutti contadini e montanari, che avevano servito sotto le insegne asburgiche: su una popolazione che contava allora 390.000 abitanti (di cui il 94 % italofoni e in piccolissima parte ladini), circa 55.000 furono quelli che risposero alla mobilitazione e combatterono sul fronte orientale, in Galizia, Bocovina, Volinia, migliaia di chilometri lontani dalla loro terra, al contatto con popolazioni che non avevano mai visto prima. Oltre 10.000 di essi, secondo conteggi ancora difficili e perciò incerti, morirono in scontri immani. Molti altri (circa 12.500) furono catturati e affrontarono durissime prigionie in Siberia, finendo addirittura – dopo la vittoria della rivoluzione bolscevica - in Estremo Oriente e dovendo fare il giro del mondo prima di ritornare a casa. E qui, dopo queste peripezie, partiti sudditi di Francesco Giuseppe essi scoprirono di essere diventati, a loro insaputa e senza essere interpellati, sudditi di Vittorio Emanuele III. Ma non fu solo questa la tragedia dimenticata del popolo trentino. Se l’Italia conobbe il fenomerno del profugato e lo esaltò come problema nazionale solo dopo Caporetto, il Trentino fu subito investito da un massiccio esodo, in parte verso l’interno dell’Austria (secondo calcoli attendibili, circa 75.000, distribuiti tra Boemia e Moravia in un territorio venti volte più grande della regione di origine), in parte minore verso l’Italia. Una vicenda che non aveva nessuna particolare valenza nelle retoriche nazionali e che quindi non trovò nessuno spazio nel racconto patriottico.
Ci sono voluti più di novant’anni – tanti ne sono trascorsi tra l’esecuzione di Battisti e la pubblicazione di un libro dedicato alla sequenza fotografica della morte - perché la figura del martire fosse sottratta alle retoriche dell’eroismo divisivo e restituita alla sua autentica grandezza, senza dimenticare le lettere scritte alla moglie nelle quali intravedeva fin dal 1915 la disperata degradazione di una guerra pur tanto intensamente voluta. Nel frattempo – grazie allo stesso gruppo di storici trentini e al recupero delle fragili scritture epistolari e diaristiche dei combattenti, dei prigionieri, degli internati – ha preso corpo la voce di quel popolo dimenticato per essersi trovato ineroicamente dalla parte “sbagliata”. Non diversamente, del resto, da quanto era accaduto all’altro popolo, quello dei contadini e dei montanari italiani che avevano combattuto dalla parte “giusta” ma senza sapere perché e che avevano ugualmente affidato alle loro sgangherate scritture il segno delle loro sofferenze e resistenze. Così la dicotomia si è in qualche modo sanata, a conferma del fatto che anche la storia e gli storici, ricostruendo le grandi cose fatte assieme o patite assieme seppur da parti contrapposte o lontane, possono contribuire a modo loro a fare gli italiani.


Bibliografia

Q. Antonelli, I dimenticati della Grande Guerra. La memoria dei combattenti trentini (1914 – 1920), Il Margine, Trento 2008.

Come si porta un uomo alla morte. La fotografia della cattura e dell’esecuzione di Cesare Battisti, a cura di D. Leoni, con saggi di A. Gilardi, D. Leoni, S. Pinato, F. Rasera, Museo storico in Trento, Provincia autonoma di Trento, Trento 2007.

D. Leoni, Regioni di confine. Il caso trentino, in La prima guerra mondiale, a cura di S. Audoin-Rouzeau e J.J. Becker, edizione italiana a cura di A. Gibelli, vol. II, Einaudi, Torino 2007.

A. Gibelli, La Grande Guerra degli italiani (1915 – 1918), Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2007.


Articolo già pubblicato sul "Il Sole 24 Ore" del 23 marzo 2011.
  • TAG: antonio gibelli, prima guerra mondiale, cesare battisti, castello buonconsiglio, irredentismo, esecuzione

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