Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia, medio evo: Goffredo di Monmouth e il ciclo arturiano nell’Inghilterra normanna del XII secolo
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Goffredo di Monmouth e il ciclo arturiano nell’Inghilterra normanna del XII secolo

di Davide Arecco


Religione, storia e cultura nella Britannia medievale sotto gli Anglo-Normanni

Storia e leggende, tradizione e mito, esoterismo ed epica cavalleresca del Medioevo inglese si trovano profondamente intrecciati, in modo quasi inestricabile, nell’opera di Goffredo di Monmouth (1100-1155), scrittore raffinato di opere latine e storico della Britannia, vescovo inglese medievale ed iniziatore del ciclo arturiano, tra le figure più importanti della cultura anglo-normanna, durante il secolo XII, capace di unire nei suoi scritti ricostruzione storica e voli di fantasia.
Goffredo venne al mondo a Monmouth, signoria indipendente del Galles meridionale d’allora, originario di una famiglia nativa con tutta probabilità della Bretagna francese. Cresciuto ed educato in un monastero dell’Ordine benedettino, si fece egli stesso monaco. Trasferitosi, quindi, ad Oxford, vi divenne canonico della Chiesa di Saint George. Immatricolatosi presso l’Università oxoniense, si laureò guadagnandosi il grado di Magister. Nel corso della sua attività di insegnante, poté conoscere l’Arcidiacono Gualtiero, che diventò il suo protettore ed ispiratore, spingendolo a scrivere la storia dei re britannici. La carriera ecclesiastica condusse Goffredo ad essere promosso prima Arcidiacono a Monmouth – e a Saint Teilo, presso Llandaff – quindi (1152) vescovo di Saint Asaph, succedendo a Teobaldo di Bec, nel Galles del sud, in una regione caratterizzata dai frequenti ed aspri scontri fra normanni e ribelli gallesi.
Nel 1136, Goffredo cominciò a scrivere una cronaca latina, la Historia Regum Britanniae, che in seguito rivide e ritoccò, sino al 1147. L’opera, ritenuta da molti interpreti successivi il primo best seller della letteratura inglese, divenne presto celebre, in tutta l’Europa, incontrando una diffusione manoscritta notevolissima e venendo trasmessa oralmente da bardi e menestrelli. Il codice, dedicato dall’autore a Roberto I di Gloucester, ripercorreva la storia dei monarchi britanni entro un quadro di lungo periodo, che arrivava a coprire oltre duemila anni, partendo da Bruto di Troia (discendente di Enea, al quale Monmouth riportava dunque le origini della dinastia regia inglese) sino alla venuta in Britannia degli anglosassoni nel VII secolo. Nel corso del Medioevo, non solamente inglese, grande se non grandissima fu la popolarità dell’opera, che contribuì anche direttamente alla fondamentale e strettamente connessa nascita della tradizione letteraria arturiana.
La genesi della Historia Regum Britanniae ci sembra, in apparenza, semplice. Goffredo stesso la presentò come un’opera storiografica che si limitava a tradurre in latino un non meglio precisato Liber vetustissimus di antiche cronache gallesi, procuratogli a Oxford dall’Arcidiacono Gualtiero, il suo mentore. Monmouth avrebbe pertanto voltato in latino una più antica storia in lingua celtica. Le altre fonti da lui impiegate furono le cronache di Nennius e di Gildas. Se l’opera storiografica messa a punto da Goffredo sia davvero stata una rielaborazione latina di fonti tradizionali anglo-celtiche, è questione ancora oggi discussa e dibattuta. Sul piano dei contenuti storici, la Historia fornisce dati, notizie ed informazioni, in buona parte collegabili a figure ed eventi concreti, ma il discorso sfuma, spesso e volentieri, nel mito, con non poche concessioni ad elementi leggendari. Quella di Goffredo, in sostanza, è una storia politica e militare, religiosa e istituzionale, che dipinge il quadro di dinastie sovrane inglesi sovente contrapponendo i bretoni ai gallesi ed i britanni ai sassoni. Non è assente – pertanto – una visione ideologica di fondo, che emerge qua e là fra le carte del testo, dove l’autore è concentrato ad esaminare i dissidi talora emergenti nel passato delle varie nazioni anglo-britanniche (per quanto in un quadro comunque dal sapore unitario).
Anche nella dedica iniziale delle Prophetiae Merlini, raccolta di materiali e testi profetici, sul futuro della Britannia, inclusa nella Historia e forse compilata in anni precedenti, con implicazioni politiche di nuovo abbastanza evidenti, Monmouth si presentò come un semplice traduttore di libri perduti ed oscuri testi manoscritti celtici. Il classico espediente letterario, qui usato, forse, anche per mascherare o meglio giustificare l’afflato talvolta propagandistico di alcuni passi dell’opera. Circa, poi, certe parti che possono apparire improbabili, ad un severo esame critico – l’innaturale longevità attribuita a Merlino, ad esempio – la cosa si spiega con il desiderio dell’autore, di riconciliare il suo personaggio (un vero e proprio protagonista di primo piano sia della Historia Regum Britanniae, sia della Vita Merlini, ad essa collegata) con due figure storico-leggendarie di epoche diverse, Myrddin Emrys e Myrddin Wyllt, a cui, evidentemente, Goffredo aveva attinto, mediante altre fonti perdute, forse proprio di origine celtica. Certamente, Monmouth si ispirava complessivamente alla tradizione celtica gallese, se non proprio traducendola, senz’altro reinterpretandola, e adattandola al suo gusto, alle sue inclinazioni e ai suoi interessi. Insomma, al suo cosmo, medievale, di valori e vedute, quelle di un religioso e storiografo della Britannia anglo-normanna del XII secolo, legatissimo ai principi e alle tradizioni della propria terra, amate e raccontate al pubblico della Historia Regum non senza un certo orgoglio per le vicende della propria nazione: anche e soprattutto quelle più antiche, le quali si perdevano fra le inevitabili nebbie di miti e leggende, per Goffredo – come per ogni dotto e studioso del Medioevo, non solamente in Inghilterra - parte comunque della storia stessa. Qualcosa di più, ad ogni modo, di un fantasy storico di ambientazione e matrice albionica, semmai il tipico prodotto sul piano storiografico della cultura e della mentalità inglesi medievali.
La Historia Regum Britanniae si apre con una dichiarazione dell’autore – simbolo certamente della sua dedizione di religioso, oltre che di storico – che è un omaggio a Cristo e ad Artù, quindi al passato cristiano e pagano insieme delle antichissime isole angliche. Monmouth dichiara altresì che le fonti su cui si è basato sono state più di una: scritti dell’Arcidiacono Walter di Oxford, venerandi e antichissimi libri in lingua britannica, Gildas e naturalmente Beda. Conoscenza, saggezza e amore per la storia inglese sono i capisaldi, a cui si rifà l’autore dell’opera, dedicata – oltre che a Roberto I di Gloucester – anche a Waleran de Beaumont, primo conte di Worcester. A loro, Monmouth chiede di migliorare la propria storia dei re inglesi. Tra questi ultimi, Goffredo inserisce anche Artù, per lui un personaggio storico realmente esistito, anche se riconosce di non avere trovato documenti nuovi e diretti che lo riguardano. Ad ogni modo, il rimando congiunto a Cristo e ad Artù non è certamente casuale, anzi: il primo è il portatore della nuova fede introdotta anche nelle isole britanniche, mentre il secondo – con la sua conversione al cristianesimo, al pari di altri celti e barbari del Nord Europa – incarna con la ricerca del Graal, secondo la tradizione di Giuseppe di Arimatea, un completamento, meglio ancora una sorta di coronamento, della storia cristiana anglica d’età tardo-antica.
Il Libro I della Historia Regum Britanniae prende avvio con il troiano Enea in Italia, e si basa su Virgilio. Il suo pronipote Bruto, bandito da Roma, intraprende un vagabondaggio, ordinato dalla Dea Diana, che lo porta a stabilirsi su un’isola, nell’oceano nord-occidentale. Sbarcato a Totnes, qui Bruto chiama per la prima volta Gran Bretagna l’Isola di Albion. Vi sconfigge i giganti che abitano quei territori e vi fonda la sua capitale, Nuova Troia – la successiva Trinovantum, futura Londra – sulle rive del Tamigi. E’ l’alba della gloriosa storia anglo-britannica.
Il Libro II della Historia comincia con i figlio di Bruto – Locrinus, Kamber ed Albanactus – i quali si dividono la nuova terra inglese, in regni denominati Loegria, Kambria (a nord e ad ovest del Severn sino a Humber) e Alba (la futura Scozia). Figlio di Locrinus è Bladud, devoto alla magia e al sapere ancestrale di arti perdute. Suo figlio Leir regna per oltre mezzo secolo, e prima della morte – senza primogeniti maschi – divide il regno fra le sue tre figlie (Goneril, Regan e Cordelia), sposate ai Duchi di Albany in Cornovaglia tranne Cordelia, moglie del re franco Aganippus che si stabilisce in Gallia. Presto Goneril e Regan con i loro mariti conquistano l’intero Regno. Afflitto, Leir si porta in Gallia riconciliandosi con Cordelia, ripristinata nelle sue vesti regali. Anche Aganippus aiuta, con un esercito gallico, Leir, il quale ritorna in Gran Bretagna, sconfigge i generi ribelli e si riappropria del Regno. Alla sua morte, tre anni più tardi, Cordelia eredita il trono e regna per cinque anni, prima di venire spodestata dai nipoti Margano e Cunedagius. Inizia così per la Britannia un periodo oscuro di liti dinastiche e conflitti militari, concluso solo quando Cunedagius uccide Margano, nel Galles, e si prende l’intero Regno, governando per trentatre anni. Gli succede il figlio Rivallo. Un successivo discendente di Cunedagius, il Re Gorboduc, ha due figli chiamati, Ferreux e Porrex, i cui contrasti e la cui morte per assassinio scatenano una guerra civile, sull’isola. Al termine di essa, vi sono cinque regni in Britannia, in perpetua lotta fra loro. Il maggiore è quello di Dunvallo Molmuzio, il figlio di Cloten, Re di Cornovaglia, che sconfigge gli altri in una serie di battaglie e stabilisce il suo dominio sull’Inghilterra. A lui si devono le «leges mulmotinae» a lungo ricordate dal popolo inglese.
Il Libro III della Historia comincia con la guerra civile tra le due fazioni dei figli di Dunvallo, Belinus e Brennius, che infine si riconciliano e comandano quindi, insieme, una discesa nell’Europa centro-meridionale, che porta al sacco di Roma. Brennio resta a governare gli spazi italici, mentre il fratello torna a regnare in patria. Il resoconto continua con i sovrani successivi della Gran Bretagna: Lud – che dà a Trinovantum il nuovo nome di Kaerlud – e i suoi discendenti, Androgeus (il Duca di Kent) e Tasciovano (il Duca di Cornovaglia).
Il Libro IV della Historia tratta della conquista romana della Gallia, da parte della flotta di Giulio Cesare, fermato inizialmente da Cassivellauno. A quest’ultimo succede il nipote, Tenvantius, quindi Kymbelinus e Guiderio. Claudio decide di invadere la Gran Bretagna, trovando l’orgogliosa ma vana opposizione, prima proprio di Guiderio, e poi di suo fratello, Arvirargo. La stirpe dei Re di Britannia prosegue, a quel punto, sotto la dominazione di Roma. Lucio è il primo monarca cristiano di Inghilterra. Quando Ottavio passa la corona al genero, Maximianus, suo nipote, Conan Meriadoc, riceve il governo delle terre britanniche. Alla partenza dei Romani – all’inizio del V secolo – celti e britanni si trovano a dovere contrastare gli attacchi provenienti dai Pitti, Scoti e Danesi. Per narrare tale convulsa fase storica, Monmouth si avvale massicciamente del trattato De Excidio et Conquestu Britanniae dell’abate e storico Gildas, grande fondatore di monasteri nell’Inghilterra del VI secolo e tra i primi storiografi britannici di religione cristiana.
I Libri V e VI della Historia trattano dei Re di Bretagna in Armorica, discendenti di Conan. Il racconto va avanti con Aldroenus, Constantine e soprattutto Vortigern, a governare i Britanni. I figli di Vortigern, Aurelio Ambrosio ed Uther, sono ancora troppo giovani per regnare e, in un’epoca di torbidi e di intrighi, vengono condotti al sicuro, in Armorica. Vortigern si rivolge in cerca di aiuto ai sassoni Hengist e Horsa, per arruolarli come mercenari, ma questi ne approfittano in maniera infida, allo scopo di muovergli guerra e di occupare l’Inghilterra. Con parte dei propri territori invasi, il Re Vortigern incontra, a quel punto, il mago Merlino. Il Libro VII della Historia contiene le profezie di Merlino, o meglio a lui attribuite. Alcune di esse fungono da epitome dei capitoli seguenti, mentre, invece, altre sono velate allusioni a persone ed eventi storici del mondo anglo-normanno tra l’XI e il XII secolo. Il testo della Historia si fa qui molto oscuro e criptico, il linguaggio per iniziati. Pare di leggere una versione messianica dei testi ermetici e alchemici di quel tempo, rivolti a un pubblico di adepti, e segnati dall’osservanza assoluta verso il vincolo della segretezza. In questa parte della sua opera, Monmouth si rifà apertamente alla tradizione precedente del bardo e profeta celtico Myrddin Emrys, seguendo le esortazioni del vescovo Alessandro di Lincoln (citato, altresì, nella dedica della Historia), che gli aveva domandato di de britannico in latino transferre le profezie di Myrddin. Fu Goffredo ad usare per la prima volta il nome di Merlino, latinizzando Myrddin, con qualche ritocco, e soprattutto rileggendo, in chiave cristiana, la figura del profeta britannico. Il linguaggio impiegato dalle profezie è altamente e volutamente simbolico-allegorico, allusivo e talora sfuggente. Il testo di esse verte principalmente sul futuro politico e religioso dell’Inghilterra. Le si ritrova infatti riprese e collegate, inoltre, nel Libro IX della Historia Regum Britanniae. La circolazione indipendente delle profezie fu molto ampia e la loro diffusione manoscritta ancora maggiore: ne sono stati rinvenuti, in effetti, ben ottanta esemplari. L’inserimento delle Prophetiae nel quadro complessivo della Historia non costituisce peraltro una totale forzatura e la figura di Myrddin si ritrova unita, in maniera salda e definitiva, alla storia dei re britannici, in particolare ai personaggi di Vortigern e Uther Pendragon, il padre di Re Artù secondo una tradizione peraltro non sempre condivisa dalle fonti manoscritte del Medioevo anglo-irlandese. Del resto, la stessa storia celtica e britannica dal IV al VI secolo è oscura e poco nota agli storici ancora oggi, spesso ammantata di contorni leggendari e al confine con miti e tradizioni di cui si è persa memoria, sul piano documentario e materiale. Il Libro VII della Historia, nondimeno, rappresenta in termini inequivocabili la nascita letteraria della figura di Merlino, di lì a breve del tutto centrale nel ciclo bretone. Nella Historia, terminata dall’autore nel 1138, Merlino fa quindi la sua prima comparsa. Per costruirne l’immagine, Monmouth attinse a miti e leggende riletti e riscritti con propositi storiografici, al fine di inserirne il profilo, nel racconto delle vicende dei Re della Britannia tardo-antica, a sua volta ricompresa entro una narrazione di lungo – meglio ancora, di lunghissimo – periodo: oltre venti secoli, come si diceva più sopra. Un progetto certamente assai ambizioso e non facile da portare a conclusione: davvero l’opera di una vita, per Goffredo.
Il Libro VIII della Historia passa in rassegna le guerre tra Aurelio Ambrosio e Uther. Merlino assiste e consiglia entrambi. Non mancano complotti e tradimenti, oltre ad una continua successione di battaglie tra gli eserciti in lotta. Alla morte di Aurelio, una cometa apparsa nel cielo notturno pare assumere la forma di una testa di drago (pendragon). Merlino vi legge il segno celeste del trono che passa ad Uther, destinato a grandi vittorie. Sconfitti infatti i suoi nemici, Uther aggiunge Pendragon al suo nome, e viene incoronato sovrano della Britannia. Altre guerre sono, però, all’orizzonte, vinte con l’aiuto di Gorlois, Duca di Cornovaglia. Anche con lui la pace è tuttavia breve. Nel corso della guerra tra Uther e Gorlois, il primo – aiutato dalla magia di Merlino – giace clandestinamente con la moglie del Duca, Igerna. Il famoso Artù viene concepito così quella notte. Alla morte di Gorlois poi Uther sposa la stessa Igerna (Thomas Malory riprenderà, nel XV secolo, tale versione della storia). I conflitti e le guerre non sono peraltro finiti e lo stesso Uther Pendragon perde la vita, combattendo i Sassoni, invasori dell’isola a partire dalla prima metà del V secolo.
I Libri IX e X della Historia sono incentrati su Artù, che sconfigge i Sassoni e ne sventa, così, la minaccia. Il figlio di Uther conquista la maggior parte del Nord Europa ed inaugura un periodo di pace e prosperità, che si protrae sino a quando i Romani di Lucio Tiberio non chiedono, ancora una volta, alla Gran Bretagna di rendere omaggio alla Città Eterna. Artù sconfigge Lucio, in Gallia, con l’intenzione di diventare Imperatore, ma in sua assenza suo nipote Mordred seduce e sposa Ginevra, impadronendosì quindi arbitrariamente del trono inglese (Malory sostituirà Ginevra con Morgana, e facendo unire la prima con Lancillotto, anziché con Mordred, prima di pentirsi e di votarsi alla vita claustrale).
I Libri XI e XII della Historia concludono la narrazione di Goffredo. Artù fa ritorno in patria, e uccide Mordred nella Battaglia di Camlann del 537. Mortalmente ferito, viene portato sull’Isola di Avalon e consegna il suo regno al Duca di Cornovaglia. I Sassoni tentano di nuovo di approfittarne, ma non riescono a porre fine alla stirpe dei Re britannici, almeno sino alla morte di Cadwallader, in fuga dall’Inghilterra, e obbligato a chiedere aiuto al Re Alan di Armorica. Sa però di essere l’ultimo monarca della Britannia. Si porta a Roma e lì si spegne la sua vita, come quella dei Re britannici. La popolazione celtica viene risospinta nel Galles e l’anglosassone Atelstano sale al trono, in qualità di Re di Loegria. Così si conclude il resoconto di Monmouth, non privo di concessioni agli elementi di carattere soprannaturale e miracoloso, classico exemplum di ricostruzione storica medievale la quale molto concede ad accadimenti favolosi e intrisi di magia. Una delle ragioni per le quali l’opera fu in epoca tudoriana anche molto criticata, pure ingiustamente (tranne che dal mago e astrologo, medico e matematico elisabettiano John Dee, il quale riprese per sé e per la corona numerosissimi elementi celtico-arturiani ed esoterico-occulti).
La Historia Regum Britanniae incontrò durante il Medioevo una fortuna davvero enorme. Nei fondi librari delle biblioteche europee se ne contano oltre duecento manoscritti. Malgrado i critici – tra cui Guglielmo di Newburgh e Giraldo di Barri, perplessi per certe vicende, troppo fantasiose, dei leggendari Re britannici – la Historia entrò a far parte della storia della letteratura medievale. Alla diffusione dell’opera diedero un rimarchevole contributo, tanto le diverse copie manoscritte, quanto la circolazione orale, affidata a bardi e menestrelli. L’eredità letteraria della Historia Regum si trova in Shakespeare – Leir diventa il Re Lear – tra gli altri per il personaggio di Cymbaline. Veramente incalcolabile poi l’eco indiretta dell’opera di Monmouth, che immortalò figure tra le quali il vecchio Re Cole (l’Old King Cole della popolare filastrocca inglese) e soprattutto Vortigern, il famosissimo protagonista di tante leggende medievali. Naturalmente, il Re la cui statura emerge, al di sopra degli altri, rimane Artù, a cui Goffredo dedicò quasi tre dei XII Libri della Historia. Questa poi contribuì, in maniera essenziale e decisiva, a diffondere in tutta l’Europa continentale i tratti fondamentali dai quali sorse il ciclo bretone, nella Francia settentrionale, a sud della Manica, irradiandosi da lì nelle aree germaniche: la tradizione del Parzifal (1200-1210) di Wolfram von Eschenbach, il capolavoro della letteratura - cavalleresca e cortese - del Medioevo tedesco, ispirata, sul versante delle fonti, al Roman du Graal scritto da Chrétien de Troyes fra il 1175 e il 1190, guardando a sua volta alla storia dei Re britannici di Goffredo di Monmouth. Tutti testi piuttosto famosi, anche non solamente tra gli specialisti di settore, a differenza di altre fonti – tardo-antiche ed alto-medievali, soprattutto – a cui poté ancora attingere la generazione di Goffredo (la stessa di Lanfranco da Canterbury e Guglielmo di Malmesbury) ma che che, successivamente, sono andate purtroppo perdute per sempre, anche per via della distruzione dei monasteri operata in Inghilterra dagli scismatici secondo-cinquecenteschi e della conseguente dispersione di innumerevoli e preziosissimi documenti di prima mano e materiali manoscritti rari. Una perdita veramente incalcolabile per gli storici di quel mondo.
Alle pagine manoscritte di Goffredo di Monmouth, inoltre, dobbiamo come detto la nascita di un personaggio letterario chiave, quello di Merlino. Se infatti le Prophetiae si riferivano alla figura tradizionale di Myrddin Emrys, nella Historia Goffredo collocò Myrddin-Merlin in quella relazione con i regnanti britanni che avrebbe portato il mago, negli sviluppi successivi della saga, a diventare il consigliere di Artù e dei Cavalieri della Tavola rotonda. La prima apparizione di Merlino, presso la corte di Re Vortigern ricalca episodi della tradizione celtica, già presenti al Nennius dell’Historia Brittonum (uno dei più antichi testi sulla storia dell’Inghilterra, scritto dal monaco gallese del secolo IX, rielaborando probabilmente materiali di epoca anche precedente). L’Ambrosio di Nennius, nella versione di Goffredo, diventa Merlino, non senza acrobazie e salti mortali – da parte del religioso e storico di Monmouth – per conciliare le altrimenti diverse fonti in un discorso unitario.


Nel regno di Avalon: profezia e tradizione letteraria prima del Duecento europeo

La Prophetia Merlini, contenuta nei Libri VII e IX della Historia Regum Britanniae, fu scritta da Goffredo di Monmouth intorno al 1135 circa e circolò manoscritta anche in una forma autonoma, lettissima e molto conosciuta nel Medioevo (inglese e non solo), attestazione di un vivo interesse da parte dell’autore per le tematiche dell’escatologia e del millenarismo, destinate ad alimentare tanta parte della successiva letteratura esoterico-occulta sviluppatasi nei secoli XVI e XVII, soprattutto in Inghilterra (da Dee sino ai Puritani) e in Francia (le Centuriae di Nostradamus).
L’opera, diffusissima in Europa, a partire dal XII secolo – anche in altre versioni manoscritte, intitolate Prophetiae Merlini (al plurale), o Libellus Merlini – si presentava come una raccolta di profezie, dalla scrittura complessa e non facili da decifrare. Goffredo ne fu il compilatore. Vi lavorò parallelamente alla stesura della Historia Regum Britanniae, di cui la parte profetica era, di fatto, un complemento fondamentale, terminando, forse, la compilazione persino prima dell’opera maggiore, in cui le profezie sono, appunto, inserite e riportate. Per i lettori medievali, esse costituivano la parte più interessante e ricercata della intera Historia, il che può concorrere a spiegare la loro diffusione e circolazione anche indipendente dal corpo dello scritto maggiore. Uno dei non molti casi – prima di entrare, nel secondo Quattrocento, nell’era della stampa – di successo editoriale di un manoscritto, letto fra XIII e XIV secolo da dotti e teologi, storici e alchimisti di tutto il continente europeo.
Le Prophetiae raccoglievano le divinazioni che Merlino avrebbe fatto, a proposito del futuro del Regno di Inghilterra, in vari momenti della propria vita e sin dalla fanciullezza. In Italia la prima testimonianza circa la presenza di tale raccolta manoscritta – opera profetica, come detto, tra le più conosciute del Medioevo – si ha in Gioacchino da Fiore (1187). E, fra l’altro, proprio come nel caso dell’eresia gioacchimita, a partire dal secolo XII, iniziarono ad essere prodotti e circolanti numerosi scritti pseudo-epigrafici, che si richiamavano all’autorità del nome di Merlino, ispirati appunto allo stile delle Prophetiae. Ampia diffusione ebbero, di fatti, i Verba Merlini o i Dicta Merlini, nei quali veniva descritto il conflitto fra l’Imperatore Federico II di Svevia e il Papa di Roma, oppure, ancora, il De Summis Pontificibus, riconducibile all’ambiente spirituale dell’area francescana. Inoltre, nella Vita Merlini (risalente, all’incirca, al 1150), il profeta britannico venne presentato in maniera assai originale e persino differente dalla tradizione delle opere precedenti, corrispondente in modo diretto al gallese Myrddin Wyllt.
In sede di scrittura, Monmouth impiegava nomi ricavati da varie e molteplici fonti, per diversi personaggi, che nelle versioni precedenti del racconto ne erano talora privi. Si poteva trattare qui di nomi davvero in uso, a quel tempo, oppure di altri, che provenivano da manoscritti rari o meno noti, caduti quindi nel frattempo in disuso. Goffredo riprese ed utilizzò molti di questi nomi, modificando talvolta di essi origine, pronunzia, forma originaria e persino genere. Un approccio, pertanto, molto spregiudicato e disinvolto, a partire da fonti precedenti, peraltro non sempre concordanti o chiare, al riguardo di tali figure, che si muovevano sul confine allora labile tra storia, mito e leggenda. In tale modo, Monmouth pervenne di fatto alla creazione anche di nuovi nomi con uso moderno (tra i quali Morgana e Cordelia, Rowena e Guendalina). Un lavoro di autentica reinvenzione, e trasformazione della tradizione. L’opera di Goffredo di Monmouth ebbe una enorme visibilità per tutto il Medioevo e fu la fonte di ispirazione per moltissimi autori successivi, rielaborata da scrittori quali, fra gli altri, Chrétien de Troyes nel XII secolo (tra la Francia e le Fiandre) e Thomas Malory (nel Warwickshire del Quattrocento). Nella fattispecie, il resoconto della vita arturiana dato dal Monmouth contribuì in maniera decisiva alla nascita del ciclo bretone. Dalla lettura dell’opera di Goffredo traspaiono anche in tralice elementi utili a delinearne meglio la biografia, nonché la sua predilezione per i Gallesi ed i Bretoni ed una certa ostilità, non solo politica, nei confronti dei Sassoni, gli invasori dell’Inghilterra fra il 410 e il 440.
In particolare, per la Vita Merlini redatta da Goffredo, si poteva parlare, a tutti gli effetti, di un poema epico dalla forte componente evocativa. Lo storiografo britannico lo compose in latino, fra il 1148 e il 1150, con l’intenzione di raccontare i diversi episodi della vita di Merlino. Una narrazione, affascinante e suggestiva, che si basava sui racconti tradizionali in merito alla figura del mago, però ripensati e riscritti. Monmouth suddivise internamente la Vita Merlini in venti capitoli, per un totale di quasi mille e seicento esametri. L’opera rappresentava il seguito e della Prophetia Merlini e della Historia Regum Britanniae. Se confrontata con lavori e redazioni precedenti della saga, moltissime erano le novità, introdotte dallo storico e religioso inglese. Senza rinunciare ai tratti prodigiosi della figura del mago, Merlino appariva in questo caso maggiormente umanizzato: sposato, aveva ora una sorella (Ganieda) ed era il Re delle terre del Galles. Affiancato da Peredur – l’eroe che ricomparirà, nella letteratura cortese, col nome di Perceval, o Parsifal – Merlino era inoltre reduce da una guerra, disastrosa, che lo rattristò al punto da spingerlo quasi folle ad abbandonare tutti, ed a rifugiarsi nella solitudine di boschi e foreste. Un richiamo al culto pagano e panteista della natura, pre-cristiano ed ancora vivo nel Galles (anche molto in seguito, con Machen). Una delle ragioni per cui Monmouth, per la rappresentazione di Merlino data nella Vita, scelse, rispetto a prima, tratti meno solenni, stava anche nel fatto che, mentre il libro veniva scritto, il Regno d’Inghilterra attraversava una gravissima crisi dinastica, con da una parte i seguaci della figlia del Duca di Normandia – Matilde di Inghilterra (1102-1167), primogenita ed erede al trono – e dall’altra i nobili, schieratisi con Stefano di Blois (il Conte di Mortain e Boulogne). Quell’epoca di anarchia e di guerra civile non poteva non ricordare a Goffredo i conflitti che avevano contrassegnato la Britannia di Re Artù intorno al VI secolo. Inoltre, la Vita Merlini è una fonte assai rilevante poiché si tratta, in assoluto, del primo poema cavalleresco in cui fa la sua comparsa la figura della Fata Morgana, qui descritta come la più anziana delle Nove Sorelle che regnano su Avalon. Secondo la leggenda, la stessa e mitica Isola di Avalon sarebbe stata la Glastonbury Tor, nella contea del Somerset, già sacra ai Celti dell’antica Britannia e poi luogo di pellegrinaggio, per i cristiani del Medioevo inglese (sino alla Riforma protestante anglicana), l’axis mundi e la terra dai poteri mistici e dal fascino arcano della tradizione magica anglo-europea.
Nella piana di Glastonbury è ancora oggi esistente la collina sulla cui vetta si trova la Torre di San Michele, monumento dell’età del ferro, precedente la venuta degli anglosassoni, chiesa e eremo con resti di una croce solare. La collina è menzionata, nella mitologia celtica e nel ciclo arturiano, al vertice di terrazzamenti argillosi su cui, nel Medioevo britannico, veniva praticata l’agricoltura, non lontano dalla fortezza di Cadbury Castle. L’origine è preistorica ed affonda le proprie radici nell’età neolitica e pre-cristiana dell’Inghilterra. Nel 712, vi fu costruito il complesso monastico medievale dell’abbazia di Glastonbury, culla della cristianità inglese, voluta dal re sassone Ine del Wessex, poi ricostruita dai Benedettini nel 1184. E’ il luogo sacro ove, secondo la leggenda, riposerebbero i resti di Artù e Ginevra, coincidente con l’Avalon dei miti. Sempre la leggenda vuole l’abbazia fondata, intorno al 60 d.C., da Giuseppe d’Arimatea, arrivato sull’isola per convertire i Britanni alla fede in Cristo. Il legame di Glastonbury, con le vicende pseudo-storiche arturiane, è strettamente connesso, inoltre, con la tradizione del Santo Graal di Robert de Boron, vissuto anche lui come Monmouth nel XII secolo. Stando alla mitografia la tomba di Re Artù sarebbe stata quindi ad Avalon, nome mitico dato alla sede storica di Glastonbury.


Avalon in America: Sir Lord Baltimore e la missione cattolica a Terranova

Il mito di Avalon, codificato dalle implicazioni della storia arturiana, tratteggiata da Goffredo di Monmouth, si innestò nella cultura inglese del tardo Medioevo e della prima modernità. A esso si ispirò il politico George Calvert, nativo del Richmondshire e primo Barone Baltimore, nella Contea di Longford, pari d’Irlanda passato alla storia per avere dato inizio alla colonizzazione del Maryland (il titolo di Lord Baltimore fu creato per lui, dalla monarchia Stuart, nel 1624, e si estinse alla morte del VI Barone, nel 1771). Nato da una famiglia cattolica del North Yorkshire, interessato – sin dalla gioventù – ai viaggi nelle terre americane, Calvert fu socio della Virginia Company dal 1606 sino al 1620. Membro della Camera dei Lords e Segretario di Stato, già durante il regno giacobiano, di fede cattolica ed in contatto con Gesuiti e, soprattutto, Cappuccini di Roma, in riconoscimento dei propri servigi alla corona Baltimore si vide concedere, dal Re d’Inghilterra, vaste proprietà nell’Irlanda del sud, oltre alla possibilità di trasmettere il titolo nobiliare ai discendenti della sua famiglia. Nel 1620, Calvert acquistò diversi terreni, in America, presso l’Isola di Terranova (dove la leggenda vuole che i Vichinghi siano sbarcati nel Medioevo prima di Colombo): proprietà da lui denominate Avalon, in omaggio al ciclo arturiano e al lungo dove il cristianesimo sarebbe stato introdotto – a Glastonbury, da Giuseppe di Arimatea – nelle isole dell’antica Britannia. La regione fu chiamata, poi, Penisola di Avalon e i Calvert riconosciuti feudatari dei palatinati di Avalon, a Terranova e nel Maryland. Lord Baltimore mandò il capitano Edward Wynne ed alcuni Gallesi a stabilirsi nella zona, e la colonia si sviluppò molto velocemente nel breve volgere di soli tre anni.
Calvert si mise in viaggio, alla volta di Avalon, nel 1627, quindi tornò in patria. Vi ritornò nel 1628, con la famiglia, quaranta nuovi coloni e due sacerdoti cattolici, uno dei quali fondò in seguito la prima parrocchia cattolica sul suolo nord-americano. Nel 1629, in cerca forse di un’altra Avalon, Sir Lord Baltimore si mosse alla volta della Virginia con il proposito di stabilirsi a Jamestown. Fece quindi ritorno in Inghilterra, dove fu ricevuto a corte dal nuovo Re Carlo I – molto sensibile verso la causa delle presenze cattoliche nelle sue terre, sia albioniche sia d’oltremare – il quale gli riconobbe l’autorizzazione a fondare una nuova colonia, nell’area della Baia di Cheasapeake. La concessione giunse nel giugno del 1632, ma Lord Baltimore morì a metà aprile, a Lincoln’s Inn Field. La patente reale passò così a suo figlio, l’aristocratico Cecilius Calvert (1605-1675), che chiamò la colonia – in onore della Regina e consorte di Carlo I, la devota cattolica Enrichetta Maria di Francia – Provincia del Maryland, molto tollerante sul piano religioso verso i cattolici, e inglesi e romani. Cecilius, nato nel Kent e scomparso nel Middlesex, ne fu il primo governatore e fondò la città di Baltimora.

In ricordo di Jean Markale


Nell'immagine, illustrazione tratta dal manoscritto delle profezie di Merlino.


Manoscritti e materiali d’archivio

Londra, British Library, Ms. Cotton B VII, f. 224.


Fonti primarie a stampa

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Goffredo di MONMOUTH, Historia Regum Britanniae, Roma, Studio Tesi, 1993.
Goffredo di MONMOUTH, La follia del mago Merlino, Palermo, Sellerio, 1993.
Goffredo di MONMOUTH, Merlino il profeta. L’avventura del Graal, Genova, Ecig, 1995.
Goffredo di MONMOUTH, Storia dei re di Britannia, Parma, Guarda, 2005.
Goffredo di MONMOUTH, Le profezie di Merlino, Rimini, Il Cerchio, 2008.
Chrétien de TROYES, I romanzi cortesi, Milano, Mondadori, 1994.
Chrétien de TROYES, Erec e Enide, Roma, Carocci, 2004.
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Letteratura secondaria e studi critici

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Matteo BINASCO, Luke Wadding, the Irish Franciscans and Global Catholicism, London, Routledge, 2000.
Mariano BIZZARRI - Francesco SCURRIA, Sulle tracce del Graal, Roma, Edizioni Mediterranee, 1996.
Marjorie CHIBNALL, I Normanni, Genova, Ecig, 2005.
Luca CODIGNOLA, Terre d’America e burocrazia romana. Simon Stock, Propaganda Fide e la colonia di Lord Baltimore a Terranova (1621-1649), Venezia, Marsilio, 1982.
Luca CODIGNOLA, Little Do We Know. History and Historians of the North Atlantic, Cagliari, Isem, 2011.
Julius EVOLA, Il mistero del Graal, Bari, Laterza, 1937.
Gianpaolo GARAVAGLIA, Società e rivoluzione in Inghilterra (1640-1689), Torino, Loescher, 1978.
Gianpaolo GARAVAGLIA, Società e religione in Inghilterra. I cattolici durante la Rivoluzione, 1640-1660, Milano, Franco Angeli, 1983.
Gianpaolo GARAVAGLIA, Storia dell’Inghilterra moderna, Bologna, Cisalpino, 1998.
Gianpaolo GARAVAGLIA, Dall’Inghilterra dei Tudor alla Gran Bretagna degli Hannover, Roma, Salerno, 2013.
Laurence GARDNER, Mito e magia del Santo Graal, Roma, Newton Compton, 2001.
Laurence GARDNER, La linea di sangue del Santo Graal, Roma, Newton Compton, 2004.
René GUENON, San Bernardo e l’esoterismo cristiano, Carmagnola, Arktos-Oggero, 1989 (ristampa 1997).
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Stephen LAWHEAD, Il principe Taliesin, Milano, Nord, 1991.
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Nicholas MANN, Avalon. I sacri misteri di Artù e Glastonbury, Torino, L’età dell’acquario, 2015.
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James WILDE, Pendragon. Dove inizia la leggenda, Roma, Newton Compton, 2017.


Documento inserito il: 25/02/2025
  • TAG: storia inglese, Medioevo, ciclo arturiano, Normanni, monachesimo, Università di Oxford, Galles, Lincoln, tradizione letteraria bretone, Gloucester, anglosassoni, XII secolo

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