Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia, storia contemporanea: Árpád Weisz. Un maestro di calcio vincitore in Italia di tre scudetti che finì deportato ad Auschwitz
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Árpád Weisz. Un maestro di calcio vincitore in Italia di tre scudetti che finì deportato ad Auschwitz

di Francesco Caldari


Su quel treno che nell’ottobre del 1942 lo portava ad Auschwitz Árpád Weisz non pensava certo ai suoi schemi di gioco, applicati in maniera certosina dalle squadre di calcio che aveva allenato. Prima della sosta al campo di Birkenau avrà abbracciato la moglie Elena e i figli, Roberto e Clara, nati in Italia, 12 e 8 anni. La corsa per loro terminava lì. Avrà sperato che quella non fosse l’ultima volta che li vedeva, non immaginando che solo dopo pochi giorni il destino terribile che attendeva i suoi familiari si sarebbe compiuto in una camera a gas. Lui, quell’ungherese gentile, compito e riservato, la cui unica colpa secondo una follia pervasiva era di essere ebreo, avrebbe trascinato ancora la sua vita sino al 31 gennaio del 1944.
Solo pochi anni prima. 6 giugno 1937. A Parigi la temperatura è eccessivamente calda ed il cielo terso. Allo stadio di Colombes l’immaginario radiocronista francese è pimpante e la voce giunge chiara ai mastodontici apparati sintonizzati in molte abitazioni sulle frequenze ad onde medie di Radio Paris. “Madames e Messieurs, si gioca la finale del Torneo dell'Esposizione, che accompagna ed onora l’Expo Arts et Techniques dans la Vie moderne nella nostra bella capitale. Alla squadra vincente, Il trofeo messo in palio dal quotidiano sportivo "L'Auto". Purtroppo, non vi sono squadre francesi a contendersi la finale. Delle otto formazioni invitate, rappresentanti il meglio del calcio europeo, il nostro Sochaux-Montbéliard, vincitore della Coppa di Francia, è stato sconfitto per 4-1 dalla formazione italiana del Bologna, campione d’Italia per la seconda volta consecutiva, che poi ha superato anche lo Slavia Praga, mentre i campioni nazionali dell’Olympique de Marseille, terminata la partita in pareggio, hanno dovuto soccombere alla sorte del lancio della monetina contro gli inglesi del Chelsea. Ed è davanti ad un pubblico festante che oggi si incontrano i rossoblù italiani guidati dall’allenatore magiaro Weisz e la favorita corazzata inglese, agli ordini del manager Albert Leslie Knighton. Arbitra il nostro connazionale Leclercq ...
Finì con un clamoroso 4 a 1 per i felsinei, in un incontro che non ebbe storia, grazie alla tripletta del bustocco Carlo Reguzzoni, bandiera rossoblù, e a giocatori che i commentatori sportivi presenti a Parigi non esitarono a definire veloci, forti e atletici. Che soddisfazione battere gli inglesi, con la loro snobistica “puzza sotto il naso”, propria di chi il football lo aveva inventato! Che bravo quell’allenatore ungherese con i suoi schemi ben disegnati e la partecipazione corale di tutti i protagonisti in campo. Quel Torneo dell’Esposizione – da qualcuno ora definito il bisnonno dell’attuale Champions’ League – fu l’apice della vicenda calcistica di Árpád Weisz, e della sua simbiosi con il Bologna del presidente Dallara, una formazione così amata dai tifosi e temuta dagli avversari da meritarsi l’appellativo di “squadrone che tremare il mondo fa”.
Era nato a Solt, nell’Ungheria che si spinge verso l'Austria, il16 aprile del 1896, il papà veterinario. I suoi studi presso la facoltà di giurisprudenza e la sua irrefrenabile voglia di correre dietro ad un pallone, che gli conferisce il soprannome Chili (sì, vuol dire peperoncino anche in ungherese), sono segnati da un precoce stop. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale lo costringe a vestire l’uniforme dell’impero austro-ungarico. Il destino scrive la sua trama e lo conduce una prima volta in Italia, come combattente sul Carso e poi come prigioniero a Trapani. La guerra finisce e nel tardo autunno del 1919 Árpád può tornare sugli amati campi di calcio: giocando come centrocampista di sinistra inizia da semi-professionista (nel frattempo è impiegato in banca) a Budapest, nella squadra del Törekvés, ed è presto convocato in nazionale, ove esordisce nel giugno del 1922 e con la quale giocherà complessivamente sei partite. Il filo che lo lega all’Italia questa volta lo porta a Genova, è il 4 marzo 1923 quando sul campo di via del Piano, nel quartiere di Marassi, si tiene l’incontro tra la Nazionale azzurra ed i magiari, che termina 0 a 0. A ben vedere una bella figura per gli italiani, destinati da anni a soccombere contro i maghi della “scuola” danubiana, per certi versi una rivoluzionaria forma di pensare il calcio, una sorta di quella modalità di possesso palla, posizionamento in campo, trame fitte di passaggi palla a terra e tentativo di intercettare l’avversario che è la grammatica del football moderno. Una curiosità: la prima trasferta della neocostituita nazionale italiana fu il 26 maggio 1910 proprio al Millenaris Sporttelep di Budapest, per una amichevole con la nazionale ungherese. Il punteggio? La dice lunga sulle posizioni di forza del calcio di allora: 6 a 1 a favore dei padroni di casa.
Torniamo tra i 20.000 spettatori dello stadio genovese, ancora non dedicato a Luigi Ferraris e che tuttora vanta il primato di essere l’arena calcistica più antica utilizzata in Italia, ove troviamo anche gli “osservatori” (si chiamano così gli esperti che vanno a vedere le partite altrui per pescare qualche potenziale campione per la propria squadra). Weisz – seppure notato e contattato da una squadra italiana, anche per la sua conoscenza della lingua ben assimilata nel periodo di prigionia – intanto si dirige verso i professionisti del Makkabi di Brno. Ha perso il posto sicuro in banca, non compatibile con le frequenti tournée all’estero, e trova un ingaggio certo in Cecoslovacchia. L’offerta gli perviene da una squadra che porta il nome tradizionale delle compagini sportive ebraiche, e di conseguenza è composta da giocatori ebrei (lì all'epoca una minoranza riconosciuta), quasi tutti provenienti proprio dall’Ungheria. Così ha occasione di girare l'Europa in diversi tour, e di essere convocato con la propria Nazionale per le Olimpiadi di Parigi del 1924, seppure gli ungheresi vennero prematuramente eliminati e lui non ebbe occasione di scendere in campo.
Il suo sogno di confrontarsi con il calcio maggiore e rimanere nell’ambito professionistico, visto lo stato di bancarotta della formazione di Brno, lo porta la stagione successiva ad accettare un contratto prima con l’Alessandria e poi subito nell’autunno del 1925 con l’Internazionale di Milano.
Con i neroazzurri la stagione non inizia male per Árpád, che a fine ottobre segna una doppietta contro il Brescia e poi ancora una rete all’Hellas Verona. Riuscirà nella stagione però a collezionare solo dieci presenze. Il ginocchio sinistro fa un brutto scherzo, ed il fantasioso giocatore ungherese è costretto a sedere in panchina. Di appendere le scarpette al chiodo però non se ne parla: vuole girare il mondo, è innamorato del calcio, ha confidenza con le lingue, ha in fondo solo ventinove anni. Per altro la fascistizzazione della nazione avanza ed il regime va decidendo la chiusura autarchica del calcio: la “Carta di Viareggio” ammette per un anno il tesseramento di due giocatori stranieri, con l’obbligo però di non impiegarne più di uno per partita, e poi verrà consentito l’ingaggio solo di coloro che abbiano diritto alla cittadinanza quali figli nati all’estero da italiani. E così è un bene transitare per quello che altri colleghi infortunati hanno sperimentato: si cambia prospettiva e si passa dall’altra parte, ad allenare. E per quanto giovane di cose da insegnare Weisz certo ne ha: della moderna “scuola” calcistica nella quale è cresciuto abbiamo detto, il suo pallino sono gli schemi, la sua principale capacità quella di amalgamare e motivare i giocatori. Non dismetterà quindi gli scarpini, ed anzi condurrà – in questo originale rispetto ai suoi nuovi colleghi manager, come più appropriatamente li indicano i progenitori inglesi – gli allenamenti in tuta, in mezzo ai suoi ragazzi, atteggiamento che oggi siamo ben abituati a vedere, me che un secolo orsono sembrava bizzarria. Intanto però, bisogna farsi le ossa. Augusto Rangone lo mette sotto la propria ala. Questi è un gran bel personaggio (sarà arbitro, dirigente e giornalista e non a caso la Federazione gli riconoscerà il titolo onorifico di “pioniere del cacio italiano”): alessandrino, porta Weisz come suo secondo nella propria città, in quel campionato -allora diviso in gironi - che si chiamava Prima Divisione. La squadra dei “Grigi” (per via del colore della maglia) rischia addirittura la retrocessione.
Ma bastano pochi mesi di apprendistato a convincere i dirigenti interisti a far tornare a casa il nostro, ed all’ingaggio di Veisz (non è un errore di battitura, l’autarchia ha preteso l’italianizzazione dei cognomi stranieri) quale allenatore per la stagione 1926/27 e per quella successiva, conseguendo rispettivamente il 5° ed il 7° posto. Ha la ventura di pescare un talento puro come Giuseppe Meazza, un giovanissimo mingherlino scartato dal Milan, che vede allenarsi e non esita a chiamare appena diciassettenne in prima squadra. Vi è quindi un periodo di rientro in patria, alla guida del Sabariával di Szombathely, dedicato ad un tour per apprendere calcio, tra Uruguay e Argentina. Di questo tempo poco si sa, ma certo di cose ne deve aver imparato, ed inoltre ha la fortuna di conoscere quella che presto sarà sua moglie. La squadra ungherese fallisce e lui rientra a Milano nel campionato 1929/30, finalmente a girone unico denominato come ora “serie A”, per guidare quella che nel frattempo si chiama Ambrosiana Inter, poiché il regime fascista anche qui chiede di abbandonare il nome originale per virare su qualcosa di autarchico. La scelta cade su uno che ricorda il patrono meneghino. Peppin Meazza brilla e sarà capocannoniere del torneo con 31 reti: Árpád ha 34 anni, vince lo scudetto ed è il più giovane allenatore a conquistarlo, attribuzione che ancora gli appartiene! È un periodo felice per il nostro: il 24 settembre 1929 a Szombathely aveva sposato la connazionale Ilona – da noi sarà nota come Elena – Rechnitzer, ebrea non ortodossa, ed a Milano il 7 luglio 1930 nasce il loro primogenito, Roberto: nome italiano e battesimo con rito cattolico. Sempre in quell’anno, col dirigente nerazzurro Aldo Molinari, da “professore” qual è pubblica il manuale “Il giuoco del calcio” trattando per la sua parte i metodi di allenamento, i principi di gioco e i ruoli in campo. Resterà a Milano ancora una stagione (2° posto). Viene quindi il momento di migrare, destinazione Bari, grandi attese dopo che i “galletti” sono sbarcati per la prima volta in serie A ed il neopresidente Liborio Mincuzzi ha preso in mano le redini, ma risultati non all’altezza, tanto da doversi guadagnare la permanenza nel massimo campionato in uno spareggio con il Brescia, per la quale allenatore e giocatori guadagneranno un extra premio di 1000 lire promesso dal munifico presidente e la soddisfazione, per il composto Weisz, di essere portato in trionfo una volta rientrato a Bari. La sirena Inter, dopo una sola stagione, torna a farsi sentire: ancora due campionati con l’Ambrosiana, poi le ingerenze del neopresidente Ferdinando Pozzani si fanno troppo pressanti: vi sono nel calcio proprietari che pretendono di dettare la formazione. Vi sono, nel calcio, allenatori che hanno una dignità, e, certo, Weisz è tra questi: una stretta di mano e via, si va verso Novara. Meglio la serie B che sottostare alle interferenze di Pozzani: intanto il 2 ottobre 1934 nasce Clara. La sua squadra conquista il secondo posto in classifica, a tre punti dal Genoa. Rimane in Piemonte fino al gennaio 1935, quando sbarca sotto le due torri. Il vulcanico e ben ammanicato presidente bolognese Renato Dall’Ara ha tutte le intenzioni di sconfiggere la corazzata Juventus, e non vi è dubbio punti sull’allenatore giusto. Il primo mezzo campionato è di adattamento e porta un sesto posto, ma i due successivi sono un trionfo: Wiesz interrompe il dominio juventino, vincendo due scudetti di fila ed a Parigi il Trofeo dell’Esposizione, di cui abbiamo parlato in apertura, sconfiggendo i “maestri” inglesi del Chelsea. Lo abbiamo scritto, è l’apice della sua carriera italiana e bolognese in particolare; città, tifosi e soprattutto giocatori con cui ha saputo creare un feeling, pari se non superiore a quello avuto con i milanesi di sponda interista, lo adorano.
È strano il destino dell’uomo: terminato un ciclo favorevole, talvolta se ne presenta uno negativo. Quello di Árpád sarà addirittura infausto. Incombono gli infami provvedimenti “per la difesa della razza italiana”, in un crescendo che va dal manifesto degli scienziati del luglio del 1938 ad un compendio di decreti antisemiti pubblicato in settembre, cui si aggiunge nel novembre una nuova legge, varata dal governo in applicazione delle direttive date dal Gran Consiglio del fascismo nella riunione del 6 ottobre. Nel complesso undici provvedimenti tra atti e decreti regi che segnano definitivamente il vergognoso avvio della discriminazione degli ebrei nella società italiana. E proprio il Regio decreto 7 settembre 1938-XVI, n. 1381, all’articolo 4 lascia poche speranze: “Gli stranieri ebrei che, alla data di pubblicazione del presente decreto-legge, si trovino nel Regno … e che vi abbiano iniziato il loro soggiorno posteriormente al 1° gennaio 1919, debbono lasciare il territorio … entro sei mesi”. Intanto già dal 22 agosto 1938 precedente la famiglia di Árpád è stata registrata nell’elenco degli ebrei stranieri residenti nel Regno.
L’ultima partita ufficiale in Itala porta la data del 16 ottobre 1938. Il 22 ottobre Weisz si dimette. Il 30 ottobre nella partita vinta 3-1 a Novara, sulla panchina del Bologna è l’allenatore austriaco Felsner. Che fine ha fatto Weisz? “Il Resto del Carlino“, quotidiano di Bologna, allude a ciò che tutti sanno, ma che non si può scrivere. Un destino che lo accumunerà ad altri allenatori ebrei ungheresi costretti a lasciare l’Italia: Jenő Konrád, della Triestina, e Ernő Erbstein, che era subentrato a Árpád a Bari ed è costretto ad espatriare mentre allenava il Torino che – dopo una serie di incredibili peripezie – tornò a guidare per perdere la vita nell’incidente aereo del 4 maggio 1949 alla basilica di Superga.
È il 10 gennaio del 1939, in piena aderenza alle prescrizioni dell’articolo 4 che abbiamo riportato sopra, Árpád, sua moglie ed i due figli lasciano l’Italia. La destinazione forse è scelta poiché meta preferita di numerosi calciatori ebrei in fuga dai Paesi limitrofi: Parigi, proprio lì dove il nostro allenatore aveva trionfato con il suo Bologna sconfiggendo i padroni del calcio inglesi. Ma l’atmosfera è del tutto diversa rispetto a un paio di anni prima. Ora è alla ricerca di una squadra da allenare, avendo lasciato in Italia fama, la stima di chi aveva conosciuto lui e la famiglia, un lavoro. Qualche contatto, e quindi l’Olanda, che non ha una legislazione antisemita ed è neutrale, a Dordrecht, con il DFC, un gruppo di calciatori semi-professionisti in un campionato poco più che amatoriale, ove esordisce il 2 ottobre 1939, raggiungendo il quinto posto in classifica nella Divisione Ovest-II, un record per il club. Ma i conquistatori nazisti incombono. Il 10 maggio 1940 i neutrali Paesi Bassi vengono invasi dalle truppe tedesche. Weisz continua ad allenare e la squadra raggiunge ancora il quinto posto. Le nubi si addensano però sempre più e il 29 settembre 1941 come accaduto in Italia l'allenatore deve abbandonare. Alla sede di Dordrecht arriva una missiva dalla Gestapo: “gli è proibito di trovarsi su un terreno dove sono organizzate partite accessibili per il pubblico”, seppure la dirigenza continui a versargli uno stipendio ridotto. Il 2 agosto 1942 la famiglia Weisz viene prelevata dalla abitazione di Bethlehemplein 10 per essere deportata ad Auschwitz via Westerbork, un campo di transito a circa 200 km da Dordrecht. Da lì, esattamente due mesi dopo, la moglie Ilona e i figli Roberto e Clara furono mandati direttamente alle camere a gas. Weisz fu subito deportato nel campo di Cosel, poi il ritorno ad Auschwitz, dove 16 mesi dopo, il 31 gennaio 1944, morì, verosimilmente di stenti.
Se possiamo raccontare la storia di Árpád Weisz e della sua famiglia, di quanto lo sport possa far gioire, di come passione ed applicazione possano trasformare un compito e timido giovane in un trascinatore e leader innovativo di un gruppo di ragazzi che corrono dietro ad un pallone, ma anche verso quali abissi può sprofondare la follia dell’uomo, lo dobbiamo ad un giornalista bolognese, Matteo Marani, che si è messo sulle tracce di quell’allenatore che guidò il grande Bologna alla conquista di due tornei nazionali e che era caduto nell’oblio. È grazie a lui ed al suo libro che nel 2009, su iniziativa del Comune di Bologna, fu apposta una targa dedicata a Árpád proprio sotto la caratteristica torre di Maratona dello stadio Renato Dall’Ara e nel 2018 gli fu dedicata una Curva dell’impianto, e che nel 2012, in occasione della “giornata della memoria”, l’Inter ricordò l’allenatore di uno scudetto con l’affissione di una targa allo Stadio Giuseppe Meazza. Ma la sua eco riecheggia anche ad Alessandria, a Novara, con una targa allo Stadio Piola, e a Bari, con l’intestazione di una via nei pressi del nuovo Stadio San Nicola. Árpád è ricordato a Dordrecht, e nella sua Ungheria, ed inoltre con un significativo torneo di giovani giocatori, organizzato annualmente dalle città di Milano e Bologna.
E se tendete l’orecchio, con l’aiuto di un po’ di fantasia potete ascoltare ancora il suo nome, che viaggia sulle onde di radio Paris, con il cronista che lo grida con enfasi: “Incroyable, Mesdames et Messieurs, les Italiens hanno battuto gli inglesi, i padroni del calcio mondiale, grazie ai moderni schemi di gioco del loro allenatore magiaro. Bravò, Árpád Weisz, bravò!


Nall'immagine, Árpád Weisz, allenatore vincitore di 2 scudetti con il Bologna e 1 con l'Ambrosiana Inter.


BIBLIOGRAFIA

Alberto Molinari, Il ritorno dei calciatori stranieri in Italia: la riapertura delle frontiere calcistiche (1976-1980), Rivista di Diritto Sportivo, Fascicolo 1, Giappichelli Editore, 2021
Aldo Molinari, Arpád Weisz, Il giuoco del calcio, Minerva Edizioni, 2018
Giovanni A. Cerutti, L'allenatore ad Auschwitz. Árpád Weisz: dai campi di calcio italiani al lager, Interlinea, 2020
Matteo Marani, Dallo scudetto ad Auschwitz. La storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo, DIARKOS, 4° edizione, 2023
Paolo Balbi, Árpád Weisz Il tempo, gli uomini, i luoghi, Marco Serra Tarantola Editore, 2018
Documento inserito il: 19/01/2024
  • TAG: Árpád Weisz, calcio, scudetto, Internazionale, Bologna, Leggi razziali

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