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Viva San Marco! Viva l'Italia!

di Maria Cipriano

La sera del 6 febbraio 1848, al Teatro la Fenice di Venezia, la celebre danzatrice-patriota Fanny Cerrito, napoletana, si presentò in scena avvolta in un velo bianco, rosso e verde, inserendo a sorpresa, nel repertorio della serata, una Sicilienne, cioè un'antica danza popolare siciliana, in omaggio agli insorti antiborbonici di quella regione (Palermo era insorta nel gennaio dello stesso anno, il giorno stesso del compleanno del Re Borbone, innalzando il Tricolore e cambiando il nome del suo famoso lungomare intitolato ai Borboni, il Foro borbonico, in Foro Italico): l'apparizione della Cerrito in bianco rosso e verde che danzava la Sicilienne scatenò un delirio nella folla dei Veneziani, che iniziarono ad applaudire e gridare “Viva la Sicilia! Viva i Siciliani! Viva San Marco! Viva l'Italia!”.
In quell'anno che si preannunciava terribile e meraviglioso, terribile per le repressioni, le battaglie, i sacrifici e le vittime, meraviglioso per gli eroismi e la determinazione entusiastica dimostrata dalla popolazione italiana, Venezia e il Veneto occuparono un posto di primo piano, e scrissero una delle pagine più indelebili del Risorgimento. Che tutto ciò, ai giorni nostri, dia molto fastidio a qualcuno, è fuor di dubbio: da qui la meschina necessità di “aggiustare” la storia, dando a credere cose diverse da quelle che in realtà accaddero. Sia da parte degli austriacanti portatori del mito asburgico sia da parte dei venetisti portatori del mito della Serenissima che farà volentieri a meno di simili fasulli adoratori, c'è un chiaro rifiuto dei fatti per come si svolsero, in quanto questi fatti smentiscono flagrantemente gli accidiosi profanatori del Risorgimento. Messi di fronte ai documenti, costoro dicono che sono manipolati, che i Savoia volevano espandersi nell'Italia settentrionale e solo per questo Carlo Alberto entrò in guerra contro l'Austria nel marzo 1848 (aspettando furbescamente l'insurrezione di Milano): pertanto non c'era nessuna reale intenzione da parte di nessuno di unire l'Italia in un unico Stato, e Cavour dunque imbrogliò successivamente le carte, giacché i Veneti volevano il Veneto autonomo e indipendente e non già l'Italia, o quantomeno volevano una confederazione di Stati, o tutt'al più una federazione di regioni. Né li preoccupa che queste loro sparate li infilino in un tunnel di contraddizioni con i documenti dal quale non è facile uscire, senza contare che tra il Veneto indipendente e una federazione di regioni italiane c'è una gran differenza, il che naturalmente costituisce un dettaglio per i “venetisti”, senza contare che il federalismo riguardava un'esiguissima frangia di patrioti, e non certo i mazziniani e i garibaldini, e tantomeno i monarchici, che erano la stragrande maggioranza. Non si capisce poi come mai l'Istria, che come il Veneto aveva fatto parte della Serenissima, si sentiva italiana e il Veneto invece no. A tal proposito, il patriota istriano Carlo Tivaroni, che ben conosceva il Risorgimento delle Venezie a cui in prima persona aveva partecipato, testimoniò il contrario quando scrisse: “...una intera generazione di giovani viveva che pareva creata apposta per quel bisogno. C'era un alto ideale che li nutriva, che li ispirava: la Patria da fare. Nessuno, nessuno di quei giovani pensava che il servizio reso alla Patria potesse ottenere un compenso. Nessuno aveva un secondo fine, nessuno nascondeva un interesse materiale. Bisognava dare tutto, bisognava disprezzare la morte, bisognava saper affrontare ogni sacrificio, bisognava saper obbedire.” Peraltro, solo una minoranza riuscì a scrivere le sue memorie e a farsi conoscere. La più parte restò nell'ombra, fedele al principio cardine del Risorgimento, che era purissimo ideale, atto di generosa donazione di sé alla Patria, alieno dalla fama e, tantomeno, dagli emolumenti materiali. Giovanni Vincenti, nobile figura di patriota veneto, veronese di nascita, di professione attore teatrale, per il suo amore all'Italia fu condannato a 12 anni di carcere duro allo Spielberg, dove morì, malato, sofferente e denutrito, a soli 30 anni, dopo tre anni di detenzione, nel 1845. Di lui non si seppe nulla fino agli anni della Grande Guerra, quando casualmente furono scoperti alcuni documenti che lo riguardavano. Il Risorgimento è anche e soprattutto questo: un esercito di sconosciuti. Una nebulosa di stelle inafferrabili e lontane, a cui il nostro sguardo terreno deve volgersi in muta e devota preghiera nei travagli del presente, scansando la biliosa masnada d'infangatori e traditori. Costoro dicono che i Veneti sono una razza a parte e l'Italia un'invenzione: sono i gemelli siamesi di quelli che dicono che i “napolitani” sono una nazione a sé e il Risorgimento fu l'invasione dei piemontesi. Dunque, se è vero come è vero che anche Trieste e Fiume, che non fecero mai parte della Serenissima, si sentivano italiane, non si capisce perché il Veneto bizzarramente invece no: vorrebbe dire che a Trieste in nome dell'Italia si raccoglievano fondi in segreto per gli insorti delle Venezie i quali però non si sentivano italiani, il che ognuno vede da sé quanto sia un'assoluta strampalaggine, come dire che la pioggia non è bagnata. E infatti questi ridicoli campioni dell'indipendentismo non sanno spiegare altro che con le loro miserevoli calunnie, perché decine di migliaia di patrioti veneti patirono e morirono durante tutto il corso del Risorgimento, non sanno spiegare perché nell'infuriare stesso delle battaglie, durante i combattimenti, centinaia di veneti di volta in volta passavano al Piemonte, da parte austriaca annoverati tra i dispersi (solo nell'ultima battaglia, quella di Novara, ce ne furono 877), mentre non erano dispersi affatto anzi si erano ritrovati; non sanno spiegare perché in Ungheria si costituì una legione di sudditi italiani dell'Austria che avevano disertato dalle file austriache. Non sanno spiegare come mai solo da Padova partirono per il campo di battaglia 1500 studenti, i quali sarebbero poi morti in gran numero, e le cui solenni esequie il Vescovo di Vicenza Giuseppe Cappellari celebrò con queste parole: “Noi dobbiamo pregare affinché la Causa da voi sostenuta con le armi, la Causa della Nazione, sia protetta dal Dio degli eserciti. E perciò col cuore abbiamo benedetto e benediciamo alle vostre spade, alle vostre bandiere e a chi corre e si presta in qualunque modo alla difesa della Patria.” Era forse la patria Veneta? No, era la Patria Italia.
Non sanno spiegare come mai, in un Veneto il cui referendum di annessione al Piemonte sarebbe stato truccato nel 1866, Garibaldi venne accolto trionfalmente nel 1867, in particolare a Verona (città clericale, sede di un Risorgimento molto sentito ma prudente e moderato), ove una folla immensa ed esultante lo acclamò dalla stazione Porta Nuova fino all'albergo due Torri (dunque per un lungo tragitto) sotto una pioggia di fiori. Per non parlare della visita di Re Vittorio che un anno prima era stato entusiasticamente acclamato da oltre cinquantamila persone dentro e fuori la famosa Arena, nella medesima città. In tutto ciò non si riesce proprio a vedere, neanche sforzandosi, l'ombra di nessun Veneto libero, di nessun Lombardo-Veneto austriacante, di nessuna inutile confederazione di Stati italiani, e tantomeno di quel “ferrovecchio” chiamato Lega Italica, cui credeva giusto il Re Borbone Ferdinando II. Non si capisce nemmeno perché, se i Savoia erano ansiosi di espandersi ambiziosamente nell'Italia settentrionale, abbiano aspettato ottocento anni per farlo, e proprio contro un nemico possente come l'austriaco (dall'alleanza col quale avevano solo da guadagnarci e tutto da perdere a fargli guerra), quando avrebbero potuto espandersi prima, muovendo semplicemente guerra al Ducato di Milano. In realtà, la Contea di Savoia, poi Ducato, poi Regno di Sardegna, fu sempre troppo impegnata a salvaguardare dalle costanti mire francesi i suoi confini a ovest per pensare di espanderli a est. Non risulta che i Piemontesi covassero concretamente queste intenzioni, quanto, piuttosto, che desiderassero espandersi a nord verso Ginevra (che misero sotto assedio più di una volta) e la Svizzera, e fu nel più ampio gioco delle alleanze europee se ottennero poi la Liguria e la Sardegna. In quanto al fatto che Re Carlo Alberto aspettò la conclusione dell'insurrezione di Milano per dichiarare guerra all'Austria, se avesse osato dichiarar guerra prima, sarebbe stato accusato da tutta Europa di voler espandersi territorialmente e dunque le potenze europee sarebbero intervenute, mentre invece proprio le insurrezioni popolari attribuivano al suo intervento il crisma del legittimo aiuto ai fratelli italiani che con le loro spontanee sollevazioni di massa dimostravano in faccia al mondo di non volere gli austriaci. Senza contare che giusto gli illusi potevano sperare bastasse un'insurrezione per porre fine all'invisa dominazione di Vienna. E infatti fu per questo che furono i lombardi stessi a invocare l'aiuto militare di Carlo Alberto e del suo esercito. Ecco come il famoso giornalista e storico piemontese Vittorio Bersezio descrive la memorabile notte della dichiarazione di guerra all'Austria da parte del Piemonte:
“E' la notte del 23 marzo 1848. Una folla innumerevole si accalca nella vasta piazza Castello. Quella folla, nell'oscurità di quell'ora, è muta come una folla di morti. Si ode appena un bisbiglio, un fremito. La Lombardia è insorta, il popolo subalpino ha invocato armi. Si aspetta la decisione del Re, se si lasceranno soli o no i fratelli di oltre Ticino, nel terribile cimento. E' un'ansia universale, temperata da una comune speranza. A un tratto, il verone della galleria d'armi si spalanca; un'ondata di luce ne sprizza, si spande nel buio di quella folla raccolta; migliaia e migliaia di facce si voltano all'insù; migliaia e migliaia di sguardi si fissano intenti colà. Comparisce pallida, solenne, ma più eretta, l'alta figura del Re Carlo Alberto; egli tiene in mano una fascia con i tre colori italiani, quei tre colori condannati pur dianzi e tenuti come un'insegna di ribelli; e codesta fascia, egli, il Re, agita sopra il popolo palpitante, commosso. Un immenso applauso, un tuono, un uragano di applausi e grida scoppia da quella fitta moltitudine: “Viva il Re! Viva l'Italia!”. E' la guerra d'indipendenza che dal trono di casa Savoia si proclama in faccia all'Italia e al mondo. Una potente vampa di quell'amore popolare, che dev'essere la più preziosa ricompensa e il più gradito piacere dei Re, salì dalla piazza al verone ad avvolgere Carlo Alberto e i figli che gli stavano accanto, i quali magnanimi si consacravano all'alta impresa; e vidi allora -sì, lo vidi-, un più fiero, schietto, trionfante sorriso illuminare la faccia mesta di colui che l'austriaco Bubna (il generale austriaco Ferdinando Bubna n.d.r.) aveva chiamato con ischerno il piccolo re d'Italia.” Che poi nel Risorgimento italiano vi fosse un'anima anti-monarchica, repubblicana e democratica, che non vedeva di buon occhio nessun tipo di monarchia, è fuori discussione, ma è altrettanto fuori discussione che quest'anima mazziniana era incrollabilmente unitaria e come tale anteponeva a tutto l'unificazione nazionale, non solo, ma subì modifiche col tempo e con gli eventi, avvicinandosi sempre più alla politica del Piemonte, soprattutto quando Vittorio Emanuele II mantenne in vita lo Statuto Albertino e sulla scena comparve Cavour, il grande statista-riformatore, colui che capì e fece capire che la via indicata da Mazzini (e da repubblicani più estremisti di lui, come Pisacane) portava al fallimento e all'intervento armato delle potenze europee. Fu lui l'artefice del grande salto qualitativo che, con la creazione della Società nazionale, portò la lotta per l'Unità d'Italia sul piano della realistica collaborazione di tutti per il medesimo unico grande scopo: l'unità e indipendenza della Patria. Il Veneto, lungi dall'agire per conto proprio come qualche odierno rimestatore di carte vorrebbe, si accodò perfettamente all'orientamento generale, anzi ne fu in gran parte il promotore anticipato. Il 4 luglio 1848, infatti, ben prima dell'avvento di Cavour, l'Assemblea nazionale di Venezia decretava a larga maggioranza l'annessione al Piemonte. Naturalmente, quest'ovvia verità storica, che riguardò tutto il Veneto, coinvolto e partecipe fino al collo delle vicende eroiche e tragiche della 1a guerra d'indipendenza combattuta dal Piemonte e da migliaia di volontari italiani contro il gigante austriaco dal marzo all'agosto dello stesso anno, è vergognosamente sminuita e falsificata dai mistificatori di oggi, i quali, pur di dare addosso al Risorgimento, hanno stravolto le carte della Storia, agitando le figure di due fra i grandi protagonisti di quell'esaltante stagione -Daniele Manin e Niccolò Tommaseo- come fossero due spettri che avessero semplicemente resuscitato la repubblica di Venezia del tempo che fu, disinteressandosi al resto d'Italia. Tutto ciò è completamente falso e anzi ridicolo, anzitutto perché non ci fu nessuna resurrezione dell'antica Serenissima (né poteva esserci), tanto più che le trenta famiglie aristocratiche Veneziane che la rappresentavano in via postuma, mai l'avallarono. Indipendentemente dal fatto di essere pro o contro l'annessione al Piemonte, la Repubblica di San Marco del 1848 fu il vessillo dell'Unità d'Italia cui tutti guardavano: le grida di “viva San Marco” s'innalzavano appassionatamente assieme alle grida di “Viva l'Italia”, su tutti i muri di Venezia erano affissi manifesti che inneggiavano all'Italia, tutte le piazze erano affollate di gente che ascoltava le infiammate orazioni patriottiche di Ugo Bassi, Alessandro Gavazzi, Gustavo Modena, quest'ultimo di accesi sentimenti repubblicani, ma anche lui animato dal proposito di unire l'Italia con capitale Roma. Accanto ai vessilli di San Marco sventolavano i Tricolori di tutte le fogge, cuciti clandestinamente e non senza rischio dal popolo Veneziano, e dunque la “repubblica di San Marco”, come la Repubblica Romana un anno dopo, era pienamente immersa nel comune contesto di redenzione dell'Italia, del tutto partecipe e strumentale a questo. Di più: le città di terraferma del Veneto (esclusa l'infelice Verona, imprigionata nel famigerato quadrilatero ove gli austriaci erano andati a rifugiarsi) non vedevano affatto di buon occhio il primeggiare di Venezia quale traspariva dalla nuova “repubblica di San Marco”, e inviarono subito rappresentanti a Manin onde chiarire la situazione. Quando prevalse nettamente l'orientamento favorevole al Piemonte, le città Venete, che intendevano seguire Milano e le altre città dell'Italia settentrionale che si erano espresse per l'annessione, mandarono a Manin –che era repubblicano- un deciso ultimatum affinché mettesse ai voti l'opzione: o così, oppure avrebbero agito per conto proprio, annettendosi da sole. Dunque non pare affatto fosse rinata la Serenissima, e tantomeno che si mirasse a una confederazione di stati italiani indipendenti (e meno ancora a un Veneto indipendente!), che era ciò che tutt'al più sperava l'Europa onde impedire la vera riunificazione dell'Italia che avrebbe sovvertito l'equilibrio geopolitico del continente.
Da parte sua l'onesto Daniele Manin (che negli anni a venire si convertì lui pure alla monarchia Sabauda), ricevuto l'ultimatum, mandò un dispaccio in Sicilia -che allora era alla testa del grande moto meridionale antiborbonico e aveva inviato in Veneto un nutrito contingente di volontari capeggiato dal palermitano Giuseppe La Masa (innamoratosi, ricambiato, di una nobildonna veneta)- onde chiedere come la pensassero: dai capi rappresentanti del popolo siciliano gli fu risposto che andava bene la monarchia costituzionale, la quale non poteva essere che quella Sabauda. Come si vede, nel 1848 si era molto lontani da ciò che rufolano e impastano oggigiorno i venetisti e affini coi loro compari borbonici, la cui falsificazione dei fatti è arrivata al punto di dire che le città Venete si espressero a favore dell'annessione al Piemonte solo per tornaconto, in quanto Carlo Alberto serviva giusto per cacciare gli austriaci. Quanto sia sciocca questa obiezione non c'è bisogno di dirlo: anche ammesso che ciò fosse -ma non era-, chi poteva assicurare che il piccolo Piemonte avrebbe vinto il colosso austriaco? E, in caso di sconfitta, chi avrebbe salvato le città Venete dall'ira austriaca proprio a causa del loro pronunciamento così eclatante e prematuro a favore del Piemonte? Anche ammesso che l'entusiasmo generale avesse fatto credere nella Vittoria finale, non si vede chi e perché avrebbe costretto le città Venete a pronunciarsi imprudentemente per l'annessione prima che questa vittoria avvenisse. Ma il punto è proprio questo: che non le costrinse nessuno, esse lo fecero spontaneamente quando gli esiti della guerra era ancora incerti. Né l'impegno militare di Carlo Alberto si regolò in funzione di questi pronunciamenti, come qualcuno ha malignamente insinuato: infatti la 1a guerra d'indipendenza andò come andò indipendentemente da essi, addirittura contro di essi, in quanto dappertutto i due armistizi con cui si conclusero entrambe le fasi della guerra scatenarono ribellioni e reazioni di malcontento nella popolazione italiana, in particolare proprio a Venezia, ove scene di panico, rabbia e disperazione si verificarono alla partenza della flotta piemontese dall'Adriatico: la gente voleva infatti continuare a tutti i costi le ostilità contro l'odiato austriaco, e contestò violentemente entrambi gli armistizi, il secondo dei quali chiudeva definitivamente la partita con l'amara abdicazione del Re Carlo Alberto (e la sua morte di dolore pochi mesi dopo), che servì però a salvare il trono. Né si può assolutamente dire che il Re fosse entrato in guerra avendo di mira le annessioni, perché ciò è contraddetto dai fatti, in quanto è assodato che S.M. non poteva certo sapere quale sarebbe stato l'esito militare delle operazioni (di cui fin dall'inizio era con ragione assai preoccupato), figuriamoci se sapeva quale sarebbe stato l'esito politico. Per questo motivo, per non scontentare nessuno, egli parlava sempre genericamente di “Unione Italiana”, senza ulteriori specificazioni.
Ma le parole erano solo parole e i fatti quelli che contavano. Entrato in Pavia, la prima città oltreconfine, il Re fu accolto entusiasticamente dalla popolazione che già lo acclamò Re d'Italia, prima ancora che i combattimenti iniziassero. Anche i proclami di Daniele Manin, redatti in lingua italiana, facevano sempre riferimento all'Italia, e il suo drammatico appello, il 12 agosto 1848, a difendere Venezia per difendere l'Italia dopo la sconfitta subita da Carlo Alberto nella tormentata battaglia di Custoza (combattuta fra il 22 e il 27 luglio 1848), iniziava con un chiaro “Soldati italiani!”, invitando tutta la nazione a vedere in Venezia l'estremo propugnacolo della libertà nazionale, la custode eroica del sacro fuoco della Patria. Ovviamente, il pensiero principale che dominava tutti gli altri era quello di cacciare per sempre gli austriaci non solo da Venezia ma da tutto il Veneto e la Lombardia (nonché dal Friuli, dalla Venezia Giulia, dall'Istria e dalla Dalmazia), rimandando eventualmente a dopo la scelta della specifica forma di Stato da adottare: ma l'orientamento generale favorevole al Piemonte era già molto chiaro, e riguardò anche il Ducato di Modena e Reggio e quello di Parma e Piacenza, che già a maggio del 1848, senza che nessuno gliel'avesse chiesto, votarono per l'annessione, seguiti a ruota da Milano e dalla Lombardia. Sostenere perciò che l'annessione non fu un atto spontaneo bensì una subdola trama di Carlo Alberto, il quale aveva ben altro a cui pensare, e se davvero avesse “macchinato” l'annessione non avrebbe chiesto l'aiuto delle truppe Pontificie e del Re di Napoli, è una delle tante maldicenze che si accavallarono l'una sull'altra in quei mesi convulsi e frenetici. Non è colpa sua se più volte durante la guerra fu acclamato spontaneamente dalle truppe e dalla gente come “Re d'Italia”. Gli Austriaci stessi, che mai gli perdonarono il suo ardire e l'umiliazione subita quando egli conquistò Peschiera (uno dei capisaldi del quadrilatero) celebrando il Te Deum di ringraziamento nel Duomo della cittadina in mezzo a tutta la popolazione festante, rinfocolarono le maldicenze contro di lui, a maggior ragione quando, abbandonato su due piedi dal Papa e dal re di Napoli, egli decise di continuare l'impari guerra da solo: fortunatamente, le truppe pontificie al comando dell'eroico generale Giovanni Durando disobbedirono al papa, e così una parte delle truppe napoletane comandate da Guglielmo Pepe, mentre quelle che obbedirono lo fecero di malavoglia e sotto ripetute minacce di Ferdinando II, com'è comprovato dalle lettere del comandante della flotta del Regno delle Due Sicilie, il contrammiraglio napoletano Raffaele de Cosa che teneva il blocco navale del porto di Trieste contro gli austriaci e che inizialmente si rifiutò di obbedire, parlando di “vergogna e disonore” e che “nove milioni di meridionali frementi per i fratelli italiani mai avrebbero accettato quell'abbandono” (e infatti non l'accettarono, e i Borboni non ebbero più pace), dando poi le dimissioni dalla marina borbonica e ritirandosi a vita privata a seguito del vigliacco voltafaccia del suo Re. Né fu l'unico ufficiale borbonico a vivere momenti drammatici, tant'è che il colonnello Carlo Lahalle, per non venir meno ai suoi ideali di Patria, addirittura si uccise davanti alle sue truppe indignate per il contrordine: un chiaro segno di quanto i meridionali fossero “disinteressati” alla questione nazionale.
Piantato in asso sul più bello e privato del prezioso contributo della marina borbonica, Carlo Alberto decise con un atto a dir poco coraggioso di continuare da solo la guerra, nello stupore attonito dell'Europa, il che non fece che aumentare i consensi attorno a lui e a Casa Savoia, inasprendo ulteriormente gli austriaci: consensi che videro in prima fila proprio le città del Veneto, con l'aggiunta di Udine, affrettare e imporre al Governo provvisorio di Venezia la dichiarazione di annessione al Piemonte. Lo stesso Garibaldi, sbarcato in Italia dal Sudamerica nel giugno del '48, a guerra già inoltrata, dopo aver raccolto frettolosamente solo a Nizza più di 400 volontari, accorse subito a Torino e a Milano, e proclamò: “Gli sforzi degli Italiani devono tutti concentrarsi in Carlo Alberto. Guai a noi se, invece di stringerci tutti fortemente intorno a questo capo, disperdiamo le nostre forze in conati diversi e inutili, e, peggio ancora, se cominciamo a spargere tra noi i semi della discordia.” La stessa cosa fece Mazzini, accusato da alcuni intransigenti repubblicani nientemeno di essersi venduto a Carlo Alberto. Se l'emotività popolare poteva sperare sul momento d'aver cacciato definitivamente gli austriaci con le sue sole forze e che bastasse aver proclamato una repubblica per toglierli di mezzo, così non era, anzi era chiaro che l'odiato nemico non se n'era tornato a casa sua al di là dell'Alpi e sarebbe invece ricomparso più incattivito di prima, armato dei suoi potenti cannoni e pronto agli usuali saccheggi, massacri e violenze, e dunque bisognava batterlo militarmente sul campo di battaglia, cosa che nessuna piccola neonata repubblica poteva fare, pur disponendo di migliaia di valorosi combattenti. Peraltro, le difficoltà dell'impiego dei volontari non erano poche: essi si disperdevano facilmente, erano difficili da disciplinare e selezionare, soggetti all'improvvisazione, male armati e ancor peggio addestrati, e giusto il Piemonte riuscì a incanalarne un parte proficuamente nelle sue file, dando loro una veste regolare e i mezzi logistici e finanziari. Nello stesso incontro tra Re Carlo Alberto e Garibaldi, avvenuto il 4 luglio 1848 nel quartier generale piemontese che allora si trovava a Roverbella vicino a Mantova, il Re si limitò a temperare gli ardori dell'eroe, reduce dalle guerre in Sudamerica, facendogli notare che combattere gli esperti generali austriaci era un'altra cosa, e anche i volontari dovevano sottostare a delle regole se volevano raggiungere qualche risultato militare. Garibaldi, che lì per lì si sentì raffreddato nei suoi bollenti spiriti di guerrigliero, avrebbe applicato poi questi saggi consigli nella seconda e terza guerra d'indipendenza, ottenendo le vittorie che tutti conosciamo. Anche in questo caso i detrattori seriali dei Savoia hanno dovuto inventare che il Re male accolse Garibaldi, scoraggiandolo e congedandolo freddamente: niente di più falso, com'è dimostrato da più di un documento. Anzi, Carlo Alberto l'accolse amabilmente, com'era suo costume, né si dimostrò contrariato dall'umile eroe rivoluzionario, per il semplice motivo che, nonostante per alcuni anni fosse stato un Re assolutista, egli era sempre figlio di due rivoluzionari, aveva già tentato una rivoluzione nel 1821 quando ancora era solo il Principe di Carignano, e, di fatto, si era circondato ovunque di democratici, ragion per cui ci aveva a che fare tutti i giorni. Senonché, come S.M. aveva ben previsto, di contro al facile entusiasmo dei garibaldini e dei mazziniani, gli austriaci si preparavano al contrattacco con tutti i mezzi a disposizione, colpiti nell'onore dagli insperati successi del nemico: già il 17 aprile 1848 il generale Laval Nugent passava l'Isonzo facendosi largo senza tanti complimenti con un nutrito contingente agguerrito di rinforzi, puntando i cannoni sulle città di Udine e Palmanova, che erano insorte e furono costrette alla resa. Mentre torme di soldati austriaci demoralizzati e incattiviti, dopo aver sfogato sulle campagne la loro ira con massacri, stupri, saccheggi e atrocità varie (famoso l'eccidio di Sclemo, vicino a Trento -uno dei tanti, sia ben chiaro-, dove circa 20 soldati feriti che si erano rifugiati in una stalla, il più giovane dei quali aveva 17 anni, vennero barbaramente trucidati a sangue freddo dagli austriaci dopo che, per difendersi, avevano ammazzato uno di loro), affluivano sconfitti nelle fortezze del quadrilatero, in particolare a Verona, l'Austria preparava la vendetta, cercando nel frattempo di domare le turbolenze della popolazione veronese che parteggiava per il Piemonte, e già la sera del 18 marzo 1848, prima ancora che Carlo Alberto varcasse il Ticino, aveva tentato una disperata insurrezione senz'armi, cercando di dare l'assalto a Castel Vecchio ov'erano gli austriaci e assediando infuriata l'albergo ove alloggiava l'arciduca Ranieri, protetto dagli odiati croati. L'Austria non poteva certo permettersi un'insurrezione in una postazione chiave come Verona, meno ancora dopo i successi militari di Carlo Alberto, e dunque la città, già ingabbiata da una doppia cinta di protezione tra fortificazioni, terrapieni, casematte, etc., fu riempita di spie, sgherri e soldati insolenti e prepotenti (dieci battaglioni solo per tenere l'ordine pubblico) che scrutavano ogni sguardo, arrestando ogni sospetto e ricorrendo sovente all'odiosa e invalidante pena della bastonatura onde fiaccare gli spiriti. Così, quando i piemontesi, ai primi di maggio del 1848, riuscirono ad arrivare nel villaggio di Santa Lucia, alle porte di Verona, la città era imprigionata in una morsa soffocante, e non scoppiò quella rivolta che avrebbe potuto aprire le porte ai liberatori e dare una svolta importante alla guerra. Ma che la situazione dell'ordine pubblico fosse critica lo dimostrano i proclami irati di Radetzky, ove si minacciava il bombardamento della città se i cittadini non sapranno valutare le conseguenze funeste delle loro azioni, e dove altresì si prospettavano i più gravi castighi contro i numerosi gruppi di patrioti che si assembravano pericolosamente sopra i tetti a scrutare con ansia e trepidazione i movimenti dei piemontesi. Ai quali, nel 1882, la cittadinanza tutta eresse un monumento che, ricordando la battaglia di Santa Lucia del 6 maggio 1848, vinta dai piemontesi, ma purtroppo inutile, così recita: “SULLE VOSTRE OSSA, O VALOROSI FIGLI DEL PICCOLO PIEMONTE, DEPONE RICONOSCENTE IL SUO BACIO LA PATRIA”.
Ben lontani dall'immaginare cosa sarebbe successo 150 anni dopo, i Veneti di allora, come si vede, a tutto pensavano fuorché alla secessione delle Venezie, e, lungi dal ritenere che il Veneto fosse una nazione a sé e l'Italia un'invenzione, dimostrarono l'esatto contrario. Anzi, Venezia fu un caposaldo fondamentale della rinascita nazionale, un punto di riferimento e di richiamo simbolico e psicologico importantissimo per tutti i patrioti d'Italia che in gran numero accorsero a difenderla dopo i rovesci della 1a guerra d'indipendenza: quelli che poterono arrivarci, s'intende, la qual cosa era tutt'altro che facile. La difesa di Venezia, cui praticamente tutta l'Italia, in spirito se non in materia, partecipò, ne è una testimonianza eclatante e costituisce uno dei momenti più alti di tutto il Risorgimento, anche se gli austriaci, coi loro richiami un po' violenti e un po' melliflui, cercarono, con la mediazione del ministro Ludwig Von Bruck che passava per amico degli italiani, e dopo che Radetzky si era protestato quale padre amoroso dei medesimi, di indurre la città alla capitolazione. Il breve scambio di missive e frasi di circostanza tra Manin e il Von Bruck costituisce non a caso l'episodio più infelice di tutta la gloriosa storia che andiamo trattando. Era chiaro infatti che gli austriaci non avrebbero concesso nulla a una città rimasta sola a vedersela con loro dopo la sconfitta di Carlo Alberto. Si trattava solo di una mossa del vecchio “barbagianni” Radetzky per mostrare a tutti che la tragedia dei Veneziani era colpa loro e non degli austriaci, e per cercare di evitare a questi ultimi la fatica di un assedio e la scocciatura dell'ennesimo bombardamento e blocco dei viveri. Il Manin s'illuse o finse d'illudersi dei buoni uffici della Francia e dell'Inghilterra, a entrambe le quali premeva scongiurare l'Unità d'Italia, e dal momento che lo scopo era stato già raggiunto con la sconfitta di Carlo Alberto e la sua definitiva uscita di scena, a nessuno di fatto interessava nient'altro. Una città rimasta sola non faceva paura a nessuno, e il fatto che Manin abbia pensato per disperazione a macchinose combinazioni politiche sostitutive, svilisce un pò la portata dell'intera guerra, sia quella Regia che quella di popolo, che fu enorme e al di là di ogni aspettazione. Cosa poteva infatti valere anche solo dal punto di vista morale, e anche nel caso inverosimile gli austriaci avessero accettato, un qualsiasi penoso ripiego dopo una guerra patriottica come quella, così eroicamente combattuta e persa con tanto onore e sacrificio da tanti italiani di tutte le regioni? Garibaldi stesso, che certo non voleva ripieghi, uscì da Roma nel luglio del 1849 con 2000 fedelissimi dopo il crollo della Repubblica Romana sotto le cannonate dei francesi venuti in soccorso del Papa-Re, per andare a perpetuare questa leggenda, e cominciò la sua lunga marcia in direzione di Venezia in difesa della quale, come tutti, anelava porgere il braccio per la gloria e l'onore d'Italia, non certo per incassare un contentino dal nemico col quale imbastire patteggiamenti. Braccato implacabilmente dagli austriaci comandati dal tristemente famoso generale Konstantin D'Aspre che rioccupava paesi e città insorte a suon di cannonate, fucilazioni, saccheggi e proclami minacciosi alla popolazione (tutti i garibaldini catturati, nonché chi aveva dato loro ricetto, venivano fucilati sul posto anche se avevano 12 anni), a Venezia non arrivò mai. Ci andrà solo a Risorgimento concluso, nel 1876, quando s'affaccerà in piazza San Marco a salutare la folla festante che già l'aveva accolto trionfalmente.
Ma, allora, nel 1849, tutto era crollato, non solo la Repubblica Romana. La definitiva sconfitta del Piemonte a Novara, il 23 marzo 1849, in una battaglia alle porte della città tra 45.000 piemontesi e 70.000 austriaci durata più di otto ore, seguita dalla drammatica abdicazione di Re Carlo Alberto in favore del figlio Vittorio Emanuele, decretò il naufragio ufficiale della causa nazionale. Un naufragio dal quale niente e nessuno avrebbe potuto in tempi brevi risollevare la sconsolata Italia se non fosse stato per il testardo Piemonte, per Re Vittorio e per Cavour, che si misero audacemente in gioco, mettendo nuovamente a rischio il trono, esponendo nuovamente il piccolo regno alle rappresaglie dell'Austria, e spendendo nella causa nazionale fino all'ultima lira. Fin dall'inizio, la lungimiranza e astuzia di Re Vittorio Emanuele, che non aveva nessuna intenzione di abbandonare la causa nazionale ed anzi aveva giurato al padre di condurla a termine, si misero all'opera facendo credere a Radetzky il contrario, onde strappargli meno dure condizioni di resa ed evitare l'occupazione da parte degli austriaci dei territori del Regno di Sardegna. Nessuno superava il Re in quest'abilità ed egli riuscì effettivamente a strappare al vecchio Radetzky condizioni meno dure. Al ritiro della flotta sarda comandata dall'ammiraglio Albini, cui fu ordinato di allontanarsi dall'Adriatico ov'era giunta a protezione di Venezia, accolta dalle rive festanti anche di Istria e Dalmazia, seguirono gravi incidenti in ogni angolo del Regno di Sardegna e addirittura all'interno del Parlamento di Torino, dove i deputati, a maggioranza democratica, si rifiutarono di avallare le decisioni del Re, che fu costretto a sciogliere la Camera e imporre la sua linea, che, benché invisa e incompresa ai più perché implicava anche l'abbandono di Venezia alla sua sorte, si rivelò essenziale per i successivi sviluppi che avrebbero portato alla seconda guerra d'indipendenza, dieci anni dopo. L'Italia di allora, che pretendeva dal Piemonte cose impossibili, non fece troppo caso al fatto che gli austriaci erano entrati in Alessandria e avevano assediato Casale Monferrato, che pur li respinse eroicamente, né fecero caso al fatto che il Piemonte dovette sborsare al vincitore l'astronomica cifra di 75 milioni di lire (che inizialmente erano 200). Nella città di Genova, sparsasi artatamente la voce che nei termini dell'armistizio era compresa la consegna della città agli austriaci, scoppiò un'insurrezione di vaste proporzioni che degenerò in un vero e proprio atto d'insubordinazione al Piemonte e alla persona del nuovo Re Vittorio Emanuele II, additato quale colpevole d'essersi arreso al nemico, in cui finirono per confluire e mescolarsi, assieme a elementi repubblicani particolarmente estremisti, sconfessati dallo stesso Mazzini, interessi estranei a quelli del Risorgimento.
Né si poté impedire che l'amata città di San Marco, rimasta isolata nella sua resistenza a oltranza contro gli Austriaci, scatenasse un forte contraccolpo emotivo negli animi degli italiani che con l'ardore della speranza vedevano nel Piemonte il centro di riferimento del Risorgimento nazionale, e presero i due armistizi della 1a guerra d'indipendenza come un tradimento e una vergogna. Perciò, quando il Re Vittorio Emanuele II antepose la salvezza del suo Stato, divenuto così prezioso per la causa nazionale, a un'impossibile continuazione della guerra, esplose una sorta d'indignazione collettiva che volse in tragedia allorché i Veneziani giurarono solennemente di resistere a qualunque costo, esponendosi ai bombardamenti, al colera e alla fame, e infine arrendendosi dopo epica resistenza. Con ciò, con la resa di Venezia il 22 agosto 1849, si concluse tutta quella fase della lotta per l'unità e l'indipendenza d'Italia iniziata nel gennaio dell'anno prima con l'insurrezione di Palermo: una fase che accese speranze, incendiò gli animi, infiammò un intero popolo dalle Alpi al mare, raccogliendo volontari da ogni dove in un'ondata di entusiasmo e patriottismo che nemmeno la sconfitta di Novara riuscì a spegnere, tant'è che i Bresciani non ci vollero credere e continuarono a combattere gli austriaci dentro la loro stessa città, che fu atrocemente saccheggiata e bombardata dalla “iena” austriaca Haynau. Nella succitata battaglia di Novara, peraltro, la situazione fu favorevole ai piemontesi fino alle prime ore del pomeriggio del 23 marzo, tant'è che Radetzky, preoccupato, si affrettò ad assumere personalmente il comando, e fu soprattutto l'affluire di potenti rinforzi, la schiacciante superiorità numerica del nemico nonché i colpi della sua potente artiglieria a infliggere ai piemontesi la sconfitta decisiva.
Al termine di questa epica fase del Risorgimento che è scolpita nella Storia, rimaneva un popolo solo momentaneamente piegato, giammai spezzato. Un popolo che aveva dimostrato tutto il suo coraggio e la sua determinazione, ma non bastava. Di lì a pochi anni, un uomo di nome Cavour, che aveva perso l'amato nipote ventenne proprio nella 1a guerra d'indipendenza, avrebbe capito che per fare l'Italia non bastava l'eroismo, non bastava il sangue, non bastavano le battaglie e le rivolte, perché l'Europa dei governi faceva ostruzionismo, parteggiando di fatto per gli austriaci: dunque ci volevano anche le arti diplomatiche e un'operazione politica di ampio respiro che procurasse amici e alleati influenti. Diversamente, il tiro micidiale dei cannoni austriaci, il più assiduo mezzo di persuasione adottato per piegare ovunque la popolazione italiana che si ribellava a un nemico detestato, avrebbe continuato a mietere vittime. Ed era un nemico potente e insidioso che stendeva i suoi tentacoli sull'intera penisola, non solo sul Lombardo-Veneto. Non a caso il cardinale Ettore Consalvi soleva dire “ne sanno più gli austriaci dei fatti nostri che noi.” Una fitta rete di spie e orecchianti ben pagati, s'irraggiava ovunque, pronta a riferire alle autorità di polizia ogni movimentazione sospetta, ogni parola strana, ogni dialogo concitato, ogni gesto furtivo, mentre le truppe austriache in armi erano pronte a intervenire in ogni stato vassallo italiano che si trovasse in serie difficoltà, compreso il pericolante Regno dei Borboni, che più di una volta ebbe bisogno dell'intervento urgente dell'Austria. A giusta ragione, perciò, il grande patriota piemontese Santorre di Santarosa aveva scritto fin dal 1820: “la liberazione d' Italia sarà l'avvenimento del secolo XIX°. L'ardore degli Italiani per l'indipendenza nazionale aumenta a misura dei sacrifizi che costa. La forza dell'Austria potrà solo ritardare il momento, ma renderà l'esplosione ancora più terribile.” Mai parole furono più profetiche. Nel 1848-'49 venne inequivocabilmente alla luce ciò che quarant'anni di settarismo carbonaro (e di altre sette affini minori) al Nord come al Sud avevano già fatto trasparire: una volontà di popolo, un'adesione corale all'indipendenza e alla libertà, il coraggio di sfidare e misurarsi temerariamente contro forze soverchie, il che ognuno poté toccare con mano proprio relativamente alle vicende gravitanti intorno alla 1a guerra d'indipendenza e a tutte le insurrezioni che le fecero corona, in cui il Veneto non fu secondo a nessuno ma anzi primeggiò. E' doveroso dunque ricordare le eroiche popolazioni di quelle terre, i tanti che patirono e morirono o furono costretti all'esilio e privati di tutti i loro beni, di fronte a cui certa gentaglia d'oggi merita solo disprezzo. E' doveroso ricordare le genti delle valli del Cadore, nel bellunese, che si ribellarono agli austriaci, respingendoli eroicamente ad Agordo e a Zoldo, decorate di medaglia d'oro dal Re quali benemerite del Risorgimento nazionale. E' doveroso ricordare le eroiche popolazioni di Chioggia, di Mestre e di Vicenza che fece causa comune coi suoi difensori contro le cannonate austriache che stavano riducendo in cenere la città, mentre i soldati nemici cantavano ed esultavano a ogni tiro di cannone. Bisogna ricordare le genti della provincia di Treviso, devastata dagli austriaci per ritorsione, gli abitanti di Castelnuovo sul Garda, massacrati per dare un esempio: vecchi, donne e bambini, rei d'aver dato ricetto alla colonna crescente di volontari lombardi, piemontesi, trentini e veneti comandata dal milanese Luciano Manara, sbarcato a sorpresa con un'audace colpo di mano sulla riva orientale del lago di Garda, accolto festosamente dalla popolazione. Né si potrà dimenticare la fedeltà all'Italia di Rovigo e del Polesine, che, antesignani del Risorgimento nazionale, conobbero un'eccezionale sviluppo della Carboneria, con l'arresto in massa dei carbonari nel 1818, condannati tutti a durissime pene. E' doveroso ricordare anche coloro che non possiamo ricordare perché non se ne sa nulla, come la folta schiera di veneziani di tutti i ceti, anche umilissimi, perseguitati dall'Austria dopo la tragica resa della città e che pur continuarono a cospirare instancabilmente per l'Italia, cercando di resistere alle torture e agli interrogatori ove gli si voleva strappare il nome di complici e fiancheggiatori. Il libraio veneziano Vincenzo Maisner pagò il suo amore per l'Italia con la condanna ai ferri pesanti che trascinò per anni in una buia cella prima della grazia; il medico trevigiano Luigi Pastro, figlio di contadini poverissimi, divenuto medico per merito di amici e benefattori, ardentissimo patriota fin da ragazzo, resistette eroicamente ai feroci interrogatori del famigerato Kraus per non fare i nomi dei suoi compagni di lotte e di ideali, perse tutti i capelli e quasi fu lasciato morire di fame chiuso dentro un angusto sotterraneo umido e senza luce. Disdegnoso di qualsiasi riconoscimento che non fosse l'orgoglio d'aver servito la Patria, quando, ormai assai vecchio, entrò in Senato a Roma, i senatori tutti si levarono in piedi e commossi, alcuni piangendo, gli tributarono un applauso interminabile. Tutto l'eroismo e il patriottismo dei Veneti, degni figli di San Marco, degni figli della Serenissima che nulla ha a che vedere con certa manica di buffoni, è racchiuso nelle ultime fiere parole del grande eroe veneziano Pier Fortunato Calvi, impiccato dagli austriaci:
«Io, Pietro Fortunato Calvi, già ufficiale dell'esercito austriaco, ex colonnello dell'esercito italiano durante la 1a guerra d'indipendenza, ora condannato a morte per crimine di alto tradimento, vado lieto incontro a questa morte, dichiarando in faccia al patibolo che quello che ho fatto l'ho fatto di mia scienza, che sarei pronto a farlo ancora, onde scacciare l'Austria dagli Stati che infamemente ha usurpato. Chieggo che questa mia dichiarazione [...] sia [...] unita al mio processo, onde tutti sappiano che Pietro Fortunato Calvi, piuttosto che tradire la sua Patria, offre il suo cadavere».
Lo storico veneziano Rinaldo Fulin, presenziando, dopo l'Unità d'Italia, alla solenne tumulazione dei tre eroi veneti Bernardo Canal, Angelo Scarsellini e Giovanni Zambelli, morti impiccati nel 1852, disse, tra l'altro, queste illuminanti parole: “Essi hanno dato ai nostri oppressori un infruttuoso ma pur terribile avvertimento: che il fuoco ardeva, ardeva sempre, ardeva tremendamente sotto questa terra infelice.”
Bisogna dunque guardare severamente dritto in faccia e mettere alla berlina le fanfaronate ricorrenti che a ventate giungono alle nostre orecchie: quella di Venezia che non voleva il Risorgimento, del Veneto che anelava rimanere austriaco, dei Veneti che non si reputavano italiani e dunque rimasero sordi ai richiami della Patria, subendo il Risorgimento e la solita invasione dei piemontesi come un'imposizione e anzi una calamità che gettò il Veneto nella miseria, sanzionando il tutto con plebisciti falsi e truccati, congegnati dall'astuto Cavour (che tra l'altro nel 1866 era morto da un pezzo). Abbiamo visto e provato che tutto ciò non solo non è affatto vero, ma è altresì grandemente offensivo nei confronti della popolazione veneta che tanto ebbe a soffrire dall'occupazione austriaca e tanto operò per il Risorgimento, pur soffocata, repressa e perseguitata in tutti i modi. La favola del buongoverno austriaco e delle mansuete popolazioni viventi in una sorta di regno di Heidi è smentita dai sonanti fatti. Lo stesso trapasso dalle autorità austriache a quelle del Regno d'Italia, avvenuto nell'ottobre del 1866, dopo la 3a guerra d'indipendenza quando il Veneto e il Friuli finalmente tornarono all'Italia, non fu indolore, ma registrò disordini e incidenti con morti e feriti, e perfino nei luoghi ove avvenne con relativa tranquillità, come a Padova, si levarono le proteste per le angherie, i latrocini e le atrocità austriache, che del resto gli occupanti avevano sempre bellamente compiuto, sfogando spesso sulla popolazione inerme la rabbia per l'impreveduto Risorgimento italiano che segnò l'inizio della fine dell'impero asburgico. Partiti finalmente i detestati invasori, le città del Veneto si empirono di bandiere, di coccarde, di ghirlande. Le campane suonarono a stormo, tutti si riversarono in strada. E finalmente, soltanto un mese dopo la dipartita degli austriaci -da questi rallentata il più possibile con vari pretesti-, il Re Vittorio intraprese un lungo viaggio trionfale in Veneto, cominciando da Venezia, ove lo spettacolo dei festeggiamenti per il suo arrivo furono epocali e definiti da tutte le cronache e dispacci telegrafici del tempo come “impossibili da descrivere”, con folle “entusiastiche quasi in delirio”. Non a caso ai risultati del plebiscito del Veneto fu attribuita grande solennità, e vennero portati direttamente a Torino da tutti i delegati provinciali della regione, il che sarebbe stato quantomeno imprudente trattandosi di plebisciti falsi e truccati. Non solo: ma la sollevazione del Veneto fu così vasta e eclatante che non mancò di influenzare anzitutto il Trentino ove si registrarono moti, disordini e dimostrazioni per la riunione della regione al Veneto e all'Italia, dove gli ostaggi trascinati dagli austriaci furono ospitati dai padri francescani con mille cure e ricoperti di doni dalla popolazione, e ovviamente il Friuli, orientale e occidentale, ove il fervore patriottico della stragrande maggioranza della popolazione, compresa la minoranza slovena delle quattro valli del Natisone, sopperì alla carenza endemica di armi e alla naturale disorganizzazione dei volontari, che erano tanti e da ogni parte affluivano, ma non potevano certo bastare contro i potenti cannoni austriaci, come la resistenza di Osoppo in provincia di Udine -punto nevralgico di passaggio per i rifornimenti all'esercito nemico-, caduta dopo sette mesi di logorante assedio, dimostra. Quando il generale piemontese Alberto La Marmora, che operava in stretto contatto con Venezia, vide le folle di migliaia e migliaia di contadini e popolani del Friuli armati con falci, forconi e coltelli di casa per combattere gli austriaci, si mise le mani nei capelli. Ma il Risorgimento è stato anche questo: un'impetuosa valanga di spiriti generosi, una passione indomabile del cuore, che, a lungo repressa, rigurgitava in mille esternazioni, anche disordinate, confuse e inadeguate, ma simbolicamente grandissime.
Perciò, proprio dall'analisi della 1a guerra d'indipendenza e delle sue vicissitudini, si ricava la conclusione che, nel duello con l'eterna rivale, Vienna fallì completamente nell'intento di assoggettare a sé non solo i territori che erano stati di Venezia, ma anche quelli che non erano mai appartenuti alla Serenissima, come Trieste, Gorizia e Fiume. La grande forza centripeta della Serenissima, centro di gravità permanente, pur defunta, vanificò gli sforzi violenti e non violenti messi in atto da Vienna per asservire gli italiani, germanizzandoli o peggio slavizzandoli, facendo loro dimenticare chi erano. In quell'evento epocale che chiamiamo Risorgimento, il Veneto con tutte le sue città e contrade, da Belluno fino al Polesine e alla Laguna, rivestì dunque un ruolo da protagonista, esattamente come il mezzogiorno e il resto d'Italia. Proprio per questo, oggi, l'ammucchiata meticcia dei nemici, incattiviti dai documenti, dalle memorie, resi baldanti dal tempo che passa e dall'oblio conseguente, avvantaggiati dalla tristezza dei tempi, ringalluzziti dall'ignoranza generale, resi ciarlieri da chi dà loro impudentemente spago per fare un po' di scena e ascolti, si sono accaniti proprio sul Veneto, il quale viene citato a sproposito come una sorta di isola staccata dal resto d'Italia, legato in perpetuo a una Serenissima presentata come un'enclave disgiunta dal territorio nazionale, unicamente veneta e non italiana, quando invece proprio la sua stessa storia dimostra il contrario. Assistiamo così a discorsi senza capo né coda, dove, incuranti del fatto che Venezia e Vienna furono sempre acerrime nemiche tra di loro, e l'Austria non poté dotarsi di un vera Marina fino a quando la Serenissima fu sulla breccia a sbarrarle il passo, gli indipendentisti veneti o chi per essi inneggiano a Francesco Giuseppe e al suo Impero morto e sepolto che niuno rimpiange tranne loro, nel contempo vantandosi quali discendenti di quel Leone di San Marco il quale farà sicuramente a meno delle loro farneticanti devozioni, ed anzi, provvederà, dalla celeste aura di tutti i suoi eroi, a far piovere sui traditori e mistificatori della Storia, come una colata di fango, l'infamia.


Nell'immagine, lapide commemorativa del volo su Vienna apposta all'esterno del Castello di San Pelagio, sede del Museo dell'Aria e dello Spazio a Due Carrare (PD).Documento inserito il: 31/07/2017
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