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Il ferimento di Garibaldi sull'Aspromonte [ di Lorenzo Amadori ]

Su molti libri di storia, la disavventura di Garibaldi all’Aspromonte (e tutto quello che è avvenuto dopo), è liquidata in poche righe, un po’ per esigenze di testo e un po’ per disinteresse. Inoltre allo studente sembra che quella disavventura sia stata poca cosa. Bè, non è così.
Vediamo ora come siamo arrivati allo scontro tra Garibaldini ed Esercito Italiano sull’Aspromonte.
L’Italia era da poco un regno ma non ancora unita: all'unità nazionale mancavano ancora il Lazio e il Nord-Est.
C’era ancora molto da fare, dall’analfabetismo, dall’unificazione dei pesi e delle misure, costruire e rammodernare le città, il brigantaggio etc…
Nella sua autobiografia, Garibaldi parla poco di questo fatto: dice soltanto che “ebbi in regalo due palle di carabina, una all’anca sinistra e l’altra al malleolo interno del piede destro”.
Nel 1862 Garibaldi e i suoi puntavano a Roma partendo dalla Calabria, impresa questa, eroica ma destinata al fallimento come quella, di nuovo tentata dai garibaldini, nel 1867 con la sconfitta di Mentana.
Il governo Rattazzi si allarmò subito e si mise in moto per fermare quella pedina da sempre considerata troppo autonoma. Era infatti diffusa la sensazione che, se il governo italiano avesse lasciato fare Garibaldi, Napoleone III, che proteggeva il Papa-re, non avrebbe di certo visto di buon occhio, non solo il governo, ma tutta l’Italia. Quindi il rischio di una rottura diplomatica faticosamente costruita da Cavour pochi anni prima con l'Imperatore dei francesi, era ben presente.
Il pontefice Pio 9° (Mastai Ferretti) dal canto suo, sapeva bene di essere protetto da ben due eserciti, uno italiano e l’altro francese.
Il generale Cialdini fu il responsabile materiale di quell’operazione: il 29 agosto 1862 ad Aspromonte, diede l’ordine di aprire il fuoco.
Garibaldi, esponendosi per impedire un reciproco scambio di pallottole, fu doppiamente colpito. Gesto avventato sì, ma bisogna capire il perché: per far sì che gli italiani non si uccidessero a vicenda, cosa che Garibaldi non volle mai.
Subito si capì la gravità delle ferita al piede, poiché quella alla coscia era solo superficiale e leggermente contusa. Il medico Enrico Albanese volle subito incidere la pelle del piede per rimuovere ogni corpo estraneo, ma i colleghi Basile e Ripari, per evitare complicazioni (e guai) decisero di non continuare l’intervento e di praticare docce fredde per attenuare il dolore.
Il mattino dopo il paziente fu trasferito a Scilla e da lì, sulla fregata Duca di Genova, alla volta di La Spezia, ospite della marina militare al forte di Varignano. Viaggio penoso visto il gran tormento che gli dava la ferita.
L’opinione pubblica era preoccupata per lo stato di salute e si temevano reazioni da parte del popolo.
Il problema dei medici era quello di trovare la posizione esatta della palla, che si era pure portata con sé un pezzo di stivale e uno del calzino; dopodiché sarebbe stato facile estrarla, scongiurando la soluzione extrema ratio, cioè quella dell’amputazione. Vennero praticate varie tecniche del tempo: la specillazione per tentare di individuare la palla, cerato di galeno, una purga, impiastri di semi di lino, tutto pur di evitare la cancrena. Ma intanto la febbre comparve e si mantenne costante.
Il 10 settembre, Garibaldi ebbe “atroci dolori al collo del piede”, con abbondante pus. Le furono applicate ben venticinque mignatte (sanguisughe) per placare il dolore, ma più di tanto non potevano fare.
Fino al 21 settembre furono estratti vari frammenti ossei, lembi di pelle dello stivale, parti di calzino…ma della palla nemmeno l’ombra. Intanto i consulti dei medici si susseguivano: Ferdinando Zannetti, Ripari, Basile, Albanese, Partridge, Prandina…tutti intenti a salvare il piede del patriota italiano.
Probabilmente anche lo stesso re, Vittorio Emanuele II, fece visita all’infermo.
A ottobre la situazione peggiorò: il gonfiore si estese fino al ginocchio: le vennero applicati solfati di soda e impiastri di semi di lino per attenuare il dolore; contemporaneamente i medici decisero di attendere ancora, visto il pericolo dell’amputazione quasi del tutto scongiurato. A tutto ciò si aggiungevano i vari reumatismi di cui il generale da tempo soffriva.
Il 19 ottobre si decise di somministrare al paziente il solfato di chinino ed estratto d’oppio per mantenere la situazione stazionaria.
Intanto l’ opinione pubblica, da sempre di natura molto emotiva, veniva tranquillizzata dal pericolo scongiurato dell’amputazione e dalla libertà ottenuta dal generale grazie a un amnistia data dal matrimonio tra Maria Pia di Savoia e il re del Portogallo. A ciò seguì il suo trasferimento a La Spezia nell’ albergo Milano.
Nèlaton, illustre medico francese del tempo, fece visita a Garibaldi il 28 ottobre: ispezionò la ferita e avvertì la presenza della palla a due centimetri e mezzo di profondità. Il giorno dopo un nuovo consulto tra i medici portò alla decisione di un nuovo trasferimento: Pisa, sede di un’ ottima università di medicina, dove Garibaldi giunse l'8 novembre.
Il medico francese mise a punto un ingegnoso specillo per individuare la palla, alla cui estremità c’era un rivestimento di porcellana rugosa; Zannetti se ne incaricò di usarla. La porcellana, toccando il piombo imprigionato nel piede, si sarebbe macchiata, permettendo così ai medici di individuare il corpo estraneo e di estrarlo.
Il primo tentativo con questo sistema andò a vuoto.
Venne tentato un innovativo intervento: il fisico Felici, sperimentò un conduttore di corrente termo-elettrica, che avrebbe dovuto segnalare l’esatta presenza della palla. Un altro buco nell’acqua.
Molto spesso però le idee più semplici e logiche hanno successo, e quindi si decise di ritentare con lo specillo di Nèlaton: il 20 novembre la porcellana si tinse di nero. Era la prova che tutti aspettavano da tempo.
Due giorni dopo venne introdotto nella ferita un cilindro di spugna per dilatarla e il 23 venne tolto. Zannetti, per togliere la palla, usò una pinza dentata ed estrasse facilmente una palla di ventiquattro grammi.
Ottantasei giorni era durato quel calvario.
Dopo vennero estratti nuovi corpi estranei, le ferita e il gonfiore si attenuarono fino alla completa guarigione, e il 16 gennaio, il generale fece “qualche timido passo”.
L’estate portò la definitiva guarigione, anche se, Garibaldi rimase per tutto il resto della vita appoggiato a un bastone.
I vari uomini che avevano curato Garibaldi venivano celebrati come eroi, soprattutto Zannetti e Nèlaton.
La stessa ferita al piede, il travaglio e la guarigione avevano fatto di Garibaldi ancor più un eroe popolare, innalzandone la sua statura oltre ogni limite.


Bibliografia
-il trionfo della ragione, giovanni cipriani, nicomp saggi
-le grandi biografie, Anita e Giuseppe Garibaldi, peruzzo editore

Nell'immagine, Garibaldi ferito contornato dai suoi ufficiali e da un bersagliere
Documento inserito il: 25/11/2014
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