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Alle radici del regionalismo italiano [ di Michele Strazza ]

Storicamente “l’idea regionale” ha radici nell’Ottocento, in quei movimenti di pensiero d’epoca risorgimentale facenti capo ad Antonio Rosmini, a Vincenzo Gioberti e a Carlo Cattaneo.
Mazzini stesso nel 1861 sostenne l’esigenza di riconoscere la Regione quale ente intermedio fra la Nazione e il Comune, precisando che l’unitarietà non doveva identificarsi necessariamente con l’accentramento
. Mazzini si rendeva conto che, pur realizzandosi lo Stato unitario, esso si sarebbe dovuto convenientemente strutturare “con un interno moto centrifugo dal centro alla periferia”. Egli non voleva affatto, come in realtà poi avvenne, uno Stato rigidamente accentrato, sostenendo l’opportunità di conciliare l’unità politico-costituzionale con una ben intesa autonomia e autarchia delle province e magari delle regioni, per tutto quanto riguardava l’attività legislativa, esecutiva e amministrativa avente ad oggetto materie di interesse locale.
Tali idee ebbero anche degli addentellati parlamentari. Luigi Carlo Farini, Ministro degli Interni del I Governo Cavour (21 gennaio 1860-21 marzo 1861), infatti, presentò alla Camera un disegno di legge, approvato il 24 giugno 1860, per la istituzione presso il Consiglio di Stato di una Commissione legislativa per lo studio e la compilazione di progetti di legge sulla riforma dell’ordinamento amministrativo dello Stato. Tale Commissione si orientò nel considerare la Regione come un “ente morale”, con propri diritti ed una propria fisionomia, amministrata da un “Governatore” con l’ausilio di una “Commissione” composta da rappresentanti dei Consigli Provinciali.
Così scriveva il Farini nel suo progetto:

Se vogliamo compiere un’efficace opera di decentramento e dare alla nostra Patria gl’istituti che più le si convengono bisogna, a parer mio, rispettare le membrature naturali dell’Italia. Se volessimo creato l’artificioso dipartimento francese riusciremmo a spegnere le vive forze locali, spostando e distruggendo i centri locali e turbando l’antico organismo pel quale esse si mantengono e si manifestano.

Anche Marco Minghetti, succeduto al Farini nel Dicastero degli Interni, presentò il 13 marzo 1861 alla Camera dei Deputati un piano governativo di riorganizzazione amministrativa dello Stato composto di 4 progetti dei quali uno era dedicato alla ripartizione del Regno e un altro si occupava dell’amministrazione regionale.
Con il primo progetto il nuovo Regno d’Italia veniva diviso in Regioni, Province, Circondari e Comuni. La Regione era inquadrata come “circoscrizione amministrativa” dello Stato, retta da un “governatore” con funzioni di direzione dei servizi politici di sicurezza che facevano capo al Ministero dell’Interno, oltre che con competenze su vari altri atti.
Mentre con tale progetto veniva articolato un “decentramento amministrativo gerarchico”, nel secondo progetto veniva delineato un vero e proprio “decentramento amministrativo autarchico” in quanto gli organi locali risultavano svincolati gerarchicamente dall’amministrazione centrale. In quest’ultima dimensione le Regioni venivano costituite sotto forma di “consorzi obbligatori tra Province” e riconosciute come persone giuridiche per un numero limitato di finalità: da alcune tipologie di lavori pubblici alla tenuta degli archivi storici, dalla sorveglianza degli istituti di istruzione superiore alla sovraintendenza sulle accademie di belle arti.
Il Minghetti, nella relazione illustrativa ai progetti, evidenziava che l’Unità politica non doveva comportare per forza l’unità amministrativa e che gli interessi e le tradizioni delle diverse comunità regionali non potevano essere distrutte o livellate in un’unica indifferenziata forma di disciplina.. Il decentramento, invece, avrebbe rappresentato lo strumento per la realizzazione di una più adeguata giustizia distributiva tra le diverse parti della nazione e per una più idonea corrispondenza dell’ordinamento giuridico generale alle esigenze locali, il necessario ponte di passaggio dal pluralismo delle legislazioni dei sette Stati unificati alla conseguita unitarietà del sistema giuridico.
Ma tale visione era troppo avanti per i tempi e doveva essere bloccata da una mentalità timorosa e conservatrice. L’introduzione delle Regioni, infatti, destò larghe preoccupazioni che vennero in luce in numerose pubblicazioni comparse durante l’elaborazione dei quattro progetti di legge e durante la discussione di essi in Parlamento. Ma, soprattutto, sulla questione si appuntarono le opposizioni delgi uffici ministeriali. Quattro uffici (il II, il III, il V e l’VIII) si dichiararono pregiudizialmente contrari all’istituzione della Regione. Tre uffici (il I, il VI e il IX) si pronunziarono contro la Regione come ente autarchico. Due uffici (il I e il IV), infine, votarono contro la Regione come circoscrizione statale, “sicché il progetto di legge, nella sua parte essenziale, poteva considerarsi bocciato in partenza”.
Di fronte alle critiche ed allo sbandamento della stessa opinione pubblica il Minghetti cercò di correre ai ripari, aggiungendo al disegno di legge originario un articolo nel quale si prevedeva che le circoscrizioni regionali sarebbero state decise con decreto reale, previo parere di una commissione designata dal Parlamento. Ma le critiche e le perplessità continuarono fino a quando la Commissione parlamentare eletta per riferire sui disegni di riforma (aumentata a 27 deputati) respinse, all’unanimità dei suoi componenti, la Regione come ente amministrativo, mentre solo 6 di essi si dichiararono a favore della Regione come ente governativo.
Si giunse così, anche per le avversioni interne allo stesso governo, alla sospensione della discussione sui progetti e all’adozione soltanto di alcune disposizioni che estendevano le leggi amministrative piemontesi del 1859, pur se “provvisoriamente”, a tutto il Regno.
Prima ancora di essere formalmente ritirati il 22 dicembre 1861, i progetti di Minghetti vennero, dunque, “affossati” dal Governo del Ricasoli ad ottobre. Le motivazioni fornite erano collegate all’abolizione delle luogotenenze di Firenze e Napoli e all’annuncio dell’imminente soppressione di quella di Palermo. Come ha puntualizzato il Ragionieri, oltre ad estendere a tutta l’Italia la legge comunale e provinciale Rattazzi, i decreti ricasoliani del 9 ottobre sancivano la nascita di un nuovo istituto, destinato a segnare profondamente la struttura dello Stato italiano in tutta la sua Storia successiva: l’istituto prefettizio.
Marco Minghetti si dimetteva e la successiva unificazione amministrativa del 1865 avrebbe, poi, messo la parola fine ad ogni tentativo di decentramento.
I progetti di Farini e Minghetti, in realtà, prevedendo la formazione di istituti intermedi tra gli enti locali e lo Stato con l’obiettivo di conciliare l’unità politica con un certo grado di decentramento amministrativo, erano più vicini ad una visione dello Stato simile al “self-government” inglese che non al rigido accentramento francese.
La discussione sull’idea regionalista sarebbe ancora proseguita nelle aule parlamentari, riprendendo vigore nel dibattito sulla questione meridionale. Il Regionalismo poteva, secondo alcuni, essere così visto come un mezzo di contenimento degli squilibri territoriali e di sviluppo tra nord e sud d’Italia.
Ma fu nel primo dopoguerra che, soprattutto da parte di Luigi Sturzo, si riaccesero i riflettori su tale problematica.
Il fondatore del Partito Popolare Italiano, infatti, relazionando al III Congresso nazionale del partito (Venezia 23 ottobre 1921), un anno prima della presa del potere di Mussolini, sostenne la riforma amministrativa dello Stato con alla base proprio le autonomie locali e il riconoscimento giuridico delle Regioni, intese non più come espressioni del decentramento amministrativo ma come enti rappresentativi, elettivi, autonomi e autarchici, con poteri sia amministrativi che legislativi.
Dopo aver fugato il timore che il movimento regionalista potesse disgregare lo Stato, rafforzandolo invece nella sua caratteristica “statale” e togliendo la debolezza organica dell’accentramento amministrativo, egli esponeva il suo programma di valorizzazione delle Regioni, un programma non “antistatale” ma contro “il predominio statale burocratico” che bisognava correggere.
La Regione, per Sturzo, era concepita come “unità convergente non divergente dallo Stato”:

Per noi il movimento regionalista non ha pertanto carattere di semplice base di circoscrizione territoriale per un migliore assetto degli organi statali decentrati alla periferia, ha una caratteristica amministrativa organica autonoma; è una unità specifica, ragione della vita rappresentativa delle forze locali.

Così ne delineava la fisionomia:

L’ente che deve sorgere deve essere sano, valido, completo, e quindi nella caratteristica fondamentale elettivo-rappresentativo, autonomo-autarchico, amministrativo-legislativo, la Regione, in tutte le sue appartenenze e sommando in essa tutti gli interessi collettivi limitati allo sviluppo locale-territoriale. Chiarisco le parole sottolineate: elettivo-rappresentativo, perché non sia frutto di elezioni di secondo grado o di enti specifici o di nomina statale, ma in base ad elettorato diretto a suffragio universale, comprese le donne, e a sistema proporzionale; - autonomo-autarchico, perché esso entro le leggi governi a sé, e dalle leggi tragga la sua caratteristica; e non sia un ente statale con poteri delegati, che abbia per capo un governatore; - amministrativo-legislativo, che abbia una finanza, che possa imporre tributi, che amministri tali fondi e che in tale atto, cioè nel complesso della sua attività specifica, faccia i regolamenti e le leggi di carattere locale e dentro l’ambito del proprio territorio.

L’8 settembre 1921, intanto, era intervenuto il Regio Decreto n. 1319, prima disposizione del nostro ordinamento a parlare espressamente di regioni, con cui si preannunciava la concessione di “autonomie regionali” ai territori del Trentino Alto Adige e della Venezia Giulia annessi all’Italia dopo la vittoria nel primo conflitto mondiale.
Ma ancora una volta il dibattito sarebbe stato bloccato e questa volta per vent’anni. Il Fascismo occupava lo Stato e la sua visione accentratrice non prevedeva spazi per qualsivoglia forma di autonomia. Anzi anche quelle esistenti, come le comunali, avrebbero presto trovato la loro fine con la istituzione del Podestà.

Nell'immagine, il ministro Luigi Carlo Farini.


BIBLIOGRAFIA
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Atti del Parlamento italiano, Sessione del 1861. Documenti, 1° periodo, dal 18 febbraio al 23 luglio 1861 (raccolti e corredati di note e documenti inediti da Giuseppe Galletti e Paolo Trompeo), Vol. I, Eredi Botta, Torino 1861.
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Meale G., Principi di Diritto Regionale, Cacucci Ed., Bari 1983.
Ragionieri E., La storia politica e sociale, in “Storia d’Italia. Annali”, vol. XI, Ed. Einaudi, Torino 1976.
Strazza M., La nascita delle regioni ordinarie, “Storia in network”, nn. 141-142-143, luglio-agosto-settembre 2008.
Villari R. (a cura di), Il Sud nella Storia d’Italia. Antologia della questione meridionale, Laterza Ed., Roma-Bari 1981.
Documento inserito il: 19/04/2016
  • TAG: regionalismo italiano, questione meridionale, atti parlamento, diritto regionale, statuto speciale, statuto ordinario, idea regionale, luigi sturzo, luigi carlo farini

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