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Tutti gli articoli di Franco G. Freda: dalla rubrica 'L'inattuale' di Libero [ di Ereticamente.net ]

Dalla rubrica "L'inattuale", su Libero del 9 giugno us
Ci sarà qualcuno pronto a considerare con onestà l’appello di Marcello Veneziani per la rigenerazione di ciò che, ovviamente semplificando, chiamiamo ‘destra’? Il suo scritto non manca di ragionevolezza. Il momento è perfetto per chi volesse – cito appunto Veneziani – “fare sul serio”. L’occasione d’oro. Non c’è più niente di decoroso, in giro. Da nessuna parte e di nessun colore. Squagliati gli uomini, squalificate le organizzazioni. Restano solo, sospese a mezz’aria, una rabbia vibrante e una nostalgia vaghissima. E una disperazione che non trova di meglio che pisciare cocaina e psicofarmaci nei fiumi. L’Arno, il Tevere, pure il mitologico Po portano i segni delle pasticche che la gente ingurgita a raffica per tirare avanti. Ma twittando twittando non è che si faccia molta strada – lo sanno tutti. Rovesciando bile sul web, come petroliere ebbre e devastate.

La finzione rischia di sostituirsi alla realtà. Il mentire a sé stessi all’azione. Finirà che gli uomini diventeranno fantasmi, preda a loro volta dei propri fantasmi, spettri all’ennesima potenza, e non è la guerra metafisica dell’‘oltre’ cantata ne “Gli incendiati” di Antonio Moresco. Qua si smuore piano, goccia a goccia (prostaticamente…); ogni giorno una diminuzione. A ‘destra’, ma pure a ‘sinistra’ – però quelli non meritano che ci diamo la pena di mortificarci per loro, tanto hanno mentito per decenni e celebrato la sguaiata gioia di avercela fatta a sopravvivere malgrado tutto. Malgrado, cioè, la resa del buongusto e dell’equilibrio etico alla scaltrezza più selvaggia, al risentimento più meschino. E, per giunta, senza fare praticamente mai “sul serio”. Ma non ci curiamo di Tersite, bruttoecattivo.
Passando, invece, tornando alla ‘destra’: come ha potuto trasformarsi nella pappa viscida che è oggi? Perché una ragione essenziale ci dev’essere e non è soltanto la captivitas diaboli, la carognaggine di certi suoi esponenti, invero piuttosto accentuata. Non è la nostalgia segreta del missino tipo: l’ambizione di essere lui e solo lui il Duce – quindi l’individualismo. Quello ha trovato il terreno fertile per esprimersi, sennò non avrebbe vegetato così rigoglioso. Il vero problema è che, per essere restituiti alla circolazione (monetaria?), i missini hanno rinnegato tutto. E così sono diventati niente. Cos’è Fini, oggi? La fine assoluta. Hanno più attrattiva i pettegolezzi sui suoi maneggi e disavventure familiari dei suoi programmi politici. E Fini è l’emblema di un mondo. Non a caso se l’erano scelto per capo.

Incredibile quello che è successo alla ‘destra’. Farsi scippare dalla ‘sinistra’ un tesoro di secoli, di millenni, maturato perfino nella vastità solenne di ere geologiche. Parliamoci chiaro: tutto quello che il genere umano ha fatto di meglio lo deve all’alchimia di una volontà ordinata e amica del vero più che dell’opportunismo. Alla tensione all’ordine, alla perfezione, che è il cardine del pensiero di una ‘destra’ illuminata e luminosa. Alla selezione severa, implacabile, del bello contro il brutto. Tutto quanto. Le colonne doriche, gli esametri di Virgilio (puro ritmo: cioè ordine, cioè rito). Gli endecasillabi di Dante, i boccoli biondi della Venere di Botticelli. Cosa ne possono sapere, capire, indovinare di Dante, di Virgilio, di Botticelli esseri che, non troppo tempo fa, usavano termini come “padronato”, formule come “masse popolari”? E la ‘destra’ se li è fatti fregare, il suo tesoro e il suo giusto orgoglio, solo perché quelli avevano vinto la guerra più recente. Probabilmente per lo shock. Per un incomprensibile complesso di inferiorità. Per la smania vigliacca di farsi accettare. Per essere ‘al passo coi tempi’, anche quando i tempi zoppicavano e inciampavano. Forse perché non si sono neppure accorti che Virgilio, Dante, Botticelli erano i propri paradigmi, il proprio miglior Io.

La ‘destra’ doveva stare, non mutare, non correre ad adeguarsi. Doveva continuare a contemplare le proprie idee. Anche senza parole: certo. Pontificalmente. Doveva essere, non convincere. “Mostrare, non dimostrare”. Effondere la propria autorevolezza con la serenità di chi sa respingere il dialogo, la dialettica, quando le sue premesse siano truffaldine. E fissare il proprio firmamento, precisarne la fisionomia, riconoscerne i canoni, raccontarne, senza volerlo a tutti i costi abbassare, implebeire. Entrare nell’agone politico imbracciando questa massima perfetta: “La politica dovrebbe essere la scienza che definisce le condizioni sociali più propizie alla percezione del valore e alla realizzazione di esso.” Questo è il vero compito, la vera maieutica, la vera ragion d’essere della cosiddetta ‘destra’: capire che cosa abbia valore, quindi che cosa sia il valore, capire come aprirgli la strada per la sua vittoria sul mondo. Non è facile, ma è l’unica meraviglia che possiamo offrire alla storia. Le altre sette sono già polvere, tranne l’ultima, la piramide di Cheope, irrimediabilmente contaminata.


Dalla rubrica "L'inattuale", su Libero del 23 giugno us

Sandro Bonvissuto, nel suo Dentro (Einaudi), prova a parlare del carcere.

Ne dà una descrizione dura, cupa, quasi strangolata dal male che ci trova, dentro. Un male fisico: di pietra, di cemento. Impastato del misto di sudori che imbeve i cuscini nelle celle e costringe il protagonista ad avvolgere il proprio con la maglia per potercisi appoggiare sopra e dormire. Tra le righe del racconto c’è tutta l’asfissia di dentro.

Non c’è, però, un’intelligenza completa di questo stranissimo inferno, troppo umano e troppo sconveniente da narrare. Perché il carcere è un’imprecazione: per quanto poco di straordinario ci sia lì dentro. È la conferma che la vita è sempre quella: caos e mucchio (a parte i miracoli in cui fidava il poeta meno illuso del Novecento, Montale). Mai che ti regali una scansione netta delle cose, per cui se non ti va bene il bianco c’è il nero a consolarti, a (cor)risponderti.

La galera è semplicemente grigia. Come il mondo di fuori. Non è che se fuori è lo schifo a imporsi, dentro ci siano quelli che, opponendosi allo schifo, siano diversi, di un’altra pasta. Proprio no. Di ottimismo e pietas è bene essere parsimoniosi. L’orrore della galera non è il muro, che Bonvissuto investe di un significato fatale. Non è il tempo immobile che può volgere in minuti i tuoi pensieri, come immaginava Shakespeare nel Riccardo II. È la fauna che pullula, dentro. Il mondo di fuori che si rovescia immutato, dentro.

Uno che ha letto Jünger: «Meglio un criminale che un borghese» - se gli capita di finire dentro, cosa fa? Si dispera? Macché. Pensa subito di poter organizzare una banda. Un seminario, addirittura, di ribellione. Sbagliato. Sbagliatissimo. Povero illuso. Il detenuto, il coatto, spesso è ancora più vigliacco e piagnone del suo alter ego di fuori. Sono tutti innocenti, dentro. Tutti vittime di drammatici errori giudiziari. Scorrono fiumi di lacrime, dentro. E fioriscono, vegetazione malata, le stesse invidie cieche di fuori: di un’aula di scuola, di un asilo, di un ufficio, di una faida familiare. Lo stesso malanimo, esaltato fino al parossismo dalla promiscuità. Striscia per i corridoi, incupendoli. Rende gli stanzoni irrespirabili. I muri li abbracceresti, purché ti separassero da tutti.

Per me, la beatitudine, in galera, è la cella singola. E la vera tortura è la nuova pedagogia che impone i momenti di socializzazione. Raccontare del carcere per filo e per segno vorrebbe dire sparare alzo zero contro tutte le teoriette attuali che rifiutano di ammettere che il carattere dell’uomo è il suo destino. Lasciare da parte la beata illusione che il bene si possa insegnare, indurre, anche in assenza di predisposizione naturale. Ecco, per questo Bonvissuto non ha proprio il fegato. O l’esperienza del malvissuto.

Preferisce disegnare graziosi arabeschi gnomici, sentenziosi, che però della notte del tremendo non raccontano nemmeno il crepuscolo e subito si disfano in nulla. Come quelle fiammelle, «vaghissime», che a San Vittore erano il codice dell’amore a distanza. Tra la sezione maschile e quella femminile c’era un cortile largo. Ci si vedeva appena, sagome deformate dai capricci delle mattonelle di vetro. Ma in carcere il bisogno è tanto e l’ingegno più che acuto.

Pari a quello di Puccini quando inventò la propria opera più buia, Il tabarro. Lì, la luce del fiammifero rischiara la desolazione dello scaricatore di porto e della sua vogliosa amante; poi tradisce lei, che si consegna al dentro del tabarro del marito per essere uccisa.

Là, in galera, l’accendersi del fiammifero comunica lo sbocco sorgivo del piacere, vittoria mutilata dalla distanza, dall’assenza. Infuocarsi, allora, non è retorica: è conio dantesco, come «imparadisare », «indiarsi», «inmillarsi ». È diventare fuoco, fuocherello, fuoco più fatuo che mai, fuoco di fiammifero, perché non c’è altro spazio dove stare, dove raccogliersi, tra i mille muri di dentro.


Dalla rubrica "L'inattuale", su Libero del 30 giugno us
Due massime sul frontone del tempio di Delfi, due precetti essenziali che il dio della compostezza, Apollo, offriva agli uomini: il celeberrimo «Conosci te stesso» e l’assolutamente negletto «Nulla di troppo». L’uno precisa e completa l’altro. Ora, «Conosci te stesso» è diventato uno dei motivetti di successo di oggi. Lo trovi dappertutto, inteso come istigazione a coccolarsi (e a dilatare a dismisura) il proprio io, con tutte le sue emozioni finzioni omissioni, e dimissioni. Figuriamoci i Greci. Se avessero solo sospettato che il loro diktat si sarebbe trasformato in un sospiro svenevole, lo avrebbero fatto fuori a colpi di scalpello. Damnatio memoriae piuttosto. Lo trovi sulle magliette, sulle riviste per signore, sulla facciata di un centro commerciale o sui finestrini del tram. E sempre scagliato nella direzione opposta rispetto a quella destinata dall’arco di Apollo.

Apollo, che mentre pizzica le corde della sua lira pensa a come seppellire di frecce un esercito. Non è certo un dio veniale, un dio leggero, un dio facile. Ecco quindi che «Conosci te stesso » ha un significato tanto preciso da essere acuminato e violento. Vuole dire: sappi chi sei e soprattutto chi non sei. Sappi che posto ti compete nell’armonia del mondo e della società. Sappi che se hai l’insolenza di crederti un dio uscendo dai ranghi (i ranghi essenziali), per te sono pronte morte, distruzione, follia cieca. Perché l’armonia sociale, umana, di cui Apollo, dio della suprema armonia, è pur sempre custode, non può sopportare il capriccio, la confusione. «Conosci te stesso»: fa ciò per cui sei nato, fino in fondo, senza vergogna e senza spavento. Accorda la tua ambizione al tuo destino. Impegnati a riconoscere i segni del fato, che accompagna la tua nascita e fissa il solco del tuo stare al mondo. Niente di più, «Nulla di troppo». «Ti ha scoperto, tuo malgrado, il tempo che vede tutto», dice il coro tragico a Edipo, il forsennato travalicatore.
Per secoli la sapienza si è impegnata a parlare di essenza, di destino: questo crinale che distingue e congiunge l’uomo e i suoi dèi, l’unico luogo in cui il divenire non smentisca l’essere e non si ponga come sua alternativa. E si sono precipitati, i sapienti, a consegnare all’uomo massime che gli insegnassero la compostezza e il rispetto: di sé nel tutto. «Conosci te stesso» significa riconosci il tuo miglior te stesso e, dinamicamente, opera in modo da raggiungerlo (la vita, in quest’ottica, è ricognizione che perviene a un riconoscimento). Certo, mai e poi mai vorrà dire fai la pace con le tue espressioni peggiori. «Nulla di troppo»: non farti contaminare dagli adescamenti di una vanità fatua quanto fragile se vuoi incamminarti sulla via per il «grande sì», il «grande stile», di là dalle regole ma nutrita di regole.

L’italianista Gianfranco Contini ha avuto un’espressione di rara felicità mentre parlava della poesia di Dante, una formula che può dire questo paradosso, questa alchimia classica nutrita di regole ma di là dalle regole: «il furore dell’esercizio».

«Conosci te stesso» è il recto. «Nulla di troppo» il verso. O viceversa. Cambierebbe qualcosa se sulle t-shirt si cominciasse una buona volta a stampare la massima dimenticata? Beh, pensate alle fanciulle che potrebbero sfoggiarla sopra una seconda di reggiseno...«Nulla di troppo».


Dalla rubrica "L'inattuale", su Libero del 7 luglio us
A qualcosa dovrà pur servire tutta questa roba che tanto vi incanta - fa una vocetta stridula fuori campo. Dico qualcosa di pratico, -aggiunge - di concreto. È sicuro che ci arrendiamo a lui, il demonietto. Che apriamo le braccia e ammettiamo che la sapienza e la bellezza, in fondo, non combinano proprio niente nel campo della materia. E invece no. A me basta aprire un vecchio catalogo Electa sull’arte giapponese e mi passa perfino il caldo. Meglio dell’aria condizionata. Dice Cristina Campo, addirittura, che una delle poche cose che vale la pena portarsi in galera per non impazzire sia un tappeto persiano, coi suoi mille simboli diventati arabesco. Non una scatola di ansiolitici. Buoni anche i tappeti tibetani antichi da preghiera, comunque.

Apri la finestra e senti il chiasso: la rabbia di gola del diesel, l’isteria dei clacson. Apri il catalogo d’arte giapponese e non senti più niente. Neanche te stesso; ed è per questo che le vendite dell’editoria sono in calo. Troppo individualismo, in giro, troppo narcisismo, troppa egolatria. Le vendite dei cosmetici non vanno mai giù: quelle dei libri precipitano. Certo, un po’ è anche che se ne stanno stampando di esageratamente indegni per non giustificare almeno in parte la disattenzione del lettore. Però non basta. L’imperatore di oggi, il popolo sovrano, tra la libreria e la profumeria manda a morte la libreria. E intanto soffre il caldo, suda e impreca.

L’imperatore giapponese, invece, era anche lui un poeta, come notava Abel Bonnard, già ministro dell’Istruzione nella Repubblica di Vichy, uno che di certe cose poteva proprio occuparsi data la quantità di elegia che ha ospitato in vita. Straordinario l’apologo che raccontava in un suo scritto: «L’imperatore Murakami volle sostituire un susino morto nel suo giardino. Ne vide uno che lo tentò, nel giardino di un poeta della corte, e lo fece trapiantare nel suo. Ma la figlia del poeta compose un poemetto, che lasciò attaccato a un ramo: “Poiché è l’ordine del Mikado, / obbedirò con la gioia più grande. / Ma che cosa risponderò / quando la capinera ritornerà / a chiedere della sua vecchia dimora?” Murakami rimase così colpito da quei versi che fece subito riportare l’albero al suo primo posto - e nulla è più giapponese di quest’aneddoto che riconnette l’uno all’altro: un susino, una fanciulla, una capinera e l’imperatore».

È inutile che, adesso, il termostato segni 31,5. Chi ci crede? Leggo un haiku: «Tre eravamo nella camera,/ una peonia, un usignolo, e noi due!» Si fa beffe di tutte le leggi della fisica, la bellezza! E vuoi mettere tra gli integratori salini e le dita d’oro del Buddha congiunte ad anello, a disegnare il simbolo che i matematici hanno assegnato all’infinito. I mandala: una vertigine concentrica. Le armature dei samurai, che se non sapessi cosa sono scambieresti per paramenti sacri (e lo erano, sacri, quando la guerra era ancora liturgia e non veniva affidata, com’è oggi, a prosaici bodyguard). L’acqua che fluttua intorno ai templi e alle pagode («Nobilissima è l’acqua» - echeggia uno dei nostri giapponesi, da leggere e rileggere, se possibile in originale: il greco Pindaro). L’acqua che scompone il mondo in miriadi di rifrazioni, mostrandocelo nella sua vera natura, effimera e fluttuante, e basta un colpo di vento a disperderlo. I fiori di ciliegio, miniature finissime sul codice della vita.

C’è uno schizzo fatto da Abel Bonnard che dice tutto di lui e tantissimo a noi. Raffigura tre barche a vela. Tre barchette quasi naÏf, dolcemente in fuga nella brezza. Ah, trovargli un porto a quelle tre vele! Nessun archistar si offre per il progetto? (A proposito, piccolo dubbio non proprio fuori tema: ci va o non ci va l’apostrofo tra «nessun» e «archistar»? Sarà maschile o femminile? Chissà. Magari è un neutro, via.)


Dalla rubrica "L'inattuale", su Libero del 14 luglio us
Clicca per EliminareGiurerei che Paola Ferrari, promotrice di un’avanguardistica crociata a colpi di carte bollate contro gli insulti che le venivano rivolti a quintali su Twitter, se beccasse adesso uno dei «filosofi dell’ottimismo» gli farebbe un occhio nero. «Filosofi dell’ottimismo» sono quei tipini convinti che parlano di naturale tendenza al bene dell’uomo, cui Georges Sorel, il grande ispiratore dei due duci dell’antidecadenza nel XX secolo (Mussolini e Lenin), rideva in faccia già ai primi del Novecento. Udite udite: «Nonostante quel che ruminano e affermano i filosofi dell’ottimismo, il genere umano non è assolutamente incline, per natura propria, a quanto sia nobile e maestoso.

Anzi, si potrebbe addirittura sostenere che la nostra autentica natura avverte una sorta di ripugnanza per il capolavoro, contro il quale essa scatena i propri istinti inferi più dissolventi. Ce lo insegna la storia: l’eredità dei grandi maestri non può essere a lungo custodita senza la tensione di una volontà che ha dell’eroico. Ciò che si chiama decadenza non è altro che l’erompere di tenebrose potenze originarie, primordiali, le cui manifestazioni ordinarie e volgari erano state provvisoriamente contenute, represse e soffocate da un ordine, artificiale, imposto dal Genio. Ne risulta che, nell’universo degli uomini, il vero è spaventosamente vacillante e incerto, mentre il nostro fondo maligno genera sempre il falso».

I filosofi dell’ottimismo di oggi certi argomenti non li possono proprio sentire. Pur con un’aria nera nera addosso, svolazzano senza tregua tra kermesse e festival e premi letterari, e fanno di tutto per un unico scopo: occultare ogni elemento «doloroso ma vero» dello scibile. Per loro non ci si deve permettere neanche di sospettare un’inclinazione alla malvagità del genere umano. L’uomo lo scompongono in mille variabili e complicazioni, i chimici truffaldini, finché si perde di vista completamente il punto di partenza. E quell’aria nera nera che hanno: perché? Ma per l’orrore delle circostanze: la scuola che boccia gli ignoranti crassi rinunciando a lottare per cavar oro dalle rape, la discriminazione, l’intolleranza, l’omofobia, il femminicidio (oltre che chimici sono pure alchimisti e ti scombiccherano dei neologismi da non credere, sofisticati e vuoti come loro), Berlusconi e le sue sollazzevoli istorie. Chi più ne ha più ne metta - di alibi. Perché l’uomo, prima di Berlusconi, prima di Mussolini, prima dei primi tiranni (dunque quando?), per loro era una pasta d’uomo, gioioso di farsi educare e ansioso di comprendere.

E se adesso è così canaglia su Twitter e su Facebook è per colpa della democrazia imperfetta, non perché così lo hanno fatto mamma e papà (che si chiamano, senza ombra di dubbio, l’uno, Tersite, l’altra Servetta Tracia). E abajo gli eroi: guai al paese che ha bisogno di eroi - tuona il profeta dell’ottimismo a ogni costo, ché gli eroi gli stanno proprio sullo stomaco (non sempre immune da ulcere e gastriti).

Ma chi sarebbero poi questi due padri ignobili della malignità moderna, questi due campioni invitti e un po’ svitati della Schadenfreude, la «delizia delle disgrazie altrui»? Tersite era lo storpio inguardabile che invidiava e oltraggiava i maestosi eroi omerici. La Servetta Tracia era invece la donnicciola che scoppiò a ridere di gusto quando vide il grande filosofo Talete, il capostipite del pensiero occidentale, cascare in un fosso perché troppo intento a guardare il cielo e a interrogarlo. Figuratevi che Nichi Vendola, un ottimista coi fiocchi, ebbe l’impudenza di indicarla come esempio da seguire (forse della famosa, e ormai insopportabile tanto è citata da tutti, «leggerezza» di cui parla Italo Calvino nelle «Lezioni americane»). Tersite e la truce Servetta Tracia: i velenosi ascendenti dell’uomo moderno. Be’, allora vediamo di non scandalizzarci troppo quando qualcuno, piuttosto, preferisce essere figlio di buona donna.

di Franco Freda
Documento inserito il: 08/01/2015

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