Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia, storia moderna: Ferdinando II, Leopoldo de’ Medici e la scienza toscana di epoca barocca
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Ferdinando II, Leopoldo de’ Medici e la scienza toscana di epoca barocca

di Davide Arecco


Nella Toscana della prima età moderna, l’attività scientifica inizia con l’interesse dei Medici a manifestarsi a partire soprattutto dalla seconda metà del XVI secolo, per certi aspetti più a Pisa che a Firenze. La grande svolta, senza ritorno, avviene tuttavia solo con il quinto Granduca, Ferdinando II (1610-1670), figlio di Cosimo II e di Maria d’Austria. Nella giovinezza, Ferdinando fa studi assai accurati sotto la guida della reggente Cristina di Lorena, che lo affida a validi insegnanti, fra i quali Matteo Neroni per la geografia, la storia e la cosmografia. Un altro maestro importante è lo scolopio Famiano Michelini, già allievo di Galileo, con il quale, studiando matematica e astronomia, il futuro Granduca scopre la scienza, appassionandosene molto presto. Il resto della preparazione riguarda le tecniche militari e la fede cattolica, in questo secondo caso per espresso volere della Granduchessa, devotissima. A completamento della sua educazione intellettuale, Ferdinando fa, nel 1628, un lungo viaggio, e in Italia e in Europa, visitando Roma, Napoli, il Santuario di Loreto, Bologna, Ferrara e Venezia, per poi spingersi nei territori dell’Impero asburgico a Vienna e Praga.
Da sempre interessato alle nuove scienze, Ferdinando colleziona nelle stanze di Palazzo Pitti raccolte di barometri torricelliani ed altri strumenti, per il proprio uso e diletto, segnalandosi presto come un munifico mecenate delle arti e della ricerca scientifica, e dedicandosi, personalmente, alle migliorie tecniche da apportare ai termometri. L’artificiale lo interessa, quanto il naturale. Egli, poi, arricchisce le ragguardevoli collezioni medicee di quadri, antichità, pietre dure, oreficeria e sculture già iniziate dai suoi predecessori, specialmente a seguito dell’arrivo a Firenze delle collezioni d’arte provenienti dal Ducato di Urbino, che comprendono la famosa Venere di Tiziano e il ritratto di papa Giulio II ad opera di Raffaello. Un amore per il Rinascimento che è un altro aspetto da sottolineare della cultura ferdinandea.
Nel 1633, al momento del processo romano a Galileo, presso il Tribunale dell’Inquisizione, il Granduca si adopera, in maniera energica e indefessa, affinché al fisico pisano venga riconosciuta la piena innocenza e sia lasciato libro di proseguire le proprie attività di ricerca scientifica, anche nello scottante settore della cosmologia eliocentrica. Invano, come noto. Dopo la condanna, da parte del Sant’Uffizio, Ferdinando continua, cautamente, a muoversi in difesa di Galileo – una politica della scienza, la sua, molto accorta e diplomatica, per non urtare l’altrimenti alleata Roma – puntando ad una revoca, o ad una attenuazione della sentenza. Ferdinando non smette in ogni caso di sostenere la scienza galileiana e di incoraggiarne la continuazione degli studi.
Nel 1642, il Granduca fonda la Accademia medicea sperimentale, prima istituzione scientifica toscana ed europea del XVII secolo, di cui rarissimamente gli storici odierni parlano e che in ambito fiorentino costituisce il preludio alla grande stagione culturale di poco successiva. Dodici anni dopo Ferdinando inaugura anche il primo servizio meteorologico, con la collaborazione del padre gesuita Luigi Antinori. Incoraggia e sostiene le ricerche di Francesco Redi, padre della biologia moderna, in seguito protégé del figlio Cosimo III, che, in Inghilterra, nel 1669, si procura a Londra libri di storia naturale, botanica, agronomia, selvicoltura e atlanti geografici.
Ferdinando II favorisce inoltre i traffici marittimi e la cantieristica navale, dando impulso al porto di Livorno e stipulando trattati commerciali con Inghilterra ed altre potenze europee. A partire dalla metà degli anni Quaranta del Seicento, il Granduca comincia a Corte una attività informale di sperimentazione, facendo rilevanti esperienze termo-barometriche, sulla pressione dell’aria e sulla producibilità materiale del vuoto. Misura inoltre l’umidità dell’aria con un igrometro da lui costruito e «la gravezza o la leggerezza d’una cosa liquida» con l’areometro, altro strumento di sua personale fabbricazione.
Intorno al 1650, nella Firenze medicea, Ferdinando II non si limita a patrocinare la scienza. E’ lui di fatto la scienza, negli spazi toscani granducali, favorendo pratiche sperimentali ed incontri di tipo intellettuale. Tutto il mondo scientifico fiorentino gli ruota attorno. Ferdinando è la stella polare di matematici e astronomi, fisici e naturalisti. Abilissimo con congegni e strumenti, sempre curioso e dal gusto enciclopedico – così tipico, si sa, di tutto il Seicento barocco – il Granduca è anche una figura chiave nella nascita italiana delle scienze della vita. Nel 1644, presso la serra degli agrumi di Boboli, fa sperimentare una sorta di prima incubatrice, artificiale, per la nascita dei pulcini, basata sulla temperatura rilevata tramite un termometro sessantigrado. Attività sperimentali nelle quali va ricercata l’origine storica dell’accademismo galileiano fiorentino di poco posteriore.
Ad aiutare, in modo diretto ed entusiasta, Ferdinando è il fratello Leopoldo (1617-1675), pure lui cresciuto da Maria d’Austria e Cristina di Lorena, da queste affidato, negli studi, allo scolopio Iacopo Soldano (allievo di Galileo come Michelini), ma soprattutto a Evangelista Torricelli, il quale fa conoscere in dettaglio al giovane Principe la geometria euclidea, l’atomismo antico, la statica e la meccanica razionale di Archimede, l’algebra ellenistica e le procedure tecniche della astronomia di osservazione. Leopoldo affianca il fratello Ferdinando, in tutto – legatissimi, l’uno all’altro – dalla gestione politica degli affari di Stato alle manifatture, dall’agricoltura ai commerci, dalla scienza al sapere tecnico ed artigiano dei pratici. Sul piano dell’attivismo culturale, l’affiatamento fra i due è veramente notevole e da precoci ed ottimi frutti in più campi.
Grandissimo appassionato e competente cultore di discipline scientifiche – come tutto il ramo granducale mediceo – il principe Leopoldo riforma nel 1638 l’antica Accademia platonica, facendo, dello stesso platonismo ellenico e rinascimentale, un’alternativa polemica alla sterile scolastica dei peripatetici e contrapponendo, alla desueta logica sillogistica, le applicazioni di fisica matematica e, dunque, la geometrizzazione della natura: ideale e modello, galileiano, appreso attraverso la lezione torricelliana. Leopoldo, segnatamente, sottoscrive quindi sin dagli anni giovanili un preciso metodo di indagine scientifica (tramite appositi strumenti, messi a disposizione dalla tecnologia di allora), a sua volta fondata sull’osservazione diretta dei fatti naturali e la loro riscrittura matematica, secondo i rigorosi canoni del galileismo toscano, di metà Seicento. Nel 1641, inoltre, Leopoldo viene eletto socio della Accademia della Crusca (lo sarà anche l’entomologo e naturalista Redi), ove egli svolge una importante funzione di reggente alle riunioni generali della società (dal 1650 al 1663), sovente dedicandosi al nuovo lessico scientifico, ed occupandosi con sommo scrupolo della preparazione di voci e lemmi concernenti le arti, per la terza edizione (1691) del Vocabolario. Impresa proseguita in seguito presso la curia romana, negli anni maturi e tardi della sua vita.
All’incirca dalla metà del XVII secolo, il Principe Leopoldo è, a Firenze, anche collezionista di libri (in prevalenza scientifici) molto rari – avvalendosi dell’aiuto del suo bibliotecario, Antonio Magliabechi – di dipinti (una ragguardevole collezione di pittori veneti), disegni, miniature, statue, apparecchi, utensili, monete e ritratti. Egli intrattiene, al riguardo, una fittissima rete di rapporti, con artisti ed artefici, agenti d’arte ed antiquari, viaggiatori e collezionisti, diplomatici e antichisti, oltre che con uomini di scienza devoti al nuovo metodo galileiano, teso a valorizzare oltremodo tecniche materiali e saperi manuali (uno schema in Inghilterra già baconiano). Di quelle relazioni intrattenute da Leopoldo, ci rimane un ampio ed utilissimo carteggio, capace di fornirci una rappresentazione ad un tempo mossa e vivida della sua personalità, e del suo mondo intellettuale, protesi, entrambi, nella ricerca costante ed inesausta della verità circa i fenomeni naturali e storico-artistici. Una vita, quella del Principe, tutta al servizio e dello Stato e della conoscenza, insieme, come, anche, nel caso di suo fratello Ferdinando.
Leopoldo si impegna con particolare intensità nel rivendicare, al suo casato, la grande eredità scientifica galileiana. Al legato di quest’ultima si ricollega anche la Vita di Galileo commissionata a Viviani e terminata nel 1654 (ma circolante a tutti gli effetti solo dal 1717). Leopoldo è magna pars pure nel promuovere ed allestire la prima silloge delle Opere di Galileo – comprendente testi editi, manoscritti e dei suoi oppositori – stampata a Bologna, fra il 1655 e il 1656. Il segno di un interesse per la diffusione indenne di scritti non graditi alla censura (un’operazione non certo facile) ed anche della coscienza di dover svolgere un’azione di sostanziale impulso alla libertà di ricerca, non senza accorgimenti e premure.
I materiali epistolari originari di Leopoldo, oggi dispersi, tra le biblioteche fiorentine – fra la Marucelliana e la Laurenziana, la Moreniana e la Riccardiana – ci riportano ad una corrispondenza che annovera, tanto gli esponenti delle gerarchie gesuitiche (come il felsineo Giambattista Riccioli, studioso di astronomia tolemaica e di ottica), quanto scrittori radicali e materialisti (come il poeta e matematico empolese Alessandro Marchetti, il traduttore già pre-illuminista del De rerum natura di Lucrezio).
Leopoldo ha poi, in generale, interessi vastissimi: non tralascia nessuna possibilità di entrare in possesso di libri e di opere a stampa, in prima edizione originale, impiegando i propri contatti – a Parigi, il residente toscano, Ferdinando Bardi – per allacciare relazioni culturali con gli ambienti di altri Stati europei. La casa olandese di Blaeu, per esempio, è da Leopoldo utilizzata come il punto di riferimento e di accoglienza dei fiorentini inviati dalla corte medicea in Olanda. Tra coloro i quali vi trovano ospitalità sono i bibliotecari Francesco Riccardi e Alessandro Segni, dopo di loro funzionari e viaggiatori, come Lorenzo Magalotti e Paolo Falconieri. Nel 1671, Leopoldo invia ad Amsterdam il suo bibliotecario ufficiale, il canonico Lorenzo Panciatichi – alle dipendenze dei Medici dal 1666 – ma il compito d’arricchire veramente le collezioni librarie di Leopoldo spetta al solo Magliabechi, unico vero responsabile degli acquisti di libri per tutte le raccolte del casato mediceo. Magliabechi è fra l’altro colui che metterà in contatto il suo Principe con Montfaucon e con i benedettini e maurini francesi. Secondo la testimonianza proprio di Magliabechi, la biblioteca di Leopoldo si qualifica, al pari di quella del Granduca, come «la più copiosa per quantità, la più universale per la varietà e la più insigne per la qualità de’ libri che qua si ha» (Lettera a Angelico Aprosio, Firenze, Biblioteca Nazionale, Magl., X.63, cc. 1v-2r). Non a caso, oggi, i libri appartenuti al Principe sono collocati a Firenze nel Fondo magliabechiano della Nazionale.
Gli interessi leopoldini per la scienza e la cultura libraria trovano una ulteriore conferma nelle note e negli appunti dedicati dal Principe ad evidenziare le presenze bibliografiche più interessanti nell’Index Librorum Prohibitorum di papa Alessandro VII, stampato per le cure del segretario della Congregazione dell’Indice (Vincenzo Fano) nel 1665 e in edizione aggiornata nel 1670. Al riguardo le tangenze con la tradizione libertina seicentesca – vivissima, nel Granducato di Toscana – saltano all’occhio: Leopoldo comprende appieno che a rendere stimolante il possesso e la lettura d’un libro è, paradossalmente, proprio la sua proibizione. Meccanismi tipografici e intellettuali destinati, come dimostrato da Robert Darnton, a riprodursi nel Settecento illuministico francese, attraverso i canali librari della stampa clandestina.
Leopoldo da, quindi, un contributo di assoluto primo piano alla costituzione delle raccolte del casato mediceo. Queste ultime, a cominciare da quelle dei Granduchi Ferdinando II e Cosimo III – anche se, ufficialmente, i bibliotecari sono dapprima Francesco Rondinelli e poi Alessandro Segni – si ingrandiscono, quando, a tenere le fila delle operazioni, è, dagli anni Sessanta circa del Seicento, soprattutto il Magliabechi. La prima testimonianza di acquisti librari da parte di Leopoldo risale, per tramite di Bardi, in Francia, al 1638. Secondo la testimonianza di Magliabechi, il Principe mette poi la propria biblioteca, scientifica ed erudita, a disposizione, con tutti i suoi libri, di dotti ed uomini di scienza. Testi a stampa, manoscritti, opere d’arte ed esperimenti scientifici e tecnici: sono queste le quattro pietre angolari della cultura di Leopoldo, dei suoi gusti di Principe eclettico e raffinato, ogni volta interessato e curioso in particolare verso le più recenti novità del mercato.
Alle origini dell’Illuminismo toscano settecentesco – così come dell’accademismo britannico, incarnato dalla Royal Society – sta la più illustre creatura, sul piano istituzionale, dei Medici, ossia l’Accademia del Cimento, nata a Firenze il 19 giugno 1657 sotto la guida e per impulso di Leopoldo e di suo fratello, Ferdinando II. E’ Leopoldo, ammiratore di Galileo, a chiamarne uno dei migliori e più stretti collaboratori, Vincenzo Viviani. Le adunanze del Cimento avvengono a Palazzo Pitti, o ai Giardini di Boboli. Rispetto ai Lincei e ad altre istituzioni accademiche di tipo filosofico-letterario, il Cimento presenta vari aspetti, caratteristici: il lavoro organizzato, gli incontri per discutere e fare esperimenti, la diffusione del sapere (ideale, in Inghilterra, già baconiano). Sono proprio Leopoldo e Ferdinando a favorire ed incoraggiare un lavoro d’équipe, progettato e coordinato da membri i quali condividono gli stessi interessi scientifici, e la comune adesione al metodo galileiano. Col Cimento, la sperimentazione diventa pubblica e i risultati delle prove di laboratorio devono possedere valenza inter-soggettiva. Nella pratica scientifica comincia a fare capolino il forte attrattore dell’uso sociale, paradigma in Inghilterra già puritano e tipico poi del Settecento illuminista.
Grazie all’azione di Ferdinando ed ancor più di Leopoldo, la tradizione scientifica galileiana e la protezione medicea vanno, nell’Accademia del Cimento, di pari passo, sino all’affermarsi di una autentica ideologia dell’esperimento, per riprendere qui la definizione di Paolo Galluzzi. Accademia di corte, il Cimento viene usato, dalla famiglia medicea, anche come luogo di intrattenimento per gli ospiti – sia viaggiatori sia diplomatici in visita dall’Europa– configurandosi come un’adunanza resa concorde dalla virtù del suo Principe ed insieme come un efficace strumento di pubbliche relazioni con l’estero: i viaggiatori che scendono negli antichi Stati italiani non mancano mai di recarsi nella Toscana granducale e, nella fattispecie, a Firenze. Leibniz vi incontrerà Magliabechi tra il 1689 ed il 1690, per parlare con lui di libri scientifici e ricerche storico-genealogiche.
Fanno parte della Accademia del Cimento, oltre al Viviani, i fiorentini Roberto Dati, Paolo e Candido Del Buono, l’aretino Francesco Redi, il senese Alessandro Marsili, il napoletano Giovanni Alfonso Borelli, il calabrese Paolo Uliva e l’anconetano Carlo Rinaldini. Ne sono, inoltre, membri corrispondenti il romano Michelangelo Ricci, il ligure Giandomenico Cassini, il livornese Donato Rossetti, il modenese Geminiano Montanari e il danese Nicolò Stenone. Una geografia italiana e nel medesimo tempo trans-nazionale, inserita all’interno del movimento scientifico europeo dell’epoca: mediante le lettere di Cassini, Thévenot e Finck, l’Accademia comunica, all’intera Repubblica delle Lettere, metodi e risultanze delle proprie esperienze di laboratorio. Queste hanno, come oggetto, gli effetti del vuoto, la pressione dell’aria, il congelamento dei liquidi, la propagazione di suono e luce, le proprietà del calore, i fenomeni magnetici e le attrazioni elettriche, la lavorazione dei vetri – nello specifico quelli per cannocchiali e microscopi – e i fenomeni atmosferici e meteorologici. Nel 1660, gli accademici raccolti attorno a Leopoldo e Ferdinando si occupano altresì di astrofisica, specie del sistema di Saturno – che Galileo, a causa della limitata portata ottica del suo telescopio, aveva visto, nel Sidereus Nuncius (1610), ‘tricorporeo’ – chiamati a fare da arbitri, nella contesa sorta attorno al pianeta degli anelli fra il cartesiano Christian Huygens (1629-1695) e il gesuita Honoré Fabri (1607-1688), tra Province Unite e Francia luigiana.
Il motto del Cimento fiorentino è l’emistichio (dantesco) provando o riprovando – attenzione all’avversativa, che indica, a chiare lettere, il modo di procedere del gruppo toscano – redigendo, di ogni esperimento fatto, apposite tavole, oggi importanti anche sul versante iconografico-illustrativo e artistico. Registrandoli nei fogli di diari manoscritti in seguito confluiti per lo più nella Biblioteca Palatina, i soci della Accademia fiorentina dedicano tesori di energia a scienze quali la matematica, l’astronomia, le meccaniche celesti, la fisica, la geometria applicata, l’acustica, l’ottica e i colori, la statica e l’idrostatica archimedee, la termo-dinamica, la storia naturale, la paleontologia e le scienze della Terra, la fisiologia umana, animale e vegetale. Nessuna branca del sapere, pertanto, è esclusa e la stessa ricerca bio-medica porta, con Borelli, al sorgere della iatro-fisica, seguendo le indicazioni manoscritte già fornite da Galileo nel primo Seicento, specie all’Università di Padova.
Tra i vari soci della Accademia del Cimento, Paolo Del Buono, ingegnere minerario ed uomo dalla cultura molto vasta, è forse tra i maggiori corrispondenti di Leopoldo. Nel suo carteggio con il Principe toscano, si ostina peraltro a chiamare l’accademia con il nome aristotelico di Liceo. Redi è medico di corte – anche in seguito, dal 1670, al servizio di Cosimo III – nonché poeta. Alessandro Marsili, lodato da Galileo, è invece professore di filosofia nello Studio di Pisa, nonché membro più anziano del gruppo. Rinaldini, lettore di filosofia a Pisa e difensore di Galileo e di Gassendi, autore di importanti prove di carattere sperimentale sul calore e la sua misurazione, è colui che prepara, da erudito di razza, il primo elenco di libri che costituisce (per volere del principe Leopoldo) il nucleo originario dell’ampia biblioteca su cui può contare il Cimento. Antonio Uliva rimane, senz’altro, la figura più misteriosa. Teologo e scienziato, professore di medicina e fuorilegge, promette un trattato sui fluidi che non è mai stato rinvenuto, né manoscritto, né a stampa. Forse non lo scrive veramente mai, e la sua resta una semplice intenzione, frustrata poi dalla morte improvvisa e tragica: si suicida infatti a Roma, dopo esservi stato imprigionato dall’Inquisizione, per aver sostenuto tesi considerate dai domenicani empie e contrarie alla religione cristiana.
Indubbiamente, dei membri del Cimento, è Borelli il personaggio di maggiore spicco, inoltre fra i primissimi in tutta Europa a pensare di unire meccanica terrestre e dinamica celeste, in anticipo persino su Newton, a Cambridge. Viviani, da parte sua, si impegna nella divinatio del V Libro delle Coniche di Apollonio e ha innumerevoli scontri con Borelli. Le loro discordie interne finiscono per minare non poco l’esistenza interna del Cimento. Entrambi sono in effetti troppo talentuosi e geniali per andare d’accordo, e convivere entro la stessa società scientifica. Questa, tuttavia, porta avanti un programma di lavoro e ricerca scientifica all’avanguardia, con particolare attenzione soprattutto in campo pratico ed applicativo (lo sviluppo delle differenti tecniche). La costruzione degli strumenti scientifici rappresenta una priorità assoluta, per i membri del Cimento. Matematica ed esperimento si presentano, ai loro occhi, come cardini e punti fermi, nelle indagini de rebus naturalibus. Eredità, solo un lustro più tardi, raccolta in Inghilterra dalla Royal Society londinese, protetta da Re Carlo II Stuart dopo la Restaurazione monarchica.
Mentre protegge ed incoraggia gli accademici del Cimento, Leopoldo corrisponde circa gli usi e le proprietà dell’argento vivo con Thévenot e ridiscute, sempre per lettera, con Huygens, in merito alle applicazioni del pendolo agli orologi – rivendicando la priorità dell’idea a Galileo, il quale nel 1637 aveva definito, per primo, le leggi dell’isocronismo – e partecipa, in stretta collaborazione con Redi, alle ricerche sperimentali sulla generazione degli insetti, senza più credere all’aristotelismo. Il massimo risultato viene tuttavia raggiunto dal Cimento con Borelli: Leopoldo si da da fare per avere l’autorizzazione alla stampa di uno dei più importanti (e misconosciuti) libri scientifici del Seicento, le borelliane Theoricae Mediceorum planetarum edite a Firenze superiorum permissu nel 1666, di lì a pochi anni acquistati dall’inglese John Collins, e da questi fatte circolare in Inghilterra: se ne trova copia (annotata in margine) nella libreria di Newton, che ne fa uso non secondario, per formulare le leggi dell’attrazione. Le Theoricae, stampate da Borelli mentre insegna matematiche a Pisa, sono un omaggio indiretto a Galileo, ed una attestazione di (implicita) accettazione del copernicanesimo. In esse, di fatti, si fondono mirabilmente – tra dissimulazione, riscrittura e auto-censura – l’astronomia eliocentrica ed ellittica di Keplero ed il magnetismo di Gilbert, riferito al nostro pianeta, del quale si suppone, tacitamente, la rotazione intorno al Sole centrale nel cosmo. Come già nel Dialogo sopra i due massimi sistemi di Galileo, anche le pagine del trattato borelliano smontano le argomentazioni neo-aristoteliche contro il moto terrestre.
Nelle riunioni dell’Accademia del Cimento, l’audacia sperimentale supera di gran lunga una – altrimenti necessaria, vista la condanna del copernicanesimo – prudenza modellistica. Le teorie, di fatto, sono bandite e ad interessare davvero sono solo gli esperimenti. Questi, frutto di prove, fatte a mezzo degli strumenti, vanno, per gli uomini di scienza fiorentini, e diffusi e comunicati. I Saggi di naturali esperienze pubblicati dal diplomatico ed erudito Lorenzo Magalotti nel 1667 – subito dopo lo scioglimento del gruppo, con l’assunzione da parte di Leopoldo della porpora cardinalizia e il suo trasferimento a Roma – sono, raccolti da colui che è stato il segretario dell’accademia, in assoluto la prima opera scientifica a stampa scritta da più autori (i singoli esperimenti non sono firmati, al fine di rafforzare in modo esplicito l’identità collettiva del sodalizio). L’idioma dei Saggi è descrittivo e preciso, limpido e chiaro, con massima attenzione riguardo alla sperimentazione, e nessuna a idee di stampo metafisico. Il linguaggio, fra tardo Barocco e classicismo, racconta gli esperimenti, perfetto e oggettivo, cercato con cura e calibrato con accurate scelte terminologiche. I Saggi furono un libro assai influente, ristampato a Napoli da Raillard nel 1714 e tradotto in inglese da Richard Waller, nel 1684, a Londra presso Alsop (senza dimenticare l’edizione latina dei Verbeek a Leida nel 1733, con traduzione dall’inglese in latino del newtoniano olandese Peter Van Musschenbroek, ripubblicata in parte ancora tra il 1754 e il 1755).
A proposito dei Saggi magalottiani, va rimarcato che si tratta di una silloge posteriore. La sola ed unica pubblicazione del consesso scientifico fiorentino vede la luce, inevitabilmente, con ritardo, rispetto all’effettivo svolgersi degli esperimenti (barometrici, medico-naturalistici, meteorologici, pneumatici, circa l’arte vetraria, astronomici). Oggi, l’originale di Magalotti è divenuto esemplare abbastanza raro, anche perché diverse copie del volume sono andate perdute. Anche per via di ciò, Giovanni Targioni Tozzetti ne promuoverà una stesura a mano, nel 1762. Lo stesso storico, a partire dalla fine del XVIII secolo, è fra i primi a segnalare l’importanza dei manoscritti esistenti relativi al Cimento, conservati oggi nella Nazionale di Firenze. Essi ci danno la misura di come sia fuorviante considerare l’esperienza accademica fiorentina solo in rapporto ai Saggi magalottiani. Occorre – più di ogni altra cosa – guardare al contesto socio-culturale e alle connessioni politico-istituzionali del Granducato mediceo poco dopo la metà del Seicento, fra l’autunno del Rinascimento e la nascita del Barocco.
La stessa accademia, voluta e protetta da Leopoldo e Ferdinando, avrà una notevole influenza, sulla Repubblica delle Scienze, tra XVII e XVIII secolo. La ricerca dell’oggettività del linguaggio in particolare diverrà un tratto saliente della comunicazione scientifica. Quanto all’anonimato, esso è imposto da Leopoldo, per rimarcare il carattere impersonale e comunitario dell’impresa scientifica e tecnica, al di là ed al di sopra della priorità individuale nelle singole scoperte e di interessi di parte dei ricercatori. Ad essi, il Principe preferisce la pratica condivisa nell’indagine fenomenica, da parte di fisici e matematici, astronomi e naturalisti: pratica che è la ragion d’essere del Cimento, il motivo per cui è sorto, nelle intenzioni medicee. Lo stesso accadrà, a Londra, con la Royal Society, e con le sue Philosophical Transactions: gli sviluppi scientifici possono risultare utili anche allo Stato e alla società, con ricadute materiali e concrete da non sottovalutare. Con i Medici, lo Stato sostiene ed in maniera diretta la scienza e patrocina le attività tecniche, in vista della ‘pubblica felicità’, il grande mito dei Lumi italiani (e non solo). Si tratta di scelte legatissime alla figura di Leopoldo, sottoscritte dal fratello Granduca, scelte a ben guardare senza precedenti nella storia della scienza e dei rapporti fra cultura e potere. Leopoldo intuisce infatti, per primo, l’utile necessità di una rinnovata comunità intellettuale e contribuisce a forgiare la politica della scienza, destinata a grande maturazione, fra il XVII e il XVIII secolo, non solo in Toscana. Grazie ai Medici, l’uomo di scienza diventa pertanto il professionista al servizio dello Stato. La scienza stessa viene istituzionalizzata nel Granducato pure per legittimare la figura forte di un nuovo operatore intellettuale: un attore storico-sociale che, con il XIX secolo, assumerà – nel Regno Unito, prima ancora che altrove – il nome di scienziato. Tramite la dinastia medicea, nella Firenze pre-illuministica, quella scientifica diventa la voce più importante del mondo culturale, ascoltata, e persino vezzeggiata, dalla politica. Un processo certo controverso, ma anche la conferma che qualcosa sta mutando, rispetto all’età precedente. Il modello fiorentino di Leopoldo e Ferdinando viene non a caso presto esportato, in Europa. L’organizzazione del lavoro di ricerca all’interno dell’Accademia del Cimento funge da modello e ispirazione, per Londra e Parigi, tra il 1660 e il 1666. In Inghilterra, in particolare, i virtuosi e i natural philosophers già intravedono, nella forte partecipazione statale alla crescita del sapere scientifico, la possibilità di realizzare ora la vecchia utopia baconiana, tratteggiata nella Nuova Atlantide (1624): una nuova società guidata dalla scienza e dalle sue applicazioni pratiche, un paradiso della tecnica al servizio dell’uomo. Un ideale che per gli Inglesi è altresì fortemente religioso e sorretto dalla teologia anglicana.
All’interno dell’Accademia del Cimento, fare scienza è più di tutto catalogare induttivamente segni generati da strumenti. Moltissimi di questi ultimi, oggetti dal pronunciato valore testimoniale ed euristico, vengono non solo impiegati, ma assai spesso anche costruiti da Ferdinando II stesso. Il Granduca è, infatti, un abilissimo e paziente fabbricante di areometri a sfera, cannocchiali terrestri, calamite armate, termometri – a fiala, cinquantigradi, a grappolo, con liquido colorato – igrometri a condensazione, lenti per i telescopi, tubi ottici, globi celestri e macchine calcolatrici (sul modello di quella francese di Pascal). Anche dopo la fine del Cimento, Ferdinando non si arrende e continua ad incoraggiare, almeno sino al 1669, esperimenti e soprattutto contatti epistolari fra gli ex membri. Lo attestano i suoi carteggi con gli uomini di scienza granducali, i loro colleghi ed epigoni italiani, tutti seguaci sul fronte del metodo scientifico del galileismo toscano. La Firenze medicea è in effetti – ed in parte rimane, tra svariate difficoltà, ancora nel primissimo Settecento – il centro di irradiazione e coordinamento istituzionale delle pratiche sperimentali, nella penisola italica. Le Esperienze fisico-meccaniche dell’inglese Francis Hawksbee (1660-1713) appaiono a stampa, grazie all’azione della cerchia (napoletana e romana) dell’abate Celestino Galiani, nella capitale del Granducato nel 1716 e restano il libro di scienza che traghetta, in via definitiva, il galileismo in direzione della astronomia gravitazionale newtoniana britannica, accettata alla corte papale anche dai Gesuiti. Boscovich, fra il 1740 e il 1748, sarà – con i suoi studi di ottica, fisica e geometrica – uno dei massimi e più originali alfieri ignaziani, nella Roma del papa re, del newtonianesimo italiano e continentale.
Leopoldo, una volta creato cardinale, da Clemente IX, compie invece frequentissimi viaggi da Firenze a Roma, ove non perde mai un’occasione per portare avanti i propri interessi scientifici. Fra l’altro, a Roma, egli entra anche in contatto con il cenacolo accademico che si raccoglie attorno alla ex Regina Cristina di Svezia – giunta nella capitale pontificia, nel 1654, dopo essersi convertita dal luteranesimo alla fede cattolica – patrona di matematiche e fisica, architettura ed alchimia. Da parte sua, Leopoldo, in qualità di cardinale, avvia trattative private con i Gesuiti del Collegio romano, per provare a riabilitare la figura e l’opera di Galileo, vanamente. Fra il dicembre del 1669 e l’aprile del 1670, partecipa anche al conclave da cui esce eletto Clemente X. A Roma poi, Leopoldo arricchisce in modo ulteriore le proprie collezioni personali di libri e di oggetti scientifici, con reperti museali da lui mandati alla corte medicea. I suoi quadri si trovano oggi agli Uffizi e nel Corridoio vasariano, mentre le strumentazioni scientifiche – fra cui la lente ed il cannocchiale usato da Galileo tra il 1609 ed il 1610, il giovilabio ed altre macchine, utilizzate nelle adunanze della Accademia del Cimento – all’Istituto e Museo di storia della scienza, oggi Museo Galileo.
Nel 1668, all’indomani della chiusura del Cimento, Leopoldo offre poi protezione e appoggio a Francesco de’ Nazari, per la stampa romana del primo Giornale de’ Letterati, uscito dai torchi di Tinassi. Nato per mettere il pubblico romano al passo con la cultura europea e ricalcato sul modello del Journal des savans ed ancor più delle Philosophical Transactions, il Giornale ha fra le sue linee editoriali guida anche quella di «cristianizzare Democrito», ossia illustrare l’atomismo – una voce di prim’ordine, si sa, in seno alla scienza moderna – secondo una chiave di lettura (analoga in fondo all’operazione svolta allora da Gassendi, entro la comunità scientifica francese) che non collida con la tradizione del cattolicesimo italiano. Un tentativo, singolarissimo, di unire la nuova cultura con la Contro-riforma post-tridentina. Dietro a questo sogno impossibile, coltivato da Leopoldo e Cosimo III in particolare, riposa una delle più significative contraddizioni della nostra età barocca. A Roma, dopo la fine dell’esperienza del Cimento, Leopoldo ritrova pure, fra gli uomini di scienza che fanno corte a Cristina, Borelli, ora coinvolto in studi di vulcanologia e zoologia meccanicista. Il De motu animalium, in due tomi, viene pubblicato proprio nella capitale degli Stati della Chiesa, fra il 1680 e il 1681, punto di approdo della tradizione iatrofisica seicentesca avviata dal Cimento mediceo.


Nell'immagine, ritratto di Ferdinando II de' Medici eseguito da Sustermans nel 1653.


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Documento inserito il: 02/12/2023
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