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Esplorazioni scientifiche e geografie dell’immaginario: il mito dell’Eldorado dal Cinquecento al Settecento

di Davide Arecco


In quel regno di Abchas vi è una grande meraviglia. Poiché una intera provincia del paese, i cui contorni lontani distano ben tre giorni di viaggio, e che la gente del luogo denomina Hanyson, è per intero sommersa nelle tenebre, senza il fulgore della più piccola luce, cosicché nessuno vi si possa fare vedere o sentire e niuno possa accedervi. Nonostante ciò, la gente del posto dice non di meno che talora essi sentono giungere dalle tenebre voci umane e nitriti di cavalli, nonché canti di uccelli. E la gente sa che in quel buio abitano degli uomini, sia pure senza sapere di quale genere. Essi raccontano altresì che le tenebre caddero poi dopo un miracoloso intervento divino. Dato che un imperatore cattivo della Persia, di nome Saures, perseguitava e duramente tutti i cristiani, al fine di annientarli o costringerli a sacrificare ai suoi idoli, a cavallo di un possente esercito, dovunque egli arrivasse portava rovina al popolo di Dio. Ma, giunto nel regno, cadde su di lui la tenebra e in eterno egli ancora vi cavalca, alla guida dei suoi soldati, nella vana ricerca di ogni via di fuga da quel buio eterno.

Sir John Mandeville


Un vero scienziato non può credere ciecamente a ciò che non può essere provato. Devo invitarvi, tuttavia, a non commettere l'errore opposto: quello di rifiutare a priori una spiegazione solo perché, a prima vista, appare impossibile. Molto di ciò che a un uomo del Medio Evo poteva apparire come stregoneria è oggi realtà scientifica. Nulla esclude che, per gli uomini del prossimo millennio, diventi naturale ciò che a noi oggi ancora appare soprannaturale. [...] Un detective dell'impossibile deve misurarsi con i fatti, esattamente come un vero detective di fronte a un caso poliziesco: senza prevenzioni, ma anche senza ipotesi precostituite.

Andrea Carlo Cappi


Nella prima età moderna, tre furono i grandi fattori che misero in moto l’apertura di spazi e di rotte geografiche, gli avventurosi viaggi di esplorazione e scoperta, in terre prima sconosciute, nella fase di passaggio dal mare tenebrosum dei medievali – i quali concepivano soltanto la loro Europa, le coste africane e il vicino Oriente – ai luoghi atlantici. Il primo motore storico fu religioso, legato al desiderio di entrare in contatto con altri popoli da evangelizzare, convertendoli al cristianesimo di Roma: nacque, così, il viaggio missionario, ad opera specie dei Gesuiti. Il secondo motore fu quello di carattere economico, e marittimo-mercantile, collegato alla ricerca di nuove vie di sbocco, per le merci ed i traffici. Il terzo, sovente assai trascurato dagli storici (tranne che da quelli della cultura) fu di tipo intellettuale, legato, cioè, al fascino verso l’ignoto ed il mistero, di terre leggendarie e di continenti perduti, il cui mito, in Occidente, rinacque a nuova vita, a seguito – naturalmente – della scoperta dell’America, nel 1492. Un potente aiuto materiale ed incentivo ai viaggi di esplorazione e di scoperta geografica giunse, a sua volta, altresì, dalla coeva e determinante crescita delle scienze e delle tecniche, in prevalenza astronomiche, nautiche e cartografiche, con mappe più precise, rispetto al passato, nonché la possibilità di tracciare, ad uso dei naviganti e marinai, rotte matematicamente più sicure, se confrontate con l’epoca storica precedente. Restava il (pluri-secolare) problema della esatta determinazione della longitudine, in mare aperto, vivo almeno dai tempi di Tolomeo, motivo per il quale a lungo la navigazione si era mantenuta per lo più sotto costa, prudentemente, senza mai o quasi spingersi nell’oceano sconfinato di una Terra, per molto tempo, ritenuta ancora piatta. Solo a metà Settecento, l’orologiaio e meccanico autodidatta John Harrison avrebbe risolto in Inghilterra, osteggiato peraltro dai fellows della Royal Society e nella fattispecie da Nevil Maskelyne, del Royal Observatory di Greenwich, l’annosa questione del punto-nave coi suoi tre cronografi marini.
Sin dalla fine del XV secolo, spingersi ove nessun uomo è mai giunto prima fu l’ambizione di tantissimi esploratori, navigatori e geografi. Al fascino dell’ignoto si unì, presto, la bramosia per le ricchezze di cui si favoleggiava nei porti atlantici europei. L’immaginazione, inoltre, drappeggiò da subito le terre occidentali sconosciute con il manto della malia e dell’incanto, spingendo non pochi, tra esploratori ed avventurieri, ad intraprendere, vanamente, la ricerca di antichi e perduti continenti scomparsi e terre da sogno. A partire in particolare dal 1530, per svariati decenni e, perlomeno, due secoli, le ricerche di una leggendaria città d’oro al di là del mare ad ovest si indirizzarono dapprima in Venezuela e quindi in Colombia. Qui, nel 1536, fu coniato per la prima volta il termine Eldorado: l’esploratore e conquistador spagnolo Sebastiàn de Belacàzar (1480-1551) localizzò la città presso l’odierna Bogotà. Tre anni dopo, tre diverse spedizioni raggiunsero il sito: la sua, quella di Gonzalo Jiménez de Quesada (1509-1579) – che ne reclamò il primato, nella scoperta – ed infine quella del tedesco Nikolaus Federmann (1501-1542). Nessuno tuttavia trovò tracce di riserve auree e gli indios Chibcha furono sterminati. Da allora, la ricerca dell’Eldorado si spostò altrove, segnatamente sulle rive del misterioso ed enigmatico Lago Parime. Vi vennero inviate molte spedizioni, tra cui quella del militare e governatore spagnolo Antonio de Berrio (1527-1596). Quest’ultimo, tra 1583 e 1595, fu tre volte sulle pianure precolombiane e lungo l’alto corso dell’Orinoco.
Ancora più importanti, di lì a breve, furono le spedizioni inglesi. Il navigatore e letterato della corte tudoriana Walter Raleigh (1552-1618) cercò l’Eldorado nel 1594 e nel 1617, sempre risalendo l’Orinoco, per spostarsi da lì in Venezuela e Guyana. L’esploratore Robert Harcourt (1574-1631) si spinse nel 1609 anche lui in Guyana, mentre solo due anni dopo il diplomatico e grande viaggiatore Sir Thomas Roe (1581-1644) si recò, più a sud-est, nel Suriname. Da allora, l’interesse seicentesco per la mitica città d’oro scemò un poco, a favore di esplorazioni geografiche – con inglesi, francesi, olandesi e svedesi – maggiormente rivolte all’America centro-settentrionale (Columbia britannica e Nuova Scozia, in primis). Nel XVIII secolo, anche sulla scia delle ricerche storiche ed etnografiche, in Francia e non soltanto, promosse dalla cultura dei Lumi, l’interesse per l’Eldorado si ridestò e fu di nuovo vivissimo. La bramosa ossessione per le ricchezze si spense, in favore di più genuini e veri interessi scientifici, naturalistici e cartografici (intere coste e zone interne del Nuovo Mondo, allora, ancora erano da mappare). Ne costituisce un esempio la spedizione – in Guyana, ancora una volta – del medico e chirurgo tedesco Nicholas Horstman (1739), del soldato e governatore iberico Manuel Centurion (1740) e dell’esploratore e geografo spagnolo Antonio Santos (1775-1780). Fra il 1799 e il 1804, vi fu il lustro di grandi spedizioni scientifico-geografiche dei naturalisti anglo-scozzesi, così come tedeschi, fra i quali Alexander Von Humboldt (1812-1824), Charles Waterton (lo scrittore che ispirò gli studi geo-paleontologici di Alfred Russell Wallace) e di Robert Schomburgk (1835-1841), matematico e topografo finanziato dalla Royal Geographical Society di Londra.
L’Eldorado venne quindi cercato, per tre secoli, nelle aree settentrionali del Sud America, non senza meno frequenti esplorazioni nelle zone centrali dell’America meridionale, tra la Bolivia ed il Brasile odierni. Nel 1541 Francisco Pizarro conquistò il Perù, ponendo di fatto fine alla civiltà degli Incas. Suo fratello Gonzalo, coadiuvato dal luogotenente Francisco de Orellana, partì da Quito, alla volta e del Brasile e delle coste atlantiche. La spedizione, presto decimata e sfinita, costeggiò il Rio delle Amazzoni, attraversando, per intero, i territori brasiliani ed arrivando sulla costa orientale, nel 1542. Un viaggio lungo ed estenuante, e senza trovare traccia dell’Eldorado, anche se diversi Indios incontrati lungo l’incerto e faticoso tragitto ne raccontavano come di una meta non troppo distante, continuando in tale modo ad alimentare la leggenda. Un’altra spedizione venne infatti intrapresa dal conquistador basco Lope de Aguirre (1560), non a caso in Amazzonia. A ricercare l’Eldorado nelle aree interne brasiliane, secoli dopo, fu anche l’esploratore inglese Percy Fawcett, il quale fece due spedizioni, in Brasile: nello Xingu prima (1920) e nel Mato Grosso poi (1925), sostituendo al nome (spagnolo) di Eldorado quello (quechua) di Paititi.
Il sogno di Fawcett ci riporta, ad ogni modo, costituendone una variante primo-novecentesca, all'Eldorado, il luogo leggendario in cui vi sarebbero immense quantità e di oro e di metalli preziosi, oltre alle antichissime conoscenze esoterico-occulte di una civiltà perduta, il cui grado di sviluppo, dal punto di vista scientifico e tecnologico, sarebbe stato infinitamente superiore al nostro. In questo luogo favoloso, collocato al di là del mondo conosciuto, le necessità materiali e spirituali sarebbero state appagate in condizioni di pace: una sorta di Paradiso terrestre, o di Eden originario, situato agli antipodi. Lo stesso Fawcett vi si interessò, già nel 1920, vale a dire un lustro prima di intraprendere il suo viaggio alla ricerca di Z., cercandone e a lungo le tracce nella selva dell'alto Xingu, in Brasile, come dimostrano i suoi rapporti, precedenti la scomparsa. Fawcett, oltre che un esploratore, era un mistico ed un visionario. Riteneva che Z – come l’antico Eldorado, con il quale poteva coincidere – potesse altresì rivelarsi una città perduta degli antichi atlantidei, una loro colonia o base.
L'idea di un luogo mitico posto al di là del mondo conosciuto era in realtà viva dal Medioevo, quando a lungo si era cercato il Regno di Prete Gianni, specie da parte portoghese, con le spedizioni di Piero da Covilla ed Alfonso da Paiva. La scoperta europea delle Americhe aveva poi rinforzato il mito di un luogo leggendario (e ricchissimo). Gli indigeni del Nuovo Mondo facevano del resto uso di vari monili in oro, che fecero pensare ai navigatori spagnoli di essere arrivati nelle prossimità di un luogo mitologico, ricco di riserve auree. Uno dei primi a cercarlo fu Juan Ponce de Leòn, che si mise alla ricerca, nel 1513 in Florida, della fonte dell'eterna giovinezza, leggenda alimentata anche dal manoscritto medievale Il romanzo di Alessandro. Poco dopo, gli ingenti tesori portati in Spagna dai Conquistadores convinsero noti banchieri, come i Welser, di Asburgo, a farsi coinvolgere nella ricerca dell'Eldorado. I Welser ottennero da Re Carlo V i diritti di sfruttamento delle risorse naturali della colonia del Venezuela, chiamata allora dai tedeschi piccola Venezia, a garanzia di un prestito di 141 mila ducati con i quali omaggiarono i Grandi Elettori, i quali elessero il re del Sacro Romano Imperatore: l'Eldorado divenne, quindi, pressoché immediatamente la calamita che attirò nel Nuovo Mondo tutta una serie di avventurieri, di esploratori e di nobili, intenti a finanziare persino piccole migrazioni, al fine di scoprire il luogo in cui era celato l’uomo dorato della tradizione indigena.
Tentativi successivi di raggiungere l'Eldorado furono compiuti nel 1525 da Sebastiano Caboto in Perù e dal suo luogotenente Francisco Cesar, tra il Rio della Plata e l'attuale Bolivia. Si diffuse, al loro ritorno, la leggenda di una città ricchissima e pavimentata d'oro che solo per poco si offriva alla vista dei viaggiatori, in un luogo dalla latitudine imprecisata. Pedro de Heredia la cercò in Colombia e Diego de Ordaz risalendo l’Orinoco, nel 1531, abbagliato dal miraggio di una montagna ricoperta da smeraldi. Caboto, dal canto suo, aveva, avuto tra i suoi molti finanziatori, l'ambizioso Ambrosius Dalfinger di Ulm (1500-1533), che nel 1529 cercò l'Eldorado anche per proprio conto, nei pressi del lago di Maracaibo, dove fondò la città di Nuova Ulma vicino al golfo omonimo. Il suo interprete – e scrivano – Esteban Martìn alimentò la leggenda ricavando dai nativi notizie su un altopiano pieno di oro, coralli, perle e smeraldi. Pedro Limpias fu tra coloro che vennero accecati da questo racconto, sul mitico regno aureo. Una nuova spedizione, questa volta, verso Santo Domingo, venne avviata da Nikolaus Federmann (1506-1541), nel 1530, in anni come si vede davvero di febbrile eccitazione: si trattava nel suo caso di un erudito di prim'ordine, versato nelle lettere italiane e spagnole, tra i primi etnografi della storia. Le ricerche dell’Eldorado si protrassero, vanamente, ancora tra il 1531 ed il 1533. Vi si cimentò inutilmente anche Georg Hohermuth, da Spira (1508-1540), alla guida di un suo contingente militare di esploratori, ingrossato da presenze fiamminghe, inglesi, scozzesi ed italiane: oltre cinquecento uomini in tutto, per una spedizione imponente, durata dal 1535 al 1538. Il cronista di quel viaggio avventuroso fu Philipp von Hutten, cugino del celebre poeta umanista, Ulrich. Fu un viaggio di oltre millecinquecento miglia in direzione Sud, con una sosta a Bogotà, ostacolato – oltre tutto – dal governatore della colonia di Santa Marta, Pedro Fernandez de Lugo, per ragioni di mero carattere giurisdizionale. In realtà, si voleva proteggere la spedizione concorrente, organizzata, alla ricerca, sia della valle di Jerira, sia dell'Eldorado, dai due conquistadores spagnoli Gonzalo Jimenez de Quesada e Sebastiàn de Belalcàzar, i quali nel 1536 avevano sentito parlare da mercanti indigeni di Llactalunga di una laguna – ribattezzata di Guatavita – ricolma di finissima polvere aurea, nelle sue profondità. La civiltà che aveva dato origine a tali leggende era quella dei Chibcha, un popolo precolombiano presto estintosi al contatto con gli europei, in possesso non d'oro ma del solo e unico giacimento di smeraldi mesoamericano (molto più ricco di riserve aurifere era semmai a quel tempo l'Ecuador). Un'ultima significativa ricerca dell'Eldorado fu compiuta in territorio venezuelano, tra il 1540 e il 1546, da Juan de Carvajal e Bartholomew Welser ma si concluse tragicamente. Altri viaggi coevi o di poco posteriori nell’odierna California non diedero alcun esito, comunque anche in tale caso scoprendo un’altra leggenda: quella del Bigfoot americano, analogo allo Yeti asiatico e, nelle epoche successive, avvistato pure nei territori montuosi e selvaggi della Columbia britannica.
Per la storiografia dell'America pre- e post-colombiana, quello dell’Eldorado è stato un mito, capace di cristallizzare tutte le speranze umane, perpetuamente rinascenti. Facile rintracciare quella che deve essere stata la genesi della leggenda: a quei viaggiatori che si trovarono a scoprire usanze, monumenti (non solo le piramidi) ed oggetti artistici che apparivano di ricchezza senza pari e – quel che più preme sottolineare – di una inedita e perciò affascinante estraneità, non parve possibile che tutto si dovesse concludere lì dove erano sino a quel momento arrivati, ma che altre scoperte, ancora più fantastiche e meravigliose, di sicuro si dovevano nascondere nelle regioni inesplorate. Ostacoli naturali e umani non facevano ai loro occhi che confermarlo per via indiretta, finendo per essere un ulteriore incentivo ad avanzare e procedere, non importava se tra mille difficoltà e peripezie presso territori allora, in gran parte, ancora inesplorati, poco abitati e caratterizzati dai rischi di una natura spesso ostile ed assai poco disposta a farsi piegare dall’uomo.
Nel 1601, Bario Centenera visitò, non distante dalle foci del fiume Paraguay, il misterioso sito di Gran Moxo, da lui descritto ricco di monumenti straordinari, tra i quali un pilastro sormontato di colonne luminose, tra le ombrose ed oscure acque di un lago. Certe zone della foresta amazzonica, e regioni poco note della Cordigliera delle Ande, vantano varie leggende indiane, circa contatti con un misterioso popolo di razza bianca, proveniente da montagne inaccessibili, nel cuore della foresta. Il Brasile centrale cela ancora oggi, tra rovine sepolte nella foresta vergine, interi gruppi d'iscrizioni in un linguaggio sconosciuto. I fanta-archeologi hanno pensato subito ai Fenici o ad altri antichi popoli marinari, che si sarebbero spinti ad ovest delle colonne d’Ercole assai prima di Colombo e Vespucci (un mito analogo a quello dei Vichinghi a Terranova). Del resto, anche la civiltà incaica in Perù non ha ancora certo rivelato i segreti (anche costruttivi) delle sue straordinarie e ciclopiche città. La cosa si palesa chiaramente, se si guarda ai singoli monumenti, alle città morte tra la giungla e ai gruppi di rovine ricoperte oggi da intricate felci e da quasi impenetrabile fogliame.
La presenza dell’elemento aureo racchiuso nel termine Eldorado trova un suo parallelo, nella medesima epoca, nella ricerca della pietra filosofale: il grande miraggio degli alchimisti europei, tra la fine del Medioevo ed il tramonto del XVII secolo. Lo stesso Bacone pensò al racconto simbolico della sua Nuova Atlantide – pubblicato incompleto, e postumo di un anno, nel 1627 – ispirato sì alla scoperta dell'America compiuta da Colombo e ai racconti filosofici contenuti nel Timeo e nel Crizia di Platone, ma anche all'eco europea delle ricerche dell'Eldorado: pensiamo alle condizioni di pace e prosperità in cui vivono gli uomini della Casa di Salomone, antesignana e poi modello per la Royal Society e per la stessa Massoneria in Inghilterra. Ancora in una mappa anonima, del 1625, risalente, quindi al periodo in cui Bacone stava lavorando al suo manoscritto sulla Nuova Atlantide, troviamo indicata, con colori molto sgargianti e linee nitide nei contorni, la presunta posizione dell’Eldorado e dell’altrettanto leggendario Lago Panama a sud-ovest del territorio solcato dal Rio delle Amazzoni e dall’Orinoco. Nel 1560, il sanguinario Lope de Aguirre (in seguito giustiziato in Venezuela) aveva preso il comando, uccidendo Pedro de Ursùa, di una spedizione, e proprio nella foresta amazzonica, partita alla ricerca dell'Eldorado, e conclusasi in maniera tragica. In precedenza, anche l'esploratore Francisco de Orellana aveva cercato invano l’Eldorado nelle nere profondità dell’implacabile selva amazzonica, assai prima di Fawcett: quest’ultimo rappresenta pertanto una sorta di terminale ultimo dell’utopia geografica di Eldorado.


Per Francesco Surdich, amico caro e vero maestro


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Nell'immagine, una mappa geografica nella quale appare l'area dell'Eldorado o presunta tale.

Documento inserito il: 30/08/2024
  • TAG: storia delle scoperte e delle esplorazioni geografiche, Eldorado, conquistadores, storia moderna, XVI secolo, storia marittima, letteratura di viaggio, Amazzonia, paradiso terrestre, Illuminismo, Indios, America centro-meridionale

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