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Astronomia e religione: Diego de Landa e la scienza perduta degli antichi Maya

di Davide Arecco


Dallo zelo inquisitoriale alla riscoperta della tradizione precolombiana

La figura di Diego De Landa – nato a Cifuentes il 12 novembre del 1524, e morto a Mérida, il 29 aprile del 1579 – è una delle più controverse della storia: il vescovo spagnolo dello Yucatan, che, in un primo momento, aveva fatto distruggere, quasi per intero, il patrimonio culturale della civiltà Maya, ne divenne, in seguito – sinceramente pentito –, il primo studioso europeo, avviando così una tradizione di ricerche ed analisi che continua ancora oggi e della quale fu il capostipite.
Formatosi presso il Monastero di San Juan de los Reyes, a Toledo, De Landa fu tra quei primi francescani che partirono alla volta dello Yucatan, dedicandovisi per anni e con energia all’opera di evangelizzazione delle popolazioni Maya locali. Il suo apostolato prese ulteriore vigore quando egli, nel 1572, venne nominato vescovo dello Yucatan. De Landa era assai colpito dalle forti analogie tra fede cristiana e religione maya, specie per quanto riguardava la sacralità dei riti. Questi ricordavano a lui la funzione salvifica e sacrificale di Gesù. Tuttavia i Maya erano reticenti ad accettare la nuova religione e ad abbandonare del tutto il proprio sistema rituale. Già nel 1562, De Landa fece arrestare i governatori di varie località dello Yucatan. Il 12 luglio del 1562 si ebbe inoltre il rogo di Mani, nel corso del quale furono ridotti in cenere idoli di svariate forme e dimensioni, distrutte le grandi pietre usate per costruire gli altari dei templi e bruciati numerosi codici manoscritti, redatti dai Maya nella loro complessa ed articolata scrittura geroglifica. De Landa vedeva, in essi, oggetti di mera idolatria pagana e manifestazioni diaboliche di superstizione. Andarono così perduti moltissimi libri e scritti, che illustravano in ogni suo aspetto il passato affascinante della civiltà Maya. Una perdita – ancora oggi – incalcolabile, che ha rischiato di privarci della conoscenza della storia di quel popolo, senza dubbio tra i più evoluti anche tecnologicamente dell’intera area meso-americana.
I Maya tentarono di mantenere in ogni maniera i loro culti ancestrali, mentre i coloni spagnoli protestavano perché, in luogo della dottrina cattolica, gli indios non ricevevano altro che miserabili supplizi e persecuzioni. Un vero scontro di civiltà, ben noto agli storici. La notizia di tali fatti giunse a Madrid, ove Re Filippo II, nell’aprile del 1563, fece convocare il vescovo cattolico dello Yucatan, per chiedergli conto del suo operato episcopale. De Landa si difese dalle accuse, lamentando quello che a suo dire era il carattere irriducibilmente pagano della ritualità religiosa Maya. A nulla, valse il tentativo di De Landa di introdurre nello Yucatan icone sacre della tradizione cristiana, provenienti, passando per il Guatemala, dai conventi spagnoli di Mérida e Valladolid. Un’imposizione e nulla di altro: così dai Maya sopravvissuti venne visto quel trasferimento di immagini, per loro prive di ogni significato e in ultima istanza inevitabilmente incomprensibili, espressione di una cultura che certo non era la loro.
Resosi conto dei propri gravi errori, negli anni della maturità De Landa si dedicò – e fornendo notevoli contributi – proprio alla studio di quella cultura Maya che, con tanti sforzi, aveva tentato di annientare, ricostruendola con pazienza e collaborando soprattutto con gli scribi locali a un’opera di attenta ricostruzione di quel sapere e di quelle tradizioni che rischiavano altrimenti d’andare perdute per sempre. Per il vescovo si trattava, forse, di un modo per fare ammenda del proprio passato. L’ex inquisitore mise da parte l’ira teologica dei suoi anni precedenti e cominciò a raccogliere quante più informazioni e notizie possibili su una civiltà – che, in principio, la sua azione aveva rischiato di far scomparire – tra le più ricche di storia dell’America centrale. De Landa, in particolare, mise assieme una ingens sylva di materiali, circa storia, stile di vita, cultura scientifica e credenze religiose della popolazione Maya. Aiutato anche dai sacerdoti locali, egli studiò a fondo i problemi matematici del sistema vigesimale impiegato nelle scienze dai Maya, il loro calendario e la loro scrittura. Per lui, la lingua dei Maya era ancora un alfabeto fonetico, al pari della spagnola e della latina, a lui note. Solo successivamente, si è compreso che essa utilizza in realtà sillabe e logogrammi. Il vescovo stilò così tavole comparative: uno strumento, prossimo ad un sillabario, che si sarebbe poi comunque rivelato decisivo e fondamentale per decifrare il linguaggio della civiltà Maya, a partire dalla seconda metà del XIX secolo.
De Landa, intorno al 1566, stese la sua famosa Relazione sulle cose dello Yucatan, un’opera a dire poco basilare, per comprendere veramente, appieno e da vicino, il mondo Maya, all’epoca della conquista spagnola. Nel testo, si parla della storia dei Maya, fornendo, altresì, una cronaca esaustiva delle loro scoperte, sino all’arrivo delle navi spagnole. E’ un paradosso – ma di paradossi la storia è piena – ma proprio colui che in principio mirava a cancellare ogni traccia della cultura maya redasse un’opera che costituisce, ancora oggi, il principale punto e di partenza e di riferimento per studiosi e ricercatori del mondo meso-americano e delle sue antiche tradizioni.
Circa tre secoli dopo, lo studioso fiammingo Charles-Etienne Brasseur de Bourbourg ritrovò, nella biblioteca della Accademia storica madrilena una copia manoscritta e ridotta del monumentale trattato scritto, sui Maya, da De Landa. Il libro era infatti nel frattempo andato perduto, come buona parte della conoscenza europea della scrittura Maya. Quasi una maledizione, protrattasi lungo quasi tutta l’età moderna. Brasseur de Bourbourg si rivolse quindi immediatamente alla decifrazione, allo studio, e soprattutto alla traduzione di uno dei pochissimi codici maya superstiti, il Codice Troano – raffrontandone i contenuti con l’opera di De Landa – nella fattispecie riprendendo l’alfabeto Maya, inventato dal vescovo cattolico iberico, sino ad ottenere un testo che, pubblicato nel 1863, e segnato in profondità dagli interessi esoterico-occulti del secondo Ottocento, diede vita anche al mito di Mu, il continente perduto poi studiato dal colonnello Churchward in area anglosassone.


La cultura Maya: storia ed etnografia di una civiltà dell’America centrale

Agli occhi di Diego De Landa, la scienza dei Maya era una sapienza, un sapere perduto – pure a causa sua, inizialmente – che non doveva andare smarrito, ma recuperato e studiato con attenzione profonda, e cura verso i dettagli. Gli antichi Maya, insediati in Meso-America, svilupparono, infatti, una civiltà straordinaria, in campo artistico, architettonico, matematico ed astronomico, elaborando, al contempo, un raffinato sistema di scrittura, che fu il solo pienamente sviluppato, nelle Americhe pre-colombiane.
La civiltà degli antichi Maya, con i quali De Landa entrò in contatto, era estesa in vaste zone, che comprendevano l’attuale sud-ovest del Messico, il Guatemala ed il Belize, senza dimenticare le terre occidentali di Honduras e Salvador: un’ampia regione pertanto, costituita dalle pianure a nord, che si estendevano dall’altopiano dello Yucatan alla Sierra Madre, raggiungendo a sud il litorale del Pacifico. Vaste erano le pianure, mentre colline e montagne si alternavano a rive costiere. Le aree e regioni dell’Impero Maya presentavano, poi, una roccia calcarea altamente porosa, con conseguente minore presenza di acque superficiali. La parte nord-orientale della penisola dello Yucatan, invece, era caratterizzata maggiormente da paludi boschive. Questa, dunque, l’area di riferimento.
De Landa, studiando la storia maya, fu tra i primi a introdurre una periodizzazione all’interno di essa, perfezionata in seguito dagli studiosi successivi. Durante il periodo così detto pre-classico, sino al III secolo d.C., si ebbe l’introduzione della ceramica, con piccole costruzioni, in argilla. Dai villaggi nacquero le prime città e nel V secolo furono erette le prime strutture templari, decorate con maschere raffiguranti diverse divinità. Il primo stile scultoreo maya si diffuse al pari dei commerci e grazie ad essi: tra i beni più importanti, vi era il cinabro. Il periodo classico cominciò intorno al 250 d.C., con l’avvento delle costruzioni di monumenti scolpiti riportanti le date del Lungo computo. Fu in questo periodo che sorsero le prime città-Stato, talvolta rivali tra loro, con Teotihuacan protesa a primeggiare sulle altre. Il collasso politico del IX secolo e le guerre che ne seguirono condussero ad uno spostamento della popolazione maya, verso settentrione. Il periodo post-classico vide il sorgere di nuovi insediamenti, come Chichen Itza e Uxmal, di grande vitalità. Al tempo di De Landa quindi, nel secolo XVI, la monarchia spagnola avviò la colonizzazione delle regioni meso-americane, per mezzo di una lunga serie di campagne militari. Con il periodo di contatto con gli europei (e durante la conquista spagnola) si ebbe l’inizio del periodo ‘post-classico’. Nel 1511, una caravella spagnola naufragò nel Mar dei Caraibi e i sopravvissuti approdarono sulla costa dello Yucatan, dove vennero fatti prigionieri dai Maya: quasi tutti i prigionieri furono sacrificati, ma due furono risparmiati e uno di questi, nove anni più tardi, diventò l’interprete di Hernàn Cortés. Dal 1517 al 1519, tre spedizioni spagnole esplorarono la costa dello Yucatan, impegnandosi in una serie di battaglie con gli abitanti autoctoni. Dopo che la capitale azteca Tenochtitlan cadde in mano agli spagnoli (nel 1521), Cortés inviò Pedro de Alvarado, dal Messico centrale, in Guatemala, con quasi duecento cavalli, trecento fanti, quattro cannoni e migliaia di guerrieri (nel 1524). A partire dal 1527, Francisco de Montejo e suo figlio intrapresero una lunga serie di campagne, contro i regni della penisola dello Yucatan, e ne completarono la conquista, della parte a nord, nel 1546. Nel 1697, infine, Martin de Ursua entrò a Tayasal, che fu l’ultima città indipendente maya ad arrendersi.
Finita la libertà politica, la cultura maya seppe comunque sopravvivere, non senza orgoglio. I mestieri tradizionali sopravvissero e l’introduzione degli utensili in acciaio ebbe buoni risultati. La fine del periodo classico segnò, tuttavia, il tramonto dell’epoca legata al concetto di re-divinità, che agivano in veste di mediatori fra gli uomini e il mondo ultraterreno, e del potere sovrano di carattere patrilineare. De Landa e i conquistatori spagnoli furono colpiti dalla civiltà Maya, che aveva saputo sviluppare forme di arte alquanto sofisticate, realizzate impiegando svariati materiali (legno, giada, ossidiana, ceramica e pietra scolpita), per stucchi ed affreschi. I nuovi venuti trovarono città a strati, collegate da strade rialzate, nonché i templi-piramide, caratteristici dell’area meso-americana, così come palazzi istoriati con l’illustrazione di dinastie, alleanze, e altre informazioni sugli avvenimenti più importanti della storia politica maya prima dell’invasione europea. Gli spagnoli, nella fattispecie i religiosi come De Landa, rimasero impressionati dalle sculture sulle steli di pietra, diffuse in tutta l’area, e dall’abbinamento di stele scolpite ed altari circolari, autentico segno distintivo della civiltà maya. Successivamente, l’epigrafista David Stuart definì le loro steli prima come ‘alberi di pietra’ e poi come ‘manifesti di pietra’. Il principale obiettivo di una stele era quello di glorificare il proprio re. I Maya svilupparono inoltre – cosa che affascinò, moltissimo, De Landa – un sistema altamente complesso di calendari rituali e la loro matematica comprendeva uno dei primi casi di zero esplicito della storia. Mettendo a frutto le loro competenze matematiche, i Maya realizzarono pregevoli opere architettoniche. Applicarono l’intonaco calcareo e costruirono fornaci, lavorando finemente blocchi di pietra come quelli utilizzati per le piramidi a gradoni. Frequenti, nell’architettura maya, erano poi i grandi mascheroni in stucco che rappresentano, generalmente, le divinità, derivanti dalle maschere dell’uomo-giaguaro degli Olmechi. Non conoscendo l’uso di ruota e di pulegge, i Maya costruirono le loro città con la tecnologia del Neolitico. Come materiali da costruzione, fecero ricorso a pietra arenaria, tufo, mattoni, cemento e gesso. I blocchi di pietra, usati per l’edificazione delle piramidi, prima di costruire, venivano attentamente levigati. Il legno veniva impiegato per travi e architravi, come quelle rinvenute nella piramide dell’indovino a Uxmal, fulgido esempio di stile architettonico regionale (Uxmal è oggi considerato uno dei siti archeologici di maggiore importanza proprio circa architettura e scultura, insieme a Chichen Itza e Palenque).
La cronologia maya veniva calcolata da un punto fisso collocato nel passato, l’11 agosto 3113 a.C., punto di partenza del loro calendario (il cosiddetto Lungo computo). Quest’ultimo, di origine pre-classica, fu da loro perfezionato, sino a raggiungere altissimi livelli di raffinatezza e sviluppo, con una accurata registrazione di cicli luni-solari, eclissi e moti planetari, talora persino superiore a quella del Vecchio Mondo di allora. L’anno solare dei Maya era calcolato con una precisione molto superiore a quella del calendario giuliano, allora ancora in uso in Europa. Inoltre, gli studi in merito alla cronologia e alle tecniche di misurazione del tempo portarono i Maya a stabilire con una grande precisione ed accuratezza il corso di Venere. La loro era un’astronomia religiosa, fatta da sacerdoti: il calendario maya era, infatti, strettamente collegato a riti e pratiche religiose, e ad ogni successione di albe e tramonti veniva attribuita una profonda valenza sacra. I Maya fecero, pertanto, meticolose osservazioni dei corpi celesti e registrarono con pazienza i dati astronomici dei loro movimenti, dai pianeti maggiori allora noti alle stelle visibili (si parla naturalmente, qui, di una astronomia ancora pre-telescopica). L’astronomia era per i Maya una scienza divinatoria, usata dunque a scopi, in larga parte, astrologici ed agricoli. Oltre a Venere, studiarono a lungo Giove, Marte e Mercurio. La levata eliaca di Venere aveva per loro significati mitologici e sacrali ed il pianeta veniva associato all’arte della guerra (il geroglifico che la indica incorpora, infatti, il glifo che simboleggia Venere). Quanto alle eclissi, esse avevano per i Maya un significato negativo: nel Codice di Dresda, un’eclissi solare è rappresentata da un serpente divoratore, simbolo di eventi catastrofici. Altri Codici importanti, per ricostruire l’universo dei Maya – la loro scienza, scrittura, lingua e società di corte – sono quelli di Madrid, Berlino e Parigi, ricchi di notizie anche su Olmechi e Zapotechi.


I misteri religiosi di un’antica civiltà nel folto delle foreste tropicali

Quando De Landa e gli spagnoli li raggiunsero, i Maya avevano un sistema politico teocratico con al vertice l’aristocrazia. Questa veniva coinvolta in opere pubbliche e campagne militari. L’arte bellica veniva affidata a soldati e mercenari, armati con lance connesse a dardi, giavellotti, spade ed archi (impiegati pure per la caccia), nonché particolari tipi di cerbottane. Con queste armi – almeno sino alla caduta di Tayasal, nel 1697 – i Maya si difesero invano dagli invasori.
Al vertice della società Maya, quando De Landa entrò in contatto con essa, vi era certamente l’elemento religioso, il che senza dubbio non mancò prima di avvicinarlo (visti certi parallelismi col cristianesimo), poi di respingerlo ed infine di affascinarlo nuovamente. Politica, scienze, guerra: nel caso dell’Impero dei Maya tutto ruotava attorno alla religione e all’apparato mitologico-cultuale. Al pari delle altre popolazioni del Meso-america, i Maya credevano in un regno sovrannaturale, abitato da una serie di potenti Divinità, le quali dovevano essere placate, con offerte cerimoniali e pratiche rituali. Secondo loro vi erano stati numerosi mondi: ognuno era perito in un diluvio – centrale anche al di là dell’oceano, pertanto – e si attendeva presto un altro diluvio. L’universo Maya, come quello del manicheismo, era caratterizzato dalla continua lotta, fra le potenze del bene e quelle del male. Il bene portava la pioggia, la fertilità e l’abbondanza; il male portava al contrario la siccità, gli uragani e le guerre. Al centro della pratica religiosa maya vi era il culto degli antenati defunti, ovvero coloro che avrebbero agito, da intermediari, fra i loro discendenti ancora in vita e gli abitanti del regno dei morti. I primi intermediari fra l’uomo e il regno sovrannaturale, come spesso accadeva in America, prima dell’avvento della fede cristiana, restavano peraltro gli sciamani, figure centrali di depositari del sacro, in possesso di tecniche magiche e segreti religiosi legati a un’arcana sapienza, in grado di leggere negli elementi naturali e nel cielo. I Maya avevano una visione del cosmo come una realtà altamente strutturata. Vi erano tredici livelli nei cieli e nove livelli negli inferi ed il mondo mortale occupava una posizione intermedia fra il cielo e l’inferno. I Maya erano caratterizzati anche da un marcato dualismo tra giorno e notte, vita e morte. Gli Dèi della Tempesta presiedevano a tuoni, fulmini e piogge, mentre i Nove Signori della Notte governavano, ciascuno, uno dei regni degli Inferi. Ma vi erano anche altre divinità importanti, come la Dea della Luna – studiata infatti, dagli astronomi-sacerdoti, anche per la sua valenza di tipo religioso – il Dio del Mais (per loro, l’agricoltura era la principale fonte di sostentamento, assieme all’allevamento) e gli Eroi gemelli, oggetto di un culto astrologico, diffuso in moltissimi miti, anche al di quà dell’Atlantico (si pensi ai Dioscuri). Non solo. Anche il diluvio è un tema universale, a dir poco centrale altresì nella tradizione biblica, su cui si fonda il cristianesimo. Furono questi aspetti – sia prima, sia dopo il famigerato rogo del 1562 – ad interessare De Landa. Aspetti oggi ampiamente noti ai cultori di storia comparata delle religioni e agli etno-antropologi.
Il Popol Vuh – collezione di miti e leggende dei vari gruppi etnici che abitarono nella terra dei Quiché, uno dei regni Maya in Guatemala – venne scritto, in caratteri latini, soltanto durante l’epoca della colonizzazione spagnola, ma, con buona probabilità, in esso vennero trascritti frammenti presi da un libro geroglifico, composto in precedenza. Si tratta di una delle opere religiose e letterarie più importanti della cultura indigena centro-americana. Nel Popol Vuh, troviamo il mito della creazione del mondo, la leggenda degli Eroi Gemelli e la storia del regno postclassico K’iche’. Le divinità che troviamo descritte nel Popol Vuh includono fra le altre anche il Dio del Mais, Huracan, la Dea della Luna e quello della montagna. Quasi la descrizione di un pantheon, rappresentato in quello che resta un libro sacro della tradizione meso-americana, per quanto di tardiva stesura. Una sorta di analogo, da certi punti di vista, del Corpus Hermeticum tardo-ellenistico, almeno per l’attenzione rivolta alla teologia, al misticismo, all’astrologia-astronomia e alle credenze esoteriche.
In comune con le altre culture dell’America centrale, anche i Maya adoravano la divinità del Quetzalcoatl, il ‘serpente piumato’. Tale culto s’era imposto sul finire del del ‘periodo classico’, per diffondersi tanto nella penisola dello Yucatan, quanto sugli altopiani del Guatemala. Nello Yucatan, in particolare, il ‘serpente piumato’ era la divinità Kukulkan (che ha analoghi anche nel paganesimo irlandese). Quest’ultimo, secondo le leggende dei K’iche’, era Gukumatz. Kukulkan ricavava la sua origine dalla figura mitologica del serpente della guerra (centrale, nel mondo Maya) di età classica, ma nel medesimo tempo era stato fortemente influenzato dal culto religioso del Quetzalcoatl diffuso in vaste zone del Messico centrale. In effetti, Quetzalcoatl è uno degli dèi più importanti, anche nel pantheon azteco: una divinità concepita come positiva, che vari documenti (stavolta a disposizione) associano al vento, al pianeta Venere, all’alba (pertanto alla venuta della luce), alla mercatura, alle arti – anche magiche, in possesso degli sciamani e di numerosi scribi – ai mestieri e, soprattutto, alla conoscenza e al sapere: quella sapienza della quale, anche secondo De Landa, i Maya erano stati nel Nuovo Mondo tra gli ultimi eredi e depositari.
Come detto, il culto del serpente piumato era condiviso dai Maya con gli Aztechi. Nel 1520, sottomettendosi a Cortés, e riconoscendosi vassallo dell’Imperatore Carlo V, il sovrano messicano Montezuma mandò al suo nuovo signore, fra gli altri preziosi doni, un magnifico diadema di piume verde smeraldo e rosso porpora, montate in oro: le penne di un uccello tropicale, il Quetzal. Anche se il diadema andò poi perduto e del quetzal – divinizzato dai popoli del Centro America, e posto da loro nel cuore di sfaccettati complessi mitologici – si smarrì ogni traccia, studiando gli antichi libri manoscritti maya e aztechi, in particolare il Libro dei tributi, vi si può rinvenire con precisione quei luoghi da cui le pietre arrivavano nell’odierna Città del Messico: remoti villaggi indios, perduti fra le foreste tropicali centro-americane, ai confini dell’Honduras. Dopo la scomparsa del vescovo cattolico dello Yucatan e le vittorie militari di de Ursua, alla fine del XVII secolo, gli studi sulla civiltà Maya incontrarono un periodo di appannamento. Non di meno, altri missionari cristiani scrissero resoconti dettagliati sui Maya, a sostegno dei loro sforzi di evangelizzazione e dell’assorbimento della popolazione meso-americana dentro l’Impero spagnolo, lasciando, in più occasioni, circostanziate descrizioni delle rovine che trovarono nello Yucatan ed in America Centrale, tra XVIII e XIX secolo. Nel 1839 il viaggiatore e scrittore americano John Lloyd Stephens e l’architetto e disegnatore britannico Frederick Catherwood visitarono diversi siti Maya, ed i loro racconti illustrati delle rovine suscitarono un forte interesse in Europa, che portò la civiltà meso-americana di nuovo al centro dell’attenzione, questa volta volta a livello non solamente dotto, ma pure popolare.
Viaggi avventurosi, quelli di Stephens e Catherwood, capaci altresì di sfatare molti miti: sino alla metà dell’Ottocento, infatti, dei Maya molti non conoscevano neanche più il nome, mentre vari eruditi erano ancora convinti che gli amerindi discendessero da una tribù perduta di Israele, oppure dai fenici, dagli egizi o dagli scandinavi, senza aver quindi mai avuto una propria civiltà originale. I viaggi di studio di Stephens e Catherwood portarono ad una autentica riscoperta dei Maya, dei loro splendidi monumenti, della loro raffinata ed evoluta civiltà, costruita con coraggio, intuito ed abilità da generazioni di personaggi storici dall’elevata levatura. Victor Von Hagen – esploratore di origini prussiane, archeologo di fama e celebre studioso delle civiltà indigene americane – ha ricostruito, in maniera appassionata e competente, la vita e soprattutto i viaggi di Stephens e Catherwood, i quali, peraltro, già erano stati a lungo sul Nilo, in Arabia e in Terrasanta. Dall’incontro fra i due era nato il progetto di esplorare l’America centrale, malgrado le fatiche e i pericoli. Stephens e Catherwood, in Meso-America, fecero entusiasmanti scoperte sul posto, documentate inoltre, a livello iconografico, dai disegni dell’illustratore inglese. La grande impresa dei due, sottolineata da Von Hagen, spianò la strada a nuove ricerche storico-archeologiche sulle ricchezze dell’antica civiltà Maya. Da allora in avanti, la storiografia non ha mai cessato di tenerla in adeguata considerazione.


Nell'immagine, il vescovo spagnolo Diego de Landa.


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Documento inserito il: 16/01/2025
  • TAG: civiltà precolombiane, storia meso-americana, Maya, piramidi, calendario, arte della guerra, archeologia, agricoltura, allevamento, religione, scrittura geroglifica, mitologia, matematica, architettura, evangelizzazione

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