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I Decii: una famiglia di 'Kamikaze' a Roma antica [ di Carlo Ciullini ]

Quando, dopo aver bevuto il sakhè quale ultimo gesto rituale, i giovani piloti giapponesi si gettavano a bordo dei loro Zero imbottiti di esplosivo sulle portaerei statunitensi impegnate nelle acque del Pacifico, sacrificando in un estremo atto di coraggio la propria vita in onore dell'imperatore Hirohito e del Sol Levante, essi erano probabilmente consci del fatto che la immolazione cui andavano incontro non avrebbe potuto invertire concretamente le sorti del conflitto.
Conflitto che si volgeva, nei mari e sulle isole posti tra Asia e Nord America, in modo inequivocabile a favore degli Usa e degli alleati dell'Impero britannico.
La disfatta del Giappone era ormai prossima, e il gesto suicida dei “kamikaze” (che significa “vento divino”), per quanto altamente simbolico, avrebbe solo momentaneamente rallentato, ma non fermato, la marea montante dell'U.S Navy e dei suoi marines: dall'alto di una supremazia numerica e tecnologica ormai ben definita, le flotte americane stringevano sempre più dappresso l'arcipelago nipponico.
Le bombe su Hiroshima e Nagasaki chiusero tragicamente il quinquennio più disastroso per l'umanità e la sua storia.
Lanciarsi contro il nemico a sprezzo della propria vita, anzi nella lucida consapevolezza che essa avrebbe avuto fine certa nel volgere di pochi istanti, ha contraddistinto non solo il popolo giapponese, nei sanguinosi eventi di settant'anni fa: altrove, e in altri tempi, l'immolarsi non istintivo e subitaneo, ma al contrario ben ponderato e soggetto a rituali e formule preparatorie canonici e precisi, ha caratterizzato l'azione e la morte di valorosi uomini d'arme.
Ad esempio, molti dei Celti, contro i quali combatterono aspramente, tra gli altri, anche i Romani, si presentavano in combattimento totalmente privi non solo di armature, ma addirittura di una qualsiasi forma di abito: dotati di spada e scudo, indossavano esclusivamente una torque cinta al collo, una sorta di amuleto propiziatorio, oltre che simbolo di acquisite virtù guerriere.
La nudità in battaglia ricopriva un duplice scopo: secondariamente, assumeva la forma di una ostentata prova di coraggio, sprezzante del valore e dell'armatura del nemico, cui si contrapponeva a propria difesa solo la pelle e il vigore fisico.
Ma in primo luogo, e ciò è per noi più interessante, la totale assenza di abbigliamento indicava, nel guerriero gallo o britanno, la forte determinazione a combattere fino all'ultimo anelito di vita, predisponendo già a priori l'offerta della propria vita agli dei e agli avi.
Nudi siamo nati, nudi andiamo a morire...”: questo il senso recondito di tale ancestrale usanza celtica, che andava congiungendo il primo respiro di vita all'ultimo; una vera e propria dedizione, anima e corpo, alla causa comune.
Ciò che veniva chiesto agli dei celtici, in cambio dell'estremo sacrificio, era che si fosse accompagnati nell'oltretomba dal maggior numero di nemici, uccisi nello slancio finale.
Con la morte in battaglia non paventata, ma anzi quasi auspicata, si professava, da parte del guerriero, l'intenzione ben visibile a compagni e avversari di immolarsi.
Aspirando a una morte eroica, il barbaro dedicava se stesso agli dei, purificando l'anima nel proprio sangue.
E chi moriva spada in pugno per la patria, aveva un piacevole aldilà assicurato: è il Paradiso dei cristiani, il Giardino dei musulmani, il Valhalla dei guerrieri vichinghi.
La consacrazione agli dei in guerra assicurava ai soldati di ogni epoca gloria personale, prestigio e vittoria per la propria terra, e una fama “post-mortem” degna di uomini eroici e valorosi.
Anche a Roma antica il senso del sacrificio guerriero per la salvezza e il dominio della Repubblica fu fortemente avvertito e posto, nei suoi casi più fulgidi, a ruolo di “exemplum” da venerare e , dove fosse stato necessario, da imitare.
Orazio Coclite e il suo ponte, la mano di Muzio Scevola, la botte chiodata che ingoiò un Attilio Regolo fedele alla parola data... La giovane Roma, arcaica e pura, serbava il ricordo ancestrale di queste mitiche figure, laddove morte e dolore sbiadivano dinanzi alla gloria dell'Urbe.
Accanto a tali icone virtuose, splendette addirittura una intera famiglia romana, padre, figlio e nipote che, a pochi decenni di distanza l'un dall'altro trovarono, nella immolazione personale a favore della patria in pericolo, il compimento sublime della propria esistenza.
Si tratta della illustre gens Decia, le cui origini plebee non inficiarono affatto l'onore e la stima riservatale dai contemporanei e dai posteri.
Ben tre generazioni dello stesso ceppo famigliare giunsero a offrire, separati da un ridotto lasso di tempo, le proprie vite ai Mani, le divinità infernali, affinché la vittoria in battaglia arridesse alle armi romane in grave difficoltà.
Tale rituale istituto, definito dai latini “devotio”, consisteva nel far convogliare su una singola persona (che se ne addossava volontariamente il carico, previa invocazione) le negatività sovrastanti l'esercito romano impegnato in un determinato scontro: si richiedeva, insomma, l'aiuto ultraterreno, laddove sembrasse drammaticamente ineluttabile l'esito della battaglia, se legata, nelle sue sorti, alle esclusive forze umane.
Sarebbero così entrate in gioco forze ben più potenti ed efficaci di carattere sovrannaturale e infernale, capaci di stornare dalle legioni la sventura: la persona a tali divinità spontaneamente immolatasi, avrebbe trascinato con sé nell'Ade anche i nemici che, da una vittoria imminente, sarebbero sprofondati nella sconfitta.
Dunque, una morte eroica e un sacrificio purificatore che nettassero positivamente, per Roma, le colpe della città, colpe di cui l'esito volto al peggio della battaglia davano ampia testimonianza.
Ebbene, straordinaria fu l'applicazione della devotio da parte della famiglia decia: il legame di sangue tra i tre soldati li unì anche nel proprio destino.
Altro elemento della vicenda, senz'altro curioso ma non per questo meno affascinante, è il fatto che i protagonisti abbiano, tutti, portato lo stesso nome: Publio Decio Mure.
Fatto questo non inusuale nell'onomastica latina, ma che ha contribuito comunque ad alimentare l'aura di divina “dannazione” cui i Decii furono soggetti.
A render ancor più mitico (e ingarbugliato) il tutto, provvedono anche i vari studi al riguardo: non sono pochi gli storici che ritengono inaffidabile la tradizione, e optano invece per una amplificazione degli eventi che, dall'aver realmente investito un unico protagonista, si sono poi riverberati (complice anche l'onomastica) a tutti e tre i parenti.
Anche in quest'ottica (e a ulteriore complicazione nella ricerca della verità), risulta difficile stabilire concretamente quale Publio Decio Mure si sia effettivamente votato alla devotio e al conseguente sacrificio; uno dei tre, in pratica, avrebbe “inquinato” gli altri due con le proprie gesta, facendone al pari suo eroi e martiri della causa patria.
Riassumendo, racconti di fatti accaduti due millenni e mezzo fa ci narrano di un padre, di un figlio e di un nipote, tutti portanti lo stesso nome, i quali avrebbero compiuto, uno dopo l'altro, lo stesso atto eroico ed eccezionale: c'è di che meditare (o dubitare...?) circa una simile circostanza sui generis.

Partiamo da una considerazione rassicurante: nonno Publius Decius Mus è esistito senz'altro (come d'altronde gli altri due, comunque si siano effettivamente chiamati).
E i resoconti ufficiali, le fonti riguardo il suo cursus honorum, sono ben conosciuti: l'epoca nella quale visse, nella seconda metà del IV° secolo avanti Cristo, lo inserisce compiutamente in un periodo storico le cui testimonianze letterarie, gli Annales, e le liste consolari coi relativi resoconti sono ben lontani, nella loro accuratezza, da una tradizione arcaica e mitizzata come quella riguardante, ad esempio, l'età regia della prima Roma, in realtà affidabile fino a un certo punto.
Ciò vale ovviamente, e a maggior ragione, anche per gli avi che gli successero.
Il primo dei tre eroi di casa decia rivestì, nel 349 a.C., i panni di Tribuno militare, partecipando alla guerra contro i Sanniti.
La sua carriera lo portò a diventare Console nel 340, accompagnato nella carica al collega Tito Manlio Torquato.
Nello stesso anno, i due affrontarono con le legioni di Roma i Latini presso il Vesuvio, nell'ambito di quella guerra (detta appunto latina) che avrebbe poi consegnato alla città sul Tevere il dominio sull'intero Lazio, e anche oltre.
Gli aruspici etruschi, che sempre vaticinavano prima di una battaglia per trarne auspici indicativi sulla sua sorte, avevano predetto ai Consoli che la vittoria avrebbe arriso a Roma solo nel caso in cui uno dei due avesse trovato la morte nello scontro.
Essendosi venuto a trovare a mal partito l'esercito della giovane Repubblica, Decio Mure volle addossarsi l'onere del compimento del vaticinio: Tito Livio nel suo “Ab Urbe condita” ci descrive la preparazione alla devotio, con la bardatura a pavese di cavallo e cavaliere, e ci regala l'invocazione rituale agli dei Mani, con la quale si evocava la discesa agli Inferi della propria anima, accompagnata tuttavia da quelle delle schiere avverse.
Dopo essersi portato dinanzi alle legioni schierate, il Console attraversò il breve tratto che separava i due eserciti spada in pugno e destriero al galoppo, e gettatosi da solo tra le prime fila dei Latini fu ucciso dai molteplici colpi ricevuti, non prima di averne eroicamente inferti a sua volta, e trascinando così nella morte diversi nemici.
Spinti da quel gesto così terribile e nobile del loro Console, così continua Livio, le legioni romane ripresero coraggio e, rinvigorite nell'animo e nelle membra, riuscirono a sovvertire le sorti dello scontro, sbaragliando le armi latine.
Questo episodio, descritto tra gli altri anche da Valerio Massimo nei suoi “Fatti e detti memorabili”, ha dato il “la” alla leggendaria saga dei Decii.
Come detto, non è facile per gli storici moderni districarsi fra tradizione e fonti attendibili, tra realtà e mito: si ritiene, nella maggior parte dei pareri espressi, che l'episodio concretamente realizzatosi abbia interessato il secondo Decio, morto Console nel 295 a Sentino, e del quale ora ci interesseremo.
Il suo atto coraggioso sarebbe stato esteso, a maggior gloria, ai suoi omonimi padre e figlio, sì da crearne una dinastia votata a tutto per Roma.
Publio Decio Mure secondo (definiamolo così) onorò le istituzioni cittadine, ricoprendo più volte la carica di Console e di Censore.
Fu proprio in qualità di massimo esponente di Roma repubblicana che, col collega Quinto Fabio Massimo Rulliano, egli affrontò assieme agli alleati piceni una grande coalizione italica, formata da Sanniti, Umbri, Etruschi e Galli Senoni, e riunita sotto il comando di Gellio Egnazio.
La battaglia, uno dei tanti scontri all'interno della terza guerra sannitica, fu detta per questo “delle nazioni”, e si svolse presso Sentino, nell'entroterra marchigiano.
Il suo evolversi segue le tappe canoniche che portano alla devotio del Console: sbandamento delle legioni, rito votivo del comandante romano, sua immolazione e conseguente vittoria per la Repubblica.
Con l'ultimo dei grandi Decii, il figlio del figlio, entriamo ormai in pieno III° secolo a.C.: dalla morte del nonno alla propria, passarono ben 61 anni.
Publio Decio Mure terzo trovò glorioso termine alla propria esistenza terrena sul campo di Ascoli Satriano, in Apulia: qui i romani tentarono (e, per molto tempo, inutilmente) di fermare lo scorrazzare per lo stivale dell'esercito epirota del geniale Pirro.
Dopo la funesta sconfitta di Eraclea, le legioni romane si scontrarono nuovamente col sovrano ellenistico nel Tavoliere: la maestria tattica del generale, e la presenza degli elefanti da guerra (veri e propri carri-armati dell'antichità), spaventevole per i legionari, condussero le legioni sull'orlo del disastro.
Al che si perpetuò, così ci viene tramandato, il canonico rituale di casa decia, un vero e proprio marchio di fabbrica: rito d'invocazione agli dei infernali, galoppata fin nel cuore dell'esercito pirrico, morte gloriosa dell'ennesimo Publio...
Malgrado ciò, la battaglia si concluse egualmente con la sconfitta romana, e in apparenza il sacrificio non sortì effetti; tuttavia, il successo epirota fu pagato a tal prezzo da dar luogo al detto, passato alla storia, di “vittoria di Pirro”: un risultato positivo, per quanto a scoppio ritardato, fu dunque ottenuto...
Giunti a questo punto, tiriamo le somme.
Mentre l'effettivo offrirsi alla devotio del primo Decio pare essere, quasi certamente, una contaminazione leggendaria di un avvenimento storico realmente accaduto, è riguardo al secondo e al terzo che la critica storica va dividendosi circa l'attribuzione, all'uno o all'altro, del ruolo di vero protagonista dell'eroico evento.
Vi è chi ritiene con certezza che solo ad Ascoli Satriano, durante la guerra tarentina condotta da Pirro, un membro importante dei Decii si sia volontariamente immolato per il successo delle armi di Roma; altri studiosi, invece, ritengono essere il Publio Decio Mure di mezzo (cioè il Console morto a Sentino, nella “battaglia delle nazioni”) quello cui la casata plebea deve la illustre fama.
Il mediano, tra i tre consanguinei, avrebbe riverberato (in seno a una tradizione che ne volle amplificare le virtù) il gesto fatale sul padre e su suo figlio.
Un ultimo aspetto preme sottolineare: la leggenda della devotio decia abbraccia un periodo, quello a cavallo tra IV° e III° secolo avanti Cristo, in cui si registrava un irrefrenabile esigenza di espansione da parte della ancor giovane Repubblica.
Roma, da piccolo centro pastorale, aveva via via allargato i propri confini, frizzante, avida, bramosa di nuovi territori e nuovi popoli da aggiogare; tutto, in quell'era, serviva per rendere salda e sostenuta questa ambizione smodata: anche la creazione di miti che si fossero posti ad exempla per le nuove generazioni di una stirpe conquistatrice, quale fu la romana.
Per questo, la devotio decia non può non portare l'impronta arcaica di una nazione fresca, in crescita veloce, e dallo sviluppo insostenibile da parte di qualsiasi altro popolo italico.
La tradizione di una mitizzata saga familiare di tal portata non avrebbe potuto che fiorire in epoca arcaico-repubblicana, allorquando la sopravvivenza dell'Urbe in espansione, vigorosamente sostenuta da purezza di spirito e di mores dei suoi abitanti, sarebbe ben valsa la vita offerta in battaglia, seguendo i crismi di riti ancestrali.
I Publii Decii Mures che, per mera ipotesi, fossero invece vissuti in piena epoca imperiale, difficilmente si sarebbero con tanto ardore condotti all'estremo sacrificio: in tal caso non sarebbe più esistita la Roma genuina, la Roma votata alla completa dedizione alla causa comune dei suoi cittadini (e ciò a scapito anche della esistenza personale).
La rilassatezza dei costumi, la latente corruzione, l'inquinamento dell'antico ceppo latino-italico, con la presenza di etnie provinciali ed extra-europee anche nelle gerarchie istituzionali, aveva ormai annacquato profondamente il senso di appartenenza, e fatto recedere il sentimento di abnegazione individuale a favore del corpus collettivo.
Con tali endemici difetti, radicati ormai saldamente, mal si sarebbero potuti applicare sentimenti di arcaica devozione patriottica alla nuova era.
Egoismo e individualismo sempre più spiccati, dalla fine del regime repubblicano in poi, caratterizzavano ormai le più elevate istituzioni di Roma: i tempi della devotio per la gloria dell'aquila erano, ormai, finiti da un pezzo.


Riferimenti bibliografici

TITO LIVIO, “Ab Urbe condita”, libri VII-IX, BUR, Milano, 1982
VALERIO MASSIMO, “Fatti e detti memorabili”, UTET, Torino, 2009
Documento inserito il: 19/12/2014
  • TAG: i decii, publio decio mure, guerre contro pirro

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