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La prima flotta di Roma [ di Carlo Ciullini ]

Un caso di 'spionaggio industriale' ante-litteram.

Quando Roma, impegnata nel primo, terribile scontro con Cartagine dal 265 al 241 avanti Cristo, uscì alla fine dello stesso vincitrice e nuova padrona del Mediterraneo occidentale, dovette probabilmente il suo successo alle disfatte imposte ai Punici sui mari interposti tra Italia e Africa, piuttosto che in terraferma.
Eppure, all'inizio della prima guerra punica i Romani non avevano alcuna esperienza marinara laddove, invece, i Cartaginesi ne vantavano una di secolare e prestigiosissima, frutto di reiterate vittorie navali e di diffusissime reti commerciali marittime.
Tuttavia, gli allievi latini superarono i maestri, se così possiamo dire.
Ben pochi popoli, nella storia dell'umanità, hanno avuto la capacità romana di fare proprie le qualità altrui, e di prendere il meglio da coloro che, via via, si trovarono a confrontarsi (pacificamente o in guerra) con i Quirites: istituzioni politico-sociali, tendenze religiose, armamenti e tecniche militari, tutto ciò che i Romani reputavano degno di imitazione, per migliorarsi, era ben accetto (è l'idea di assimilatio).
E, sopratutto in campo bellico, il giovane e ambizioso popolo venuto dal Lazio diede prova di grandi capacità di ricezione, apprendimento ed elaborazione degli elementi acquisiti.
Tali dati potevano cadere in mano romana anche casualmente, e il grande storico greco Polibio, nelle sue celeberrime “Storie”, ce ne descrive un esempio tanto fortuito quanto, al tirar delle somme, decisivo.
I Cartaginesi avevano attaccato nello Stretto- ci racconta il megapolitano nel I° libro- e una nave coperta, spintasi troppo innanzi nell'ardore del combattimento, si era arenata ed era caduta nelle mani dei Romani; di questa essi si servirono come modello per la costruzione di tutta la flotta, ma se non si fosse verificato quell'episodio casuale, evidentemente la assoluta inesperienza avrebbe costretto i Romani a desistere dalla loro impresa.
Fu dunque grazie a un evento imprevisto, tanto favorevole per la Repubblica quanto sfortunato per la potenza africana, che Roma poté munirsi di una flotta propria, capace non solo di solcare agevolmente le onde del Mediterraneo, ma di poter anche contrastare la impareggiabile forza marittima dei Punici.
Possiamo immaginarli, i Romani, intenti a esaminare scrupolosamente lo scafo catturato, a rilevarne misure, proporzioni strutturali e accorgimenti tecnici: ingegneri, manovali, militari, tutti desiderosi di carpire i segreti più reconditi delle prodigiose imbarcazioni cartaginesi, per farne modello di navi proprie.
Ci tornano alla mente stuoli di giapponesi accerchianti belle auto di produzione europea o americana, fatte bersaglio di flash fotografici per riportarne in patria, nel Sol Levante, i dettagli più minuti di stile e di meccanica.
In verità, ci dice ancora Polibio, prima di poter allestire una armata navale sufficientemente affidabile i Romani, che da stirpe di contadini e pastori qual erano mal conciliavano la propria indole guerriera con il mondo acquatico, si rifornirono di imbarcazioni militari e da trasporto presso i loro alleati italioti: Tarentini, Locresi, Partenopei, etnie di ceppo ellenico e dunque avvezze a convivere e prosperare col mare, furono in grado di approvvigionare la lupa capitolina di un discreto numero di triremi e di quinqueremi.
Con tali mezzi i Romani, impareggiabili soldati di terraferma, intendevano portar guerra a Cartagine proprio sull'elemento nel quale il popolo venuto dalla Fenicia eccelleva: l'acqua.
A tanto poteva l'ardire dei discendenti di Romolo.
Da quegli anni fatali in poi, Roma divenne la signora assoluta del Mediterraneo, nel suo settore occidentale perlomeno; possiamo affermare che il dominio completo del Mare Nostrum si attuò con la campagna anti-piratesca portata avanti da Gneo Pompeo, nel quarto decennio dell'ultimo secolo avanti Cristo.
Questa flotta, la prima messa in mare dalla Repubblica, trovò piena espressione, nel suo evolversi, in età augustea, nel corso della quale la forza marittima fu divisa in due grandi squadre: la classis misensis con base a Miseno, nella baia di Napoli, e la classis ravennas alla foce adriatica del Po; in seguito vennero formate altre flotte di vario tipo: da quelle in Egitto e Siria alla classis britannica, posta a Gesoriacum (l'odierna Boulogne) sulla Manica, fino alla pontica, sul Mar Nero.
Non mancarono, in questa accorta distribuzione delle navi imperiali, anche poderose squadre fluviali, come quelle operanti sul Danubio e sul Reno.
Il primo nucleo della flottiglia romana, durante la prima guerra punica, constò di circa 120 imbarcazioni: un centinaio di quinqueremi e il resto in triremi.
Proprio la nave a cinque ordini di remi rappresentò il tipo di scafo più diffuso della marina repubblicana, quello più possente e devastante nello scontro.
I latini dimostrarono ben presto di poter fare un uso appropriato della loro nuova esperienza navale, ingaggiando coi Cartaginesi, fin da subito, violenti combattimenti che li portarono addirittura all'affondamento e alla cattura di un numero consistente di navi nemiche.
Alla resa dei conti, più che i Punici poté contro la nuova flotta dell'Urbs la natura, con il disastroso fortunale che, sul finire della guerra, colò a picco 270 legni al largo della Sicilia, presso Camerana, trascinando in fondo al mare migliaia di uomini fra milites e nautae.
Tuttavia, tale era la prodigiosa frenesia espansiva di Roma che il senato emanò, seduta stante, l'ordine di varare prontamente nuove navi: in tre mesi ne vennero calate in acqua 200, portando alla definitiva vittoria le armi capitoline.
Era il 241 avanti Cristo.

Laddove in epoca imperiale le flotte erano comandate dai prefetti e le singole navi dai trierarchi, in periodo repubblicano l'armata navale era posta ai comandi del console: questi guidava il suo sciame di legno dall'ammiraglia.
Saliamo ora a bordo di una quinqueremi, fin dagli albori la classe regina della flotta romana.
L'equipaggio, innanzitutto: anche in questo caso ci è di grande aiuto la testimonianza, plausibilmente affidabile, di Polibio.
Le quinqueremi contavano 300 marinai, di cui 270 impegnati alla voga, e trasportavano circa 120 soldati scelti.
Va evidenziato subito un aspetto: col termine “quinqueremi” non si intendeva etichettare una nave che avesse cinque differenti livelli di remi per fiancata, ma piuttosto il fatto che vi fossero cinque serie di rematori a tre diversi livelli (due uomini per ciascuno dei due remi superiori, e uno per i remi inferiori, più corti).
Vista trasversalmente, dunque, questo tipo di imbarcazione mostrava tre fila di remi, una sopra l'altra; e, per facilitare la manovrabilità dei remi superiori più lunghi, se ne prolungava gli scalmi oltre il fianco della nave, onde poter imprimere al remo stesso una potenza maggiore: tale accorgimento dava forma alla cosiddetta scalmiera, sopra la quale si ponevano gli scudi uniti l'uno all'altro in fila, sì da proteggere i rematori.
Questa nave era dotata di un unico albero, il maestro, dotato di una vela quadrata che potesse, nel caso, coadiuvare lo sforzo dei remi.
Tuttavia in battaglia vela e albero venivano abbassati in modo tale che, nel duello nave contro nave, il moto dello scafo non dovesse soggiacere ai capricci del vento, ma si fondasse esclusivamente sulla rotta impressa dal gioco dei remi e dei timoni.
I timoni erano due, posti, ciascuno, a un fianco della poppa: bastoni a pala larga, governati da timonieri robusti, in grado di poter sostenere la rotta assunta dal loro scafo senza l'ausilio di alcun gioco di trasmissione meccanica (come dal medioevo in poi, con la classica ruota direzionale).
Le navi da guerra romane erano rivestite di piombo per renderle più resistenti al tentativo di speronamento avversario: terribile strumento delle imbarcazioni militari dell'antichità, infatti, si rivelava il rostrum, grosso sperone metallico infisso a prua, a pelo d'acqua, capace di squarciare le fiancate avversarie se giunto all'impatto a velocità sostenuta.
Se il rostro (molti dei quali, catturati al nemico, fecero per secoli bella mostra di sé nel Foro a Roma) rappresentava comunque caratteristica diffusa tra le navi da guerra di vari popoli mediterranei, ancora una volta fu un geniale meccanismo bellico certamente innovativo, ideato dai Romani, a concretizzarne la supremazia tra i flutti del Mare Nostrum.
E' il corvus, una passerella movibile e orientabile posta a prua delle navi romane, terminante con un grande uncino posto alla sua estremità: tenuto innalzato prima dell'abbordaggio a una imbarcazione nemica, veniva poi, liberando una corda, fatto piombare e affondare pesantemente sul ponte avversario.
In tal modo, le due navi rimanevano avvinte in un abbraccio mortale per i nemici di Roma: i legionari, fanti eccelsi, potevano infatti trasferirsi in massa sullo scafo artigliato, trasformando, in pratica, una battaglia navale in una terrestre.
E con i piedi ben poggianti al suolo, anche se in alto mare (gli scafi, uniti assieme, formavano una sorta di minuscola isola tra le onde), i milites raramente concedevano scampo al nemico...
Tale fu la geniale idea tattica di Roma, supportata da un meccanismo artefatto, il corvo, tanto semplice quanto efficace.
Facciamoci ora prendere per mano dal grande Polibio, per esserne accompagnati fin dentro gli eventi epocali che contrassegnarono quei cinque lustri di lotta feroce tra le due più grandi potenze del ponente mediterraneo.
I Romani allestirono e vararono la loro grande flotta anti-cartaginese per ben tre volte, nel corso della prima guerra punica: furono ben consci sin dall'inizio -come sottolinea lo storico greco- che soltanto un successo definitivo in mare avrebbe consegnato nelle mani di Roma la palma della vittoria. E in effetti, così fu.

Malgrado alcuni rovesci in mare, perché sconfitti dai Punici o dalla furia degli elementi, i Romani riuscirono a ottenere contro i loro nemici fondamentali vittorie navali, vittorie che fecero pendere l'ago della bilancia a favore della marina romana e, di conseguenza, dell'espansionismo della città latina: la quale, dalle sponde del Tevere, andò così proiettando la propria ombra dominante su buona parte del bacino mediterraneo.
Solo due decenni dopo, e anche più (218 avanti Cristo), Cartagine fu in grado, grazie al genio militare di Annibale Barca, di portar nuovamente guerra alla sua rivale, seppur con risultati finali non difformi dal precedente conflitto ( nel 202 pose fine alla seconda guerra punica la sconfitta annibalica a Zama).
I successi della flotta romana portano i nomi di due località siciliane: Milazzo, porto nord-orientale situato nell'odierna provincia messinese, e le isole Egadi, poco distanti da Trapani e Lilibeum (la moderna Marsala), estremo vertice occidentale della Trinacria, allora greca.
Siamo nel 260: a Milazzo -ci narra Polibio- il console Caio Duilio, a capo della flotta nuova di zecca formata da 130 navi, attaccò quella di Annibale (solo omonimo del grande Barcide) mettendone fuori uso una cinquantina: grande stupore iniziale, seguito da sgomento, destò fra gli armi punici l'uso sconosciuto dei corvi, che permisero ai fanti scelti di Roma di combattere nel modo a loro più consono.
Annibale, tornato in patria in veste di ammiraglio sconfitto, fu in seguito inviato in Sardegna per riscattare l'onore perduto: esser battuto nell'habitat più familiare, il mare, da un avversario neofita e inesperto nell'arte nautica parve ai notabili di Cartagine un affronto da lavarsi prontamente.
Tuttavia, un nuovo insuccesso, in questa seconda occasione, ne segnò la fine: dopo un processo sommario, fu giustiziato dai suoi compatrioti adirati.
Erano passati un paio d'anni dalla disfatta milazzese.
La seconda, leggendaria vittoria navale romana si celebrò alle isole Egadi, estremo contrafforte occidentale di Sicilia.
Qui, il 10 Marzo del 241 a.C. (secondo le fonti di Eutropio, che ci riporta la data esatta), Roma seppe infliggere alla grande rivale la spallata decisiva.
Al comando dei legni latini stava il console Caio Lutazio.
La narrazione polibiana è drammaticamente sintetica ed efficace: “Lutazio […] vedendo che un vento forte soffiava in poppa ai nemici, e ai suoi sarebbe stata difficile la navigazione contro vento in un mare gonfio e agitato, considerando però che, se avesse attaccato durante la tempesta, avrebbe combattuto contro Annone [l'ammiraglio punico, N.d.R] mentre le navi del nemico erano ancora cariche, giudicò opportuno non lasciare passare l'occasione propizia”.
Le navi romane, eliminati i pesi superflui per agevolarne la rapidità di spostamento, validamente equipaggiate, e con a bordo fanti scelti tra i migliori delle legioni, prevalsero su quelle puniche, prese alla sprovvista: queste, ancora appesantite dal carico dell'approvvigionamento imbarcato in Africa, impreparate nei marinai e nei soldati di leva recente, andarono incontro a una irrimediabile sconfitta.
Gli scafi africani affondati furono una cinquantina circa, settanta quelli catturati, una decina di migliaia i Cartaginesi fatti prigionieri: un'ecatombe senza precedenti.
La flotta punica non esisteva più.
La guerra, dopo 24 anni di scontri, ora più intensi, ora più dilatati, era terminata.
In essa i Romani persero 700 navi, tra battaglie e naufragi; i Cartaginesi, battuti, non meno di 500: si era posta fine a una titanica lotta tra grandi potenze, l'una in ascesa senza posa, l'altra già volta al declino ineluttabile sebbene, poi, sarebbero state necessarie altre due epiche guerre per affossarne del tutto ogni capacità di resistenza.
Roma, oltre a ricevere una ingente indennità di guerra in talenti euboici, acquisì la Sicilia e la Sardegna, strategiche piattaforme per una futura espansione mediterranea.

La prima guerra punica, oltre a determinare fattivamente la definitiva ascesa extra-italica di Roma e il suo diffondersi ormai incontenibile al di là dei confini peninsulari, si pone a paradigma della capacità capitolina (capacità, poi, ineguagliata per secoli) di predisporsi militarmente secondo canoni organizzativi e logistici insostenibili per le altre potenze.
Sconfiggere Cartagine, vera e incontrastata signora del Mediterraneo, che proprio in quegli anni era giunta allo zenit della supremazia militare e commerciale, fu impresa straordinaria, tenuto conto, sopratutto, che l'esito finale del conflitto fu determinato da epocali vittorie romane sui mari.
Su di essi la metropoli punica aveva esercitato un dominio incontrastato, grazie alla sua avanzata tecnologia nautica, all'eccellenza dei propri equipaggi e alla esperita preparazione degli ammiragli.
Il fatto stesso di aver stabilito, sin dall'inizio del conflitto, di portare proprio sull'acqua, cioè l'elemento di cui Cartagine era figlia, lo sforzo massimo di impegno, uomini e mezzi, fa brillare ancor più ai nostri occhi l'ardita temerarietà del popolo romano.
La sua reiterata ostinazione nel varare nuove flotte che sostituissero gli armi distrutti in battaglia, o naufragati in seguito a terribili tempeste, si erge a simbolo di incrollabile caparbietà nel conseguire la vittoria finale.
Da animali terrestri, i Romani si trasformarono in anfibi: e il pieno controllo di terra e mare consegnava nelle loro mani il dominio sul mondo mediterraneo.


Riferimenti bibliografici

CONNOLLY PETER, “The roman army”, Mondadori, Milano, 1976
POLIBIO, “Storie”, Mondadori, Milano, 1988
Documento inserito il: 18/12/2014
  • TAG: flotta roma antica, trireme, quinquireme, guerre puniche

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