Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia, storia contemporanea: Incrociatori italiani 1920-1943 (parte 3)
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Incrociatori italiani 1920-1943 (parte 3)

di Ernesto Di Marino

Tipo DIAZ
Nel 1927, la Marine Nationale aveva iniziato la realizzazione di due nuovi tipi di grossi caccia: si trattava delle classi AIGLE e LION (diciotto unità in tutto) armate con V-138/40 mm e con velocità superiore ai 38 nodi. La Regia Marina decise, quindi, nel 1929, di costruire due nuovi CONDOTTIERI che si chiamarono ARMANDO DIAZ e LUIGI CADORNA.
Essi erano sostanzialmente analoghi ai precedenti: lo scafo, esteticamente eguale, era però irrobustito in alcune strutture; le sovrastrutture, il torrione snellito e abbassato di 3,5 m, risultavano di linea complessivamente più gradevole; un albero a tripode sistemato a proravia del secondo fumaiolo sosteneva la controplancia poppiera. Tra il fumaiolo poppiero e la torre n°3 da 152/53 mm, nei 24 m circa che risultavano liberi, era stata fissata una catapulta sistemata con un angolo di 30 gradi sul lato dritto rispetto alle chiglia. Gli idrovolanti venivano così a trovarsi al riparo del fumaiolo e della torre n°3 da 152/53 mm, e questa sistemazione, permettendo l'eliminazione dell'hangar, aveva consentito il già detto abbassamento dell'altezza del torrione, con benefici effetti sulla stabilità della nave.
Le sistemazioni per la direzione del tiro erano analoghe a quelle dei primi CONDOTTIERI; i telemetri per la direzione del tiro autonomo furono però installati all'interno delle torri n°2 e n°3 da 152/53 mm, sicché tutte le torrette dell'armamento principale furono ingrandite mentre, fin dall'inizio, non fu installato il telemetro per la direzione secondaria del tiro.
L'apparato motore si componeva di sei caldaie Yarrow e due turboriduttori Parsons che, alle prove, diedero i seguenti risultati: ARMANDO DIAZ 121.407 HP per 39,72 nodi; LUIGI CADORNA 112.930 HP per 38,08 nodi.
Per queste due unità valgono, in linea di massima, le considerazioni già esposte per le precedenti.

Tipo MONTECUCCOLI
Nel 1931, la Regia Marina affrontò il problema degli incrociatori leggeri e, partendo dal progetto dei COLLEONI e sfruttando l'esperienza fatta con quelle navi, riuscì ad ottenere due unità in grado di affrontare validamente gli incrociatori leggeri delle altre Marine.
Anche queste due nuove navi avevano affinatissime forme di carena; lo scafo, dalla linea molto slanciata, aveva prora fortemente arcuata e svasatissima, poppa arrotondata. La prora era dotata di castello lungo 60 m che proseguiva con una tuga sino all'impianto n°3 da 152/53. La protezione dello scafo presentava buoni spessori ed era studiata in modo interessante e originale. Essa era affidata a 85-90 mm di acciaio al nichelcromo ripartiti in due paratie: una esterna dello spessore di 60 mm che si estendeva ininterrottamente dalla torre n°1 alla torre n°4 da 152/53 mm; una interna di 25 mm a centro nave e di 30 mm in corrispondenza delle quattro torri dell'armamento principale. Le due paratie correvano a 1,60 m di distanza (con disposizione analoga a quella adottata sui COLLEONI) ed erano collegate da traverse dello spessore di 40 mm. Un doppio fondo a struttura cellulare assicurava la protezione contro l'esplosione di armi subacquee. Quella orizzontale era costituita da un ponte che si estendeva per il 75 per cento della lunghezza della nave ed avente i seguenti spessori: 30 mm nella parte compresa tra le paratie longitudinali di 25 mm; 20 mm dalle suddette paratie alle murate. I pozzi delle artiglierie principali avevano uno spessore di 50 mm nelle parti esposte direttamente alle offese, perché affioranti dal ponte di coperta o di castello, e quello di 45-30 mm nelle parti sottostanti i ponti suddetti. Il ponte di comando era rappresentato da un locale circolare protetto da 100 mm, porzione del torrione cilindrico impostato sul ponte protetto di primo corridoio; il resto del torrione, per la parte affiorante dalla tuga, aveva uno spessore di 50-40 mm. Oltre il ponte di comando, il torrione assumeva forma tronco-conica e il suo spessore degradava a 30-20 mm. Su questa parte terminale era sistemata la torretta girevole del I Direttore Tiro.
L'esame degli spessori della protezione - che si riduceva nelle parti dei pozzi delle artiglierie poste al di sotto dei ponti e nella parte tronco-conica del torrione, che si presentava sfavorevolmente all'impatto di proietti o di schegge - denota uno sforzo di ottimazione che anticipa i concetti così metodicamente e mirabilmente sviluppati, negli anni successivi, dai progettisti giapponesi. Inoltre, un'osservazione particolare meritano le sovrastrutture di queste navi studiate in maniera affatto razionale tanto da rappresentare l'ultimo stadio evolutivo, col raggiungimento di forme essenziali che conferivano a queste unità una singolare bellezza. Notevole l'adozione del "torrione Pugliese" dal quale venivano eliminate tutte le parti sovrapposte e non corazzate che si sarebbero deteriorate in caso di offesa, diminuendo l'efficienza di quella parte così importante della nave. Anche in queste unità il progettista si ripromise di ottenere elevate velocità e perciò le dotò di un apparato motore costituito da sei caldaie Yarrow a nafta (disposte come nei COLLEONI, ma con locali separati per ogni caldaia) agenti su due turboriduttori Belluzzo. La potenza di progetto di 106.000 HP fu largamente sorpassata alle prove, che dettero i seguenti risultati: RAIMONDO MONTECUCCOLI 126.099 HP per 38,72 nodi; MUZIO ATTENDOLO123.330 HP per 36,78 nodi.
Per quanto riguardava l'armamento, nulla v'è da aggiungere a quanto detto a proposito dei COLLEONI; si può solo notare che in queste navi fu cambiata la disposizione degli impianti da 100/47 mm che furono così sistemati: due a murata, uno per lato, a poppavia del secondo fumaiolo, sul ponte di coperta; uno sulla tuga, tra il fumaiolo poppiero e l'impianto n°3 da 152/53. con questa disposizione, dell'armamento secondario, essendo la distanza tra i due fumaioli di 38 m circa, fu possibile sistemare tra di essi la catapulta brandeggiabile per il lancio degli idrovolanti.
Le sistemazioni per la direzione del tiro erano così disposte: I Direttore del Tiro in torretta anulare brandeggiabile posta sulla sommità del torrione; stazioni per la direzione del tiro A.A. e A.S. ai lati del fumaiolo prodiero e alle estremità della controplancia di poppa, sorretta dall'albero tripode, in quattro torrette girevoli; impianti telemetrici nelle torri n°2 e n°3 per la direzione autonoma del tiro.
A queste navi, indubbiamente veloci e ben armate, molti ipercritici scrittori di cose navali credono di dover muovere critiche circa la protezione, ritenendola scarsa. Infatti, si suole affermare da più parti che la Regia Marina riuscisse a ottenere incrociatori leggeri paragonabili alle costruzioni straniere solo con i tipi DUCA DEGLI ABRUZZI. Principalmente, si obbietta che lo spessore di corazza di 85-90 mm, suddiviso tra due paratie di 60 e 25-30 mm, non offrisse in realtà se non la protezione che avrebbe offerto una piastra unica di 80 mm. Da ciò si vuol far discendere una presunta scarsezza di protezione in cintura, specie rispetto alle contemporanee costruzioni britanniche dotate, al galleggiamento, persino di piastre di 102 mm di spessore. A parte che gli incrociatori inglesi delle classi ARETHUSA e DIDO avessero spessori di corazza limitati a 50,8 mm e che quindi il discorso sulla protezione non possa essere generalizzato ma analizzato caso per caso, un confronto diretto tra la protezione di questi incrociatori italiani e similari inglesi non è possibile sulla base degli spessori di corazza. Diversi, infatti, sono i criteri con i quali fu studiata e predisposta, in generale, la protezione sugli incrociatori italiani e su quelli inglesi. Sulle navi italiane si curò sempre la disposizione d'una cintura corazzata quanto più estesa possibile nel senso longitudinale (che in latezza non superava mai il ponte di I corridoio); su quelle inglesi, invece, la protezione si concentrava nella zona dell'apparato motore mentre, in altezza, giungeva spesso al ponte di coperta, coprendo comunque sempre una superficie più limitata. Così possiamo notare che di fronte alla protezione dei MONTECUCCOLI, limitata a 85-90 mm ma estesa per il 75 per cento della lunghezza della nave, sta quella di ben 101,6 mm sui LEANDER, ridotta al 30 per cento della lunghezza della nave. Anche sui SOUTHAMPTON di 10.000 ton., indubbiamente i migliori incrociatori della Royal Navy, la protezione di 101,6 mm è limitata al 48 per cento della lunghezza dello scafo, così come nei FIJI è limitata quella di 89 mm.
In generale va notato che, mentre sui MONTECUCCOLI i depositi munizioni si trovano sempre nella zona di massimo spessore di corazza, negli incrociatori inglesi venivano sempre a trovarsi al di fuori, il che potrebbe apparire piuttosto grave. Inoltre, potrebbe notarsi che il collegare lamiere di forte spessore e di limitata estensione ad altre di spessore notevolmente inferiore, significa privare di omogeneità i corsi di lamiere, creando zone nelle quali avrebbe potuto scaricarsi, con gravi effetti, l'energia delle esplosioni, quantunque sopportate dalle piastre di spessore maggiore.
Il severo collaudo della guerra, però, ha dimostrato che, tanto i MONTECUCCOLI, quanto gli incrociatori inglesi esaminati, hanno saputo resistere a offese di notevole entità, sicché si può affermare che, sebbene per due diverse vie, sia progettisti italiani, sia quelli inglesi, hanno saputo creare navi egualmente robuste.

Tipo DUCA D'AOSTA
Nel 1932 la Regia Marina decise di costruire altri due incrociatori leggeri derivandoli dal tipo MONTECUCCOLI, ma aumentandone le doti di protezione e tenuta di mare. Concettualmente, le due navi - che presero il nome di EMANUELE FILIBERTO DUCA D'AOSTA e di EUGENIO DI SAVOIA - risultarono identiche ai loro predecessori; tuttavia, al fine di incrementare le doti sopra ricordate, esse presentarono un aumento di 4 m in lunghezza, di 1 m in larghezza e di 0,50 m in immersione. Sempre allo stesso scopo, fu anche allungato il castello di prora.
Per quanto si riferisce alla protezione, va notato un aumento dello spessore di tutte le corazze, mentre disposizione ed estensione rimanevano identiche a quelle dei MONTECUCCOLI. La protezione verticale era affidata a 105 mm di acciaio al nichelcromo suddiviso nelle due classiche paratie: quella esterna di 70 mm e quella interna di 35 mm. Tra le due paratie era compresa una protezione orizzontale di 30 mm che, al di fuori di esse, aumentava di 35 mm. I pozzi delle artiglierie presentavano uno spessore di 50-70 mm, mentre il torrione, sempre del tipo "Pugliese", presentava protezione identica a quella dei MONTECUCCOLI.
L'apparato motore - disposto nella già nota maniera divenuta ormai classica sugli incrociatori italiani - era costituito da sei caldaie Thornycroft agenti su due gruppi turboriduttori (Parsons per il DUCA D'AOSTA e Belluzzo per l'EUGENIO DI SAVOIA) della potenza complessiva di 110,000 HP. Tale potenza avrebbe dovuto consentire una velocità di 36,5 nodi. Alle prove, le potenze sviluppate e le rispettive velocità furono: DUCA D'AOSTA 127.924 HP per 37,35 nodi; EUGENIO DI SAVOIA 121.380 HP per 37,33 nodi.
L'armamento era identico a quello dei MONECUCCOLI, salvo per le mitragliere da 13,2 mm che erano XII anziché VIII e per i tubi lanciasiluri che erano VI in luogo di IV.
Su queste unità, comunque ben protette, fu conservata quell'eccedenza di velocità rispetto alle similari costruzioni straniere che - per alcuni, motivo di biasimo - dovrebbe invece più giustamente venir considerata come una necessità. Nel volume "Gli incrociatori italiani" dell'Ufficio Storico della Marina Militare, gli autori, dopo un accurato esame della protezione dei DUCA D'AOSTA rispetto ad un gruppo di incrociatori inglesi, giungono alla conclusione che queste nostre unità avrebbero potuto accettare lo scontro anche con incrociatori armati di cannoni da 203 mm, a condizione che si fossero tenuti tra i 16.000 e i 17.000 m da essi e che il piano del tiro facesse col traverso un angolo non inferiore ai 45 gradi. Se la Regia Marina avesse potuto godere della parità con le flotte potenzialmente avversarie nel Mediterraneo, avrebbe potuto fare a meno di prevedere l'impiego di incrociatori armati con cannoni da 152 mm contro quelli armati con cannoni da 203 mm; ma, non verificandosi questa condizione, era logico che essa si preoccupasse dell'eventualità di essere costretta a opporre questi CONDOTTIERI anche contro incrociatori armati con pezzi di calibro superiore. Perché ciò fosse possibile, come s'é visto, queste unità italiane avrebbero dovuto guadagnare e conservare determinate posizioni relative rispetto a quelle avversarie, per impedire a queste di sfruttare il vantaggio del maggior calibro e rendere massimamente efficace, contro quello, la loro protezione necessariamente limitata. Queste posizioni potevano evidentemente venir acquisite e mantenute solo a condizione che le navi italiane disponessero di quella eccedenza di velocità che consentisse loro di scegliere e imporre le distanze e le modalità di combattimento.

Nell'immagine, l'incrociatore Raimondo Montecuccoli.


Articolo tratto dal n°67 del mese di maggio del 1970 della rivista Interconair Aviazione e Marina
Documento inserito il: 27/12/2016
  • TAG: regia marina, incrociatori italiani, classe condottieri, seconda guerra mondiale,

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