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'Guerra e Amore': Lettere d’amore dal fronte della prima e seconda guerra mondiale.

Autrice: Claudia Cencini

Alla vigilia del centenario dello scoppio della Grande Guerra (28 luglio 1914) esce in libreria il prossimo 28 maggio “Guerra e Amore”, una raccolta di lettere d’amore dal fronte della prima e seconda guerra mondiale, edita da Stampa Alternativa, a cura della giornalista Claudia Cencini. In questo libro di lettere ripescate sulle bancarelle dei mercatini, nelle soffitte e negli archivi di scrittura popolare, si parla d’amore per dire no alla guerra.
“Scritte a mano, sotto la luce di un lume a petrolio, queste lettere appartengono alle trincee della Grande Guerra, ai reggimenti del secondo conflitto mondiale – scrive nell’introduzione Lavinia Farnese - vanno dal soldato alla moglie, alla fidanzata, alla ragazza vista una volta e da allora “penzata” sempre. Contengono la promessa sgrammaticata di un ballo, al ritorno a casa, la paura del rombo, il freddo in tenda, le benedizioni e le bestemmie, il “brutto vivere, al buio di tutto”, la curiosità di sapere, da lontano, come stanno i “cocchini” o se è arrivato quell’abitino “spedito due mesi orsono, tanto carino”.
Non conta la sintassi, a volte povera e sgrammaticata o il linguaggio anacronistico e la retorica d’altri tempi, ma l’autenticità di un pathos che il distacco amplifica. E, comunque, sorprende la poesia e la modernità di certe espressioni, la velata allusione a un’intimità taciuta per pudore o per censura. Gli epistolari più lunghi scandiscono storie di coppie spezzate, che cercano in una cartolina il filo di congiunzione rafforzato dalla fede e dalla speranza, per molti illusoria, di ritrovarsi. In altri casi è solo un flash, un disegno di Natale, una letterina fitta fitta, quanto basta per intuire chi sta dall’altra parte del foglio.
Per tutti l’ossessiva attesa della posta è l’unico momento vivo della giornata. Ecco, allora, che la lettera ha il potere di azzerare le distanze e la parola scritta si fa speranza, sostegno, preghiera, ma soprattutto motivo di sopravvivenza: forse l’unico per migliaia di vite sacrificate al nulla. Come quella di Stefano Graffagnino, bottegaio originario di Salaparuta, nel trapanese, caduto il 20 ottobre 1916 sul monte Roite, in Trentino. Alla moglie fu recapitata una foto della piccola Rosa macchiata di sangue che il padre conservava nel taschino dell’uniforme. Così scriveva il 20 ottobre 1915 alla famiglia: “…Così tutti nel fanco e baste…” un’espressione dialettale incredibilmente vicina alle liriche ungarettiane. O le lettere di Jozsef alla sua Juliska, ritrovate dalla nipote Katalin: “Cara, la tua lettera del 5 l’ho ricevuta, mi scrivi di avermi spedito due pacchi: uno l’ho ricevuto aperto, conteneva solo un pane di 3 chili, si è un po’ seccato ma è tanto buono”. Appena ottenuto il congedo, morì in Serbia per scompensi cardiocircolatori causati dai traumi della guerra. Spirò alle dieci di mattina del 16 agosto 1918, lo stesso giorno che avrebbe dovuto lasciare il campo.
Un soldato si preoccupa dell’orto e chiede alla moglie: “I piselli sono maturi?”, un altro rassicura la “morosa”: “Non sono mica tristo”.
In altre prevale il fatalismo, è il caso di Giuseppe Navone, classe 1893, nel 1916 in prima linea sul Carso: “…Sono vestito di grigioverde, questa divisa mi mete una grande malinconia e l’unghe ore rimango turbato e silenzioso. Dio ci penserà.” o l’incapacità di capire le ragioni di una guerra che sfugge ai più, tra cui Giovanni Battista Bussi detto “Gasan”, sarto torinese figlio di mezzadri, amico e confidente di Cesare Pavese, il quale confessa: “Non ho ancora compiuto 19 anni e non ho istruzione e non comprendo il perché fanno le guerre” oppure: “Oggi sono andato di corvé assieme ai compagni della mia squadra, nel passare in un luogo oltre al fondo di questo vallone ho visto dei soldati che facevano delle grandi fosse e altri che ne coprivano delle altre nelle quali avevano messo delle salme avviluppate in teli da tenda una sopra all’altra come le acciughe e ci spandevano della calce sopra, prima di coprirle, abbiamo fatto alt e io gli chiesi come mai li seppellivano così tanti assieme. Mi risposero che quelli erano resti di morti tutti frammisti e che seppellirli uno alla volta era impossibile tanto non si sapeva nemmeno chi fossero”. Di ritorno dal Carso riprenderà ago e filo nonostante la perdita dell’uso della mano sinistra per una ferita di guerra. E anche a guerra finita l’attesa di un congedo che non arriva: “Non ne vogliono mandare a casa e ci tengono qui a patir la fame. Si mangia prosciutto marcio, carne in conserva e risina…Non c’ho proprio più voglia a scrivere perché son stuffo anche di questo… Mi credevo di fare S. Bartolomeo a casa. (…) mi voglio sposare subito. Sei contenta?” scrive nel 1919 un impaziente Giuseppe Barusso alla fidanzata Giovanna.
Tina, invece, sogna di unirsi al marito in guerra e di raggiungerlo, come in una fiaba, sotto forma di candida colomba: “Vorrei essere colomba viaggiatrice per giungere a te con le mie bianche ali... Vuoi che arrivi? Domani? Stanotte? Addio, amore mio, a presto, solo per iscritto purtroppo, solo col pensiero rivolto a te perennemente... Solo coi baci che volano a mille. Tina tua”. Un po’ come Liliana al capezzale del padre malato, al pensiero di Lio e del suo corpo forte che la sostiene nel ricordo di lui, sensuale e avvolgente: “Lio, mio carissimo Lio…In questa camera mentre assisto mio padre, il tuo volto, il tuo forte corpo mi appare ed ogni volta un brivido di commozione mi scende dalla nuca che tu sapevi accarezzare così bene.” Pavia, 1942-19 luglio.
Sembra un romanzo epistolare la corrispondenza fiume tra il dottor Nicolai Alexeyef (agli inizi del ‘42 prigioniero di guerra in un campo di concentramento a Teramo e pochi mesi più tardi confinato a Camerino, nelle Marche) e l’amata Hertha, ma i sentimenti che animano i due giovani, scanditi dal diluvio di lettere, pur frammentarie e naif, sono reali e sinceri. L’intensità e il colore di alcuni passaggi rasentano vette di straordinaria poesia: “Mio piccolo Nichy, buon giorno! … L’altro giorno ti ho pulito e messo in naftalina i tuoi vestiti, ho lasciato fuori solo il vestito grigio chiaro, il tuo nuovo bleu, la tua giacca bleu. La bianca é candida e aspetta il suo padrone…Arrivederci, amor mio, con tanti bacini”. E lui: “Sì, mia piccola mogliettina, per sempre tanto amata Herthlichen, stanotte varco la soglia gregoriana ed entro col ritardo (sono sempre uno slavo lentissimo...) nell’anno e tempi tuoi, varco ed entro con te nel cuore mio, con te nell’animo sereno e tanto devoto a te, con te e con la gratitudine al buon Dio per Hertha creata e data da Lui a me...”. E nell’attesa di una Pasqua insieme: “No. Amore. nient’altro mi occorre di portar da Roma. salvo te stessa”.
Più discrete, ma altrettanto intense le missive del maggiore Chiarini alla sua “Nicchi”: "Come stai, mia cinciallegra? Ti rivedo ancora sgambettare buffonescamente alla stazione Termini dietro il mio treno che si allontanava. Sei una bella mattacchiona e io ti voglio un bene immenso”, per poi cedere a un’allusione intima: “… la gente poco si rende conto del fatto che due sposi, anche se non più novelli da un pezzo, possono continuare, quando insieme, a desiderare di rimanere soli...” e ancora: “Lontano da te sono uno sbandato, ma naturalmente un montanaro sa sopportare questo ed altro...”.
1942, Armando a Lucina: “Il nostro trottolino come va? Stai sempre bene come prima? … Attendo con ansia il momento di poterti riabbracciare, di poterti dare quei bacioni lunghi lunghi… quelli che piacciono tanto a te. Te ne mando mille in acconto…”.
Pasqua del ’43, il capitano Baldi si rammarica con la moglie Iole: “Mi dispiace sentire che tu ed i bambini siete rimasti senza uovo di Pasqua. Ci avevo pensato, ma avevo anche pensato che ve li sareste comprati da voi. Beh! Speriamo che l’anno prossimo possa comprarvene dei grossi grossi. Ora vado a dormire che è passata la mezzanotte da un pezzo. Vi bacio forte forte. Raffaele”.
1944, Cristiano Nusdorfi scrive alla moglie da un campo di prigionia: “Fili spinati sono ora la mia casa, è lì che vivo di sentimenti dolorosi, di un’esistenza straziata, fatta solo di ricordi belli e per questo ancor più amari”.
Chi si aspetta di trovare in queste lettere accenti eroici o dichiarazioni di patriottismo rimarrà deluso, troverà eroismo – sì – ma quotidiano, volontà di sopravvivenza, paura mista a coraggio, l'amore che vince su tutto, che costituisce l’essenza stessa e la grandezza di un popolo.
La densità del no alle guerre, del no alle violenze, sta nell'affanno disperato di chi ha negli occhi il terrore e nelle orecchie le urla. Ogni lettera raccolta da Claudia Cencini è una testimonianza sincera. Ogni parola fissata è un filo spinato che separa la pace e l'amore dal suo opposto, la guerra, il dolore. Facciamone buon uso” è il monito di Gianluigi Paragone in quarta di copertina.

Nel libro, a fianco dei testi sono riportate le lettere originali e alcune foto.

Documento inserito il: 31/12/2014

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