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Novità Itinera Progetti: ARDITI di Reginaldo Giuliani [ di ]

“Alla Terza Armata tutti amavano il cappellano degli arditi, Padre Reginaldo Giuliani...partecipava agli assalti con gli occhiali a stanghetta del frate studioso e l’elmetto pesto del combattente” così lo ricordava nel 1936 Renato Simoni, celebre giornalista e drammaturgo veronese. Quella di Reginaldo Giuliani fu senz’altro una figura di spicco degli inizi del ‘900, tanto da venirgli intitolato anche un sommergibile e divenire figura d’ispirazione per il film “L’uomo dalla croce” di Roberto Rossellini. Dalla sua esperienza con i Reparti d’Assalto trasse il volume “Gli Arditi”, pubblicato per la prima volta nel 1919 e qui riproposto in occasione del centenario della fondazione dei Reparti d’Assalto. Un documento unico che ripercorre la storia di questi reparti nella III Armata, il loro reclutamento, l’addestramento e le azioni militari che li videro protagonisti. In appendice al volume l’autore ha riprodotto i più famosi canti degli arditi.


Qui di seguito pubblichiamo un brano tratto dal libro, per gentile concessione dell'Ufficio Stampa di Itinera Progetti.

Alla difesa di Venezia
L’esercito austro-ungarico, prorompendo dagli sbocchi della Valle del Natisone, dilagava nella pianura.
A mala pena l’incalzante pressione era stata ritardata dall’immolazione eroica dei reparti che fecero pagar caro all’invasore la profanazione del suolo italiano. Il Tagliamento aveva ceduto: il Piave resisterà.
La situazione era assai difficile. Arrivato al Piave, il nemico attaccò su tutta la fronte coll’impeto delle soldatesche eccitate dalla non difficile avanzata. Puntate eseguite contro Fagarè e l’ansa di Zenson ebbero, sul principio, qualche risultato, ma poi furono contenute e quindi respinte al di la del fiume, dal rinforzo d’armi e d’entusiasmo che i ragazzi del novantanove avevano portato tra i fanti delle nostre vecchie brigate.
Non essendo riuscito ad aprirsi il varco nel centro della linea, il comando avversario tentò di sfondare sulle ali. I battenti della gran porta, che chiudeva al nemico l’Italia, si incardinavano sugli estremi baluardi del Grappa, e del basso Piave; il primo è una difesa naturale, come un castello elevato dalla mano dell’Onnipotente ad ultima ma infallibile difesa d’Italia, il secondo invece, fu reso inespugnabile, più che dalla natura, dal valore dell’esercito nostro. La difesa a mare era tanto necessaria quanto quella a monte, poiché da quella dipendeva pure la salvezza di Venezia. La regina dell’Adriatico era la meta del barbaro, ma gli arditi seppero difenderla da ogni profanazione.
Tutto le forze dei battaglioni d’assalto dell’armata, al comando del colonnello Pavone, furono inviate a Cavazuccherina [oggi Jesolo, N.d.E.]; le scarse schiere arrivate al Piave erano formate dai resti del ventiduesimo reparto d’assalto, del diciannovesimo, e di due compagnie dell’undecimo.
Al quattordici novembre s’ imbarcarono a San Giuliano di Mestre, e, risalendo i canali della laguna, arrivarono nella notte a Cavazuccherina. Non vi trovarono che nuclei di armi diverse, i quali erano stati raccolti allo scopo di fermare il nemico.
Non si sapeva precisamente fin dove questi si fosse infiltrato: perciò primo compito nostro fu un assaggio del terreno. Si sosto qualche ora nelle case abbandonate, poi, gettata una passerella sul canale Cavetta, che limitava a nord-est il paese, si lanciò innanzi una pattuglia e quindi tutta la terza compagnia. Questa formò una larga testa di ponte al di la del gomito Sile-Cavetta, e si estese, a mare, sin presso Cortelazzo, ove poi la linea si curvava per prendere collegamento coi marinai, posti sulla destra del canale. La seconda compagnia si portò in alto verso Capo Sile. Gli altri due battaglioni rimasero di rincalzo.
I piccoli posti avanzati s’erano annidati tra le rovine dell’antica città di Equilio(1). Della presenza del nemico, nessun segno diretto. Alcuni borghesi, che durante il giorno quindici s’erano imbattuti nei nostri avamposti, ci avevano detto che gli austriaci erano arrivati al Canale Settimo. Quindi alla sera, gettata una passerella con due pali del telefono, una pattuglia al comando del tenente Orelli, passò il canale, e perlustrando il terreno della riva opposta, non trovò altro che pochi contadini raccolti in una stalla. Non volevano lasciare le loro case: il tenente impiegò tutta la sua buona grazia a spiegar loro che era necessario sgombrare, perché erano di grande impedimento alla nostra difesa, non essendo noi così barbari come i tedeschi, da buttar granate sopra le case loro. Finalmente, le donne si arresero e indussero tutti a seguire gli arditi, i quali aiutarono a portare i bambini e i bagagli guidandoli per i viottoli alla nostra linea, mentre la luna guardava dal cielo.
Sull’albeggiare, il tenente portò fuori una seconda pattuglia di dieci volontari, per constatare se la località di «Quattro Case» fosse occupata dal nemico. Arrivati al posto avanzato, da dove si scorgevano le case, si stette ad osservare. Tutta la campagna era allagata e sull’acqua si rifletteva la rossa luce di una bell’alba, emergevano solo i rami dei cespugli e la strada sopraelevata, che correva quasi diritta sino alla meta della pattuglia. Delle «Quattro Case» due erano situate a destra e due a sinistra della strada, sulla quale vagavano lentamente un paio di buoi; vedendoli il tenente ebbe subito un nuovo disegno per l’operazione. Un ardito si offrì all’impresa: vestì abiti contadineschi rinvenuti in una casa e si preparò a portarsi presso i due animali. L’ufficiale parve un po’ impressionato dalla pronta offerta del giovane al pericoloso e delicatissimo compito.
“Senti” gli disse “devi comprendere che il tuo compito e difficile assai: se ti scoprono e ti prendono, guardati dal rivelare le nostre posizioni e le nostre forze”.
“Stia certo, signor tenente, che so il fatto mio: sono napoletano ma ho fatto il contrabbandiere sulla frontiera svizzera e saprò cavarmela con onore.”
“Se ti prendono, anche minacciassero d’ammazzarti, non devi parlare!”
“Le giuro che mi farò uccidere, piuttosto che parlare”.
Si nascose il pugnale nei calzoni, infilo alcuni petardi nelle larghe tasche: il tenente gli diede la propria rivoltella. L’ardito così camuffato, con un bastoncino andò a pungere gli animali volgendoli alle «Quattro Case». Dietro a lui, nascosto sotto la strada, avanzava il tenente colla pattuglia per raccogliere il segno convenzionale che doveva indicare la presenza degli austriaci, e, in caso d’attacco, difendere il compagno. L’improvvisato boaro spinse gli animali avanti: ma quando fu presso alla meta, si vide un ragazzotto precipitarsi dalla strada nella prima di quelle case, e immediatamente da quelle finestre, sprigionarsi raffiche di mitraglia sulla pattuglia che stava cinquanta metri innanzi. Gli arditi d’un balzo la circondano e il finto boaro si getta per primo sulla soglia e lancia petardi nell’interno dove stavano austriaci avvinazzati a spassarsela. Da tutto le quattro case iniziò un fuoco infernale.
Lo scopo dei nostri, di rilevare la presenza del nemico, era raggiunto, perciò rientrarono tutti sotto una gragnuola di pallottole fischianti; tutti tranne il povero ed eroico boaro, che era caduto sulla soglia.
In tal guisa si prese contatto coi nemico.
Incominciò subito la costruzione delle difese, che per la mancanza di materiali non furono da principio che una trincea vigilata, munita più che altro dal valore delle vedette. Il giovane tenente Bella con alcuni volontari di truppa chiese ed ottenne di rimanere a custodia continua, senza alcun turno, dello sbocco della strada, che era forse la sola dalla quale avrebbero potuto affacciarsi i plotoni affiancati dell’invasore. Questi non tardarono a mostrarsi. Dopo alcuni giorni di preparazione, durante i quali si ebbero scontri di pattuglie, si sferrò l’attacco nemico per terra e per mare: ma gli arditi e i marinai, appoggiati dalle nostre artiglierie da poco piazzate, resistettero meravigliosamente.
La laguna rispecchiava le vampe e gli incendi e pareva talvolta diventar un mare di fuoco: la notte era rotta dai razzi che i nostri arditi lanciavano per scoprire le masse avanzanti e colpirle con le infallibili mitragliatrici.
Tra le artiglierie che allora appoggiarono con grande maestria le nostre azioni, va ricordata la cannoniera Nazario Sauro(2), vecchia carcassa austriaca armata di nostri bei cannoncini vomitanti fuoco sul nemico; la comandava Rizzo, l’Affondatore...(3) Altri tre tentativi di avanzata, preparati e scatenati in breve tempo con le maggiori forze, si infransero sulla salda resistenza dei difensori. La catena delle volontà valse meglio dei reticolati di ferro e di qualsiasi artiglieria di sbarramento a trattenere le orde austriache.
Gli arditi vigilavano, perché sapevano di essere i difensori di Venezia. Comprendevano che se la loro catena si spezzava, era infranto l’ultimo scudo che proteggeva la bella città che si intravvedeva in lontananza nel plenilunio invernale, sotto l’aureola di fuoco e ferro lanciato dalle artiglierie di difesa contro le incursioni aeree che tentavano di dilaniarle il bel seno.
Un foglio del colonnello Pavone, letto e commentato a tutta la truppa, l’aveva edotta pienamente della situazione: non si può dire quale fierezza di propositi abbiano eccitato le parole chiare e vibranti dell’intelligente comandante. Un ardito illetterato, il sergente maggiore Torquato Torquati, aveva composto una di quelle canzoni, che, a dispetto della mancanza di forma, spandono il profumo della poesia che sgorga dal cuore popolano. Tutto il battaglione l’aveva imparata, ed era divenuta la preferita; cantavano:

quante notti ho sorvegliato
sulla Cavazuccherina;
gli austriaci alla rovina
noi arditi dobbiam mandar.
Venezia ci hanno affidato,
Noi fiamme nere la difendiamo:
paura noi non abbiamo
e il contrattacco non si fa far.


Gli arditi rimasero a Cavazuccherina sino al sedici dicembre: furono quindi i primi difensori contro i più forti attacchi del nemico. Consapevoli della grandezza del compito loro, non si lagnavano mai del servizio permanente di trincea, del tutto contrario all’impiego normale dei battaglioni d’assalto, e contrario soprattutto allo spirito irrequieto delle fiamme nere. Si sentirono in parte ricompensati del sacrifizio, dall’onore proveniente dal fatto che i pochi residui dei tre battaglioni ebbero il cambio da un’intera brigata di bersaglieri e che il comando del colonnello Pavone fu sostituito da un comando divisionale.
Se la terza armata poté coniare croci e medaglie coll’impronta dell’alato leone di San Marco, simbolo di forza immacolata e di vendetta senza debolezze, se lo stemma di Venezia poté diventare l’emblema della terza armata, ciò fu anche per merito dell’ardore leonino degli arditi.


Note:
1) Nome in epoca romana di un fiorente centro che sorgeva nel territorio dell’attuale Comune di Jesolo.
2) A Capo Sile, Cavazuccherina e Cortellazzo furono costituite tre teste di ponte difese da soldati e da marinai. A Cavazuccherina in particolare la Marina aveva dislocato alcune batterie galleggianti formando un gruppo sotto il comando del tenente di vascello Luigi Biancheri. Del gruppo fecevano parte anche le motonavi “Folgore” e “Saetta”. Il 14 novembre veniva aggregato al gruppo anche il piroscafo ausiliario “Capitano Sauro” dislocante 400 tonnellate e armato con un cannone da 120/50 a prua e due cannoni da 76/40 al centro. Lo comandava il nocchiero di prima classe Baccarini. Indipendenti dal gruppo ma dislocate anch’esse a Cavazuccherina vi erano due squadriglie di M.A.S. agli ordini dei tenenti di vascello Rizzo e Pagano di Melito.
3)  Luigi Rizzo (Milazzo 1887 - † Roma 1951), soprannominato l’Affondatore, fu un celebre ammiraglio italiano. Dal giugno 1915 alla fine del 1916 partecipò con successo alla difesa navale di Grado, passando successivamente nella neonata squadriglia MAS.


Documento inserito il: 09/03/2017

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