Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia autori: 1992, l'anno che ha cambiato l'Italia

1992, l'anno che ha cambiato l'Italia [ di Simone Balocco e Paola Maggiora ]

Doveva essere l'anno della nascita dell'Unione Europea, delle Olimpiadi invernali di Albertville e di quelle estive di Barcellona, della riabilitazione di Galileo Galileo da parte della Chiesa cattolica in merito alle sue idee sulla concezione celeste e del 500° della scoperta del Nuovo Continente. Ed invece il 1992 in Italia è ricordato per lo scoppio del caso “Mani pulite”, delle ultime elezioni politiche della Prima Repubblica e la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in due attentati mafiosi. In Italia quell'anno partì una “rivoluzione” senza precedenti, ma che come tutte ha avuto eroi e vittime, morti, contraddizioni e misteri. Il Mondo, e non solo il nostro Paese, era cambiato: era caduto il Muro, la Guerra fredda era finita, l'Unione Sovietica si era sciolta e gli assetti politico-economici erano da ricostruire. In Italia invece veniva scoperto un malcostume continuato nel tempo.


17 febbraio 1992, ore 17:30

Era un anonimo tardo pomeriggio di un lunedì lavorativo di febbraio, ma destinato a cambiare l'assetto politico dell'Italia. Nello studio del Presidente del “Pio Albergo Trivulzio” di Milano, un noto istituto di cura per anziani indigenti fondato nella metà del Settecento con oltre un migliaio di dipendenti ed un ricco patrimonio finanziario-patrimoniale, avvenne un fatto molto grave: il titolare di una azienda di pulizie di Monza specializzata nello smaltimento di rifiuti ospedalieri, la Ilpi di Luca Magni, dà al Presidente una busta contenente 7 milioni di lire per la vincita di un appalto, a fronte di una tangente di 14 milioni, 10% dell'appalto vinto, l'ennesimo. Magni lavorava da almeno un paio di anni per la “Baggina” (altro nome per cui è conosciuto l'istituto), non riusciva più a pagare l'”obolo”. Il 13 febbraio, stanco, andò a confessare tutto ai carabinieri che decisero, grazie all'apporto di un sostituto procuratore, di facilitare un incontro tra lui ed il Presidente. Magni andò nel suo studio, molto teso vista la delicata situazione, con nel taschino una penna con registratore, consegnò la valigetta, con all'interno una piccola telecamera: il Presidente non era contento del “differimento”, ma accettò la soluzione del Magni di dargli la restante parte la settimana successiva. Non appena uscì dallo studio, i carabinieri entrarono e lo arrestarono in flagranza di reato. L'arrestato era Mario Chiesa, ingegnere milanese di 48 anni, di fede politica socialista con il sogno di diventare, a breve, sindaco di Milano. In un buffo tentativo di fuga, Chiesa si precipitò in bagno e gettò nel water altri 37 milioni frutto di un altra tangente poco tempo prima incassata. Venne subito condotto nel carcere di san Vittore. A coordinare l'arresto furono il capitano Roberto Zuliani della caserma di via Moscova ed il magistrato Antonio di Pietro.
Alle ore 22:16 l'Ansa fece uscire la notizia dell'arresto, ma questo evento sembrò non interessare particolarmente l'opinione pubblica. L'arresto in flagranza di Chiesa, e la sua confessione, daranno però il via alle indagini di “Mani pulite”, da cui gli italiani scoprirono il malcostume che riguardava tutta la classe politica italiana e che porterà alla fine del vecchio sistema di partiti, creato con la nascita della Repubblica subito dopo la guerra. Nulla dopo fu più come prima.


Le elezioni del 5 aprile 1992, terremoto nelle urne

“Tangentopoli”, altro nome con cui è conosciuta l'indagine, è scoppiata anche in un momento politico molto delicato, due mesi prima delle elezioni politiche del 5-6 aprile. Il risultato elettorale fu devastante: la Democrazia Cristiana passò dal 34.4% al 29.7%, perdendo molti voti soprattutto in alcune sue “roccaforti”, i socialisti persero un punto percentuale, passando dal 14.3% al 13.6%, PRI-PLI-PSDI in tre presero circa il 10%, mentre il Partito dei Democratici della Sinistra, erede del Partito Comunista Italiano, ottenne il 16.6% ed il “cugino” Partito della Rifondazione Comunista il 5.6%. Chi godette appieno del voto elettorale fu la Lega Nord, che ottenne l'8.7% portando a “Roma ladrona” 55 deputati e 25 senatori. Il partito lumbard ottenne il 25% in Lombardia, il 19.4% in Piemonte, il 18.9% in Veneto ed addirittura il 10% in Emilia Romagna. La Lega divenne il primo partito di Milano ed Umberto Bossi, leader del movimento, ottenne oltre 240mila preferenze contro le 94mila di Bettino Craxi, il politico milanese più forte. E pensare che solo cinque anni prima, nelle precedenti elezioni legislative, il partito di Bossi portò alle Camere solo due parlamentari, un deputato ed un senatore. Ottenne anche risultati lusinghieri un altro partito “di rottura”, la Rete, un movimento politico improntato sulla lotta alla Mafia e che aveva nella questione morale e nella lotta alla illegalità il proprio “core business”. Tra i fondatori/ideatori eletti in Parlamento c'erano Nando della Chiesa, figlio dell'ex Prefetto di Palermo ucciso dalla mafia nel 1982, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando e l'ex sindaco comunista di Torino, Diego Novelli. Il movimento portò in totale in Parlamento 12 deputati e tre senatori, frutto del 1.86% nazionale.
Ma è stata l'astensione al voto il “partito” che ottenne più preferenze: il 17% degli aventi diritto al voto non...andò a votare (votanti 88.8% nel 1987, 87.2% il 5 aprile), come segno di disgusto, e protesta, verso una classe politica corrotta e lontana dalla gente.
Tutti i partiti presenti fino a quel momento in Parlamento saranno colpiti (chi solo sfiorati, chi distrutti) dalle indagini: quello che colpì più di tutti, a livello storico-politico, fu la fine di tutti i partiti membri del Pentapartito, la coalizione che governava l'Italia dal giugno 1981. Non a caso la Lega Nord fece il boom di voti grazie a questa situazione, ponendosi come partito alternativo ai partiti che avevano fatto dei finanziamenti illeciti il proprio business. E decuplicare i proprio voti in soli cinque anni è stato senza dubbio un successo clamoroso. Le elezioni per la XI legislatura saranno le ultime elezioni della cosidetta Prima repubblica. Il 6 aprile con i primi arresti di 8 imprenditori partì veramente l'indagine “Mani pulite”.


Mario Chiesa, l'uomo forte del Psi abbandonato al suo destino

Mario Chiesa, milanese del 1944, ha sempre fatto politica tra le fila del Partito socialista di Milano sin da ragazzo, militando in una sezione della periferia meneghina ed aveva fatto tanta gavetta sino a ricoprire, all'inizio degli anni Settanta, alcune cariche istituzionali. Nel 1986 venne nominato Presidente del “Trivulzio” e la carica gli venne confermata anche dopo le elezioni comunali del 1990. Il suo sogno era quello di diventare primo cittadino di Milano e ne aveva le potenzialità, visto il suo ramificato networking elettorale. Chiesa, durante gli interrogatori, disse di possedere un bacino elettorale di 7mila voti. Gli era necessario fare il salto di qualità e per questa ragione si avvicinò ai Craxi. Non a caso nel 1990 spingerà per l'elezione del secondo genito di Craxi a palazzo Marino, Vittorio detto “Bobo”, rimanendo lui in sella alla “Baggina”. Chiesa però oltre a puntare in alto, era uno che non guardava in faccia a nessuno e sin dai tempi del suo arrivo nel settore tecnico dell'ospedale Sacco , a metà degli anni Settanta, creò una fitta rete di tangenti per dare appalti. Ironia della sorte, la prima tangente incassata fu quella della “Carobbi”, azienda specializzata in manutenzioni, quando era direttore tecnico del “Sacco” e proprio di quella ditta furono i 37 milioni buttati nel water non appena i carabinieri lo colsero sul fatto.
L'arresto del 17 febbraio passò in sordina, ma il “pentolone” stava per esplodere. E tutta la sua rete di voti gli girò le spalle in men che non si dica, facendo terra bruciata attorno a lui. Di Pietro non chiese per Chiesa il processo per direttissima, ma volle andare a fondo con le indagini. Non poteva farsi scappare la ghiotta occasione, una volta per tutte, di scardinare il malaffare. Chiesa viene condotto a San Vittore ed il 23 marzo, interrogato per l'ennesima volta da di Pietro, vuotò il sacco, facendo nomi e cognomi di politici locali ed imprenditori che facevano di concussione e corruzione il loro pane quotidiano, spiegando che ogni partito aveva degli “esattori” occulti che prendevano le tangenti. Peccato che di Pietro, da scaltro ex poliziotto, bluffò spudoratamente, visto che nessuno aveva ancora parlato o tirato in ballo Chiesa. Parlò anche della sua carriera politica, iniziata da “tognoliano” e poi continuata, con successo, con il legame con Paolo Pillitteri, cognato di Craxi. Disse che fino al 1989 passava le tangenti incassate ad altri colleghi di partito, ma poi da quell'anno decise di “mettersi in proprio”, gestendole lui direttamente. Si venne a scoprire che Mario Chiesa aveva creato un proprio metodo per effettuare il suo progetto corruttivo: chiedere come tangente il 10% del totale dell'appalto complessivo. Il 3 marzo Bettino Craxi, leader del PSI, in un'intervista televisiva, scaricò subito il presidente del PAT definendolo con una parola che ha fatto storia nel dibattito politico nazionale, un “mariuolo”, e che il PSI in cinquant'anni di governo milanese non era mai stato lambito da inchieste di corruzione o di danni alla Pubblica Amministrazione, sostenendo che il Partito è lontano dalle inchieste e che i politici coinvolti sono solo pochi a fronte di decine di migliaia iscritti. Il leader socialista disse che anche lui era la vittima di tutto questo.
Di Pietro sapeva che Chiesa era un pesce piccolo in un mare di politici corrotti. Già dopo le prime indagini, il pm di origine molisana aveva un obiettivo solo: incastrare proprio Bettino Craxi. Chiesa dopo un po' di reticenza svuotò il sacco e disse ai magistrati milanesi che il sistema tangentistico era molto articolato e tutti i partiti ne avevano tratto beneficio, smentendo Craxi il quale disse che il “caso Chiesa” era isolato. In più, contro i magistrati, si alzò un velo di polemica da parte dei partiti i quali credevano che le indagini si sarebbero chiuse presto e che non ci sasrebbero state altre polemiche (come ribadirono i vertici della Democrazia Cristiana), mentre altri diedero la colpa alle toghe milanesi che si muovevano con il solo intento di alzare un polverone e di dare contro al PSI (come sostenne Craxi).
Dopo 44 giorni di carcere, gli furono concessi gli arresti domiciliari, la sua parabola politica era conclusa. Il 27 novembre Chiesa ricevette la prima sentenza: 6 anni di reclusione per corruzione e concussione e la restituzione di 7 miliardi. L'accusa, quindi di Pietro, aveva chiesto 10 anni. La vicenda di Mario Chiesa (e di tutti gli implicati) ha dimostrato l'amicizia “di facciata” dei politici: non appena l'ex Presidente del “Trivulzio” venne arrestato ed iniziò a “cantare”, tutti i politici socialisti milanesi presero le distanze da lui, lasciandolo da solo nel momento di maggiore difficoltà. Peccato che tutti quelli che si scostarono da lui erano anch'essi travolti dalle indagini. E gli “abbandoni” politici fecero nascere un tourbillon di accuse reciproche a significare “muoia Sansone e tutti i filistei”. Perchè uno deve pagare per tutti? Che tutti paghino per tutti.


Effetto domino su tutta la politica milanese

La confessione di Mario Chiesa creò un effetto domino in tutta la politica milanese e svelò un Sistema ben radicato, sviluppato e che vide coinvolti politici ed imprenditori legati tra loro da un giro di mazzette. Tutte le aziende municipalizzate furono coinvolte nelle indagini, dall'ATM (trasporto pubblico) alla MM (metropolitana), dall'AEM (energia) alla SEA (società che gestisce l'aeroporto di Malpensa) ai lavori, per esempio, per gli ospedali, del Piccolo teatro e del terzo anello dello stadio di san Siro nel progetto di “Italia '90”. Il fascicolo “8655/92”, quello di Mani pulite, ogni giorno prendeva consistenze sempre maggiori.
Si scoprì, ad esempio, che i vertici della “MM” crearono un vero sistema di ripartizione dei finanziamenti (illeciti) a tutti i partiti: il 37,5% andava ai socialisti, il 18% circa a democristiani e pidiessini, il 17% ai socialdemocratici. Proprio il dc Maurizio Prada, a capo del CDA di MM, è stato uno dei cassieri occulti delle tangenti, insieme al socialista Sergio Radaelli e all'ex PCI Luigi Carnevale Mijno.
E da quel momento si assistì anche ad una gara: arrivare prima di altri da di Pietro e dai suoi colleghi per confessare di avere concusso o corrotto onde evitare pene più pesanti, o comunque limitare i danni. Si arrivò ad avere oltre un arresto al giorno.
Si scoprì che era presente un “listino prezzi” per le tangenti da pagare: 3-4% per appalti sulle costruzioni e il 13% sugli appalti nelle costruzioni e gli imprenditori sapevano benissimo cosa fare, anzi si parlava anche di pseudo-consorzi tra imprenditori dove uno pagava a nome di tutti e i guadagni venivano divisi in quote prestabilite. Anche l'Arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, si pronunciò in favore delle indagini e sulla loro prosecuzione ma ma senza voler fare di tutta l'erba un fascio.
I soldi incassati per le tangenti andavano illecitamente nelle casse dei partiti in quanto la politica costava, soprattutto per giornali dei partiti, che vendevano pochissime copie, e per le campagne elettorali (monumentali erano ad esempio i congressi dei socialisti). I partiti potevano disporre invece dei finanziamenti (leciti) al partito, coprendo solo una piccola parte della loro “macchina” (la DC nazionale costava circa 60 miliardi di lire, quella milanese da sola 4, mentre il PSI ne costava 50).
Gli italiani a furia di sentire parlare in “giuridichese” imparono in poco tempo la differenza tra un avviso di garanzia e la custodia cautelare, tra un arresto in flagranza di reato e la differenza tra concussione e corruzione. Il segretario amministrativo della Democrazia Cristiana, il senatore bergamasco Severino Citaristi, ne diventerà un vero recordman, ricevendo dal 1992 alla conclusione delle indagini ben 74 avvisi di garanzia.
Un Sistema che aveva radici profonde nel cuore della politica milanese e che ebbe ripercussioni su quella nazionale, tra partiti politici distrutti e carriere politiche infrante. Questo è stato il ciclone “Mani pulite”, detto anche “Tangentopoli”. Il primo a coniare questo curioso epiteto fu il giornalista di “Repubblica” Piero Colaprico facendo il verso a Walt Disney: se “Paperopoli” era la città dei paperi, “Tangetopoli” era quella delle tangenti. A chiamarla “Mani pulite” ci ha pensato lo stesso di Pietro, prendendo le lettere “M” e “P”, le iniziali di Mike e Papa, ovvero come in tempo di guerra comunicavano i capitani e le procure, ovvero Zuliani e di Pietro.
L'espressione “Mani pulite” fu coniata già a metà degli anni Settanta dal comunista Giorgio Amendola, mentre è stato l'ex Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, a dire, all'inizio degli anni Ottanta, che chi volesse avvicinarsi alla politica avrebbe dovuto avere le mani pulite e non essere coinvolto in indagini o comunque avere la coscienza a posto e non cadere, o essere caduto, “in tentazione”.
Il politico allora era considerato una persona per bene cui l'elettore gli affidava il voto con la speranza di salvare il Paese, era invece la “chiave di Volta” del malaffare, la persona da contattare (e corrompere) per avere ciò che si voleva, prevalendo sugli altri concorrenti. L'indagine sulla corruzione e la concussione in politica e negli affari partì dalla Procura di Milano, ma in pochi mesi tutte le Procure nazionali decisero di unirsi ai magistrati milanesi, aprendo anch'esse indagini: da Pavia a Palermo, da Torino a Padova si scoprì che il malaffare era radicato ovunque. Oltre a Milano, altre due città che fecero i conti con l'indagine furono Roma ed, in particolare, Napoli, con l'indagine contro i politici locali, gli ex ministri democristiani Paolo Cirino Pomicino ed Antonio Gava, il liberale ex Ministro della Salute Francesco de Lorenzo ed il socialista Giulio di Donato.
Se il MSI e la Lega sono solo state lambite dalle ingini, furono colpiti duramente due dei partiti laici del Pentapartito, il Pri e il PSDI. Si dirà in seguito che se Giovanni Spadolini perse la corsa per il Quirinale nel maggio 1992, la colpa fu da attribuire agli avvisi di garanzia che ricevettero alcuni esponenti repubblicani, come il deputato, ed ex vice sindaco di Milano, Antonio del Pennino, e l'arresto, nel maggio, dell'ex Presidente della Provincia di Milano, Giacomo Properzj, per aver intascato una tangente di oltre 500milioni per l'affaire AEM. Per i socialdemocratici venne iscritto nel registro del indagati il parlamentare Renato Massari, mentre il 30 aprile venne arrestato il segretario del Partito, ed ex ministro al Bilancio, Pietro Longo per una maxi tangente da un'azienda privata per costruire la centrale idroelettrica di Edolo. Nel giugno fu colto in flagranza di reato l'assessore della Provincia di Roma, Lamberto Mancini, che insaccò una tangente di circa 28 milioni di lire.
I primi politici milanesi ad avere avuto un avviso di garanzia furono due esponenti di spicco del PSI milanese: Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri. Il primo è stato sindaco del comune lombardo per dieci anni, tra il 1976 e il 1986, mentre il secondo, cognato di Bettino Craxi, gli è succeduto sulla poltrona di palazzo Marino e ha mantenuto la carica fino all'inizio del 1992 poi passata a Giampiero Borghini, socialista con un passato nel Pci-Pds.
Tognoli e Pillitteri, il giorno dopo aver ricevuto l'avviso di garanzia, convocarono una conferenza stampa congiunta in cui dissero che erano lontani dalle tangenti e da quel “mondo”. Qualche tempo dopo saranno condannati proprio per tangenti. Tognoli fu uno dei primi a scaricare Chiesa dicendo che dietro alle indagini della Procura ci fosse un piano per screditare il partito. Il nome dei due politici socialisti era presente in una specie di libro-mastro tenuto dal Chiesa dove registrava tutti i movimenti monetari.
Il 7 maggio, a causa degli arresti e degli inquisiti, il PSI lombardo venne azzerato e Craxi decise di mandare Giuliano Amato, sottosegretario alla Presidenza nei due governi Craxi nonché vicePresidente del Partito, ad occupare il ruolo di commissario. Una persona tutta d'un pezzo che con l'elezione di Scalfaro a Capo dello Stato divenne, il 28 giugno 1992, il secondo Premier proveniente dalla fila del PSI. Non fu mai indagato durante il periodo “Tangentopoli”.


Il pool di magistrati con i contro fiocchi IL 27 aprile 1992 nasceva il pool di Mani pulite, il gruppo di magistrati impegnati a tempo pieno nelle indagini, confrontandosi e condividendo oneri ed onori. Ne fecero parte, tra i tanti. Antonio di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, coordinati da Gerardo d'Ambrosio e Francesco Saverio Borrelli.
Antonio di Pietro aveva 42 anni e da giovane aveva svolto qualsiasi lavoro, anche emigrando all'estero. A metà degli anni Settanta entrò al Ministero della Difesa e si laureò, nel frattempo, in giurispudenza. Vinse un concorso in polizia agli inizi degli anni Ottanta diventando vice Commissario, indagando sullo spaccio di sostanze stupefacenti, ma qualche anno dopo entrò in magistratura. Si disse che fosse filosocialista, nonostante il partito del Garofano fu affossato proprio dalle sue indagini. Il suo ruolo nel pool era quello di archiviare le carte e gestire gli interrogatori. Di Pietro coniò un altro termine che evidenzia in maniera chiara lo spirito di “tangentopoli”: la “dazione ambientale”, dove tutti quanti sapevano che se volevano vincere un appalto o avere qualche vantaggio dovevano pagare in maniera automatica. Il magistrato parlò appunto di un sistema generale, pervasivo ed automatico: l'esempio più spettacolare, venuto a galla durante gli interrogatori, era la tecnica della “pallina fredda” che consisteva, prima del sorteggio in una procedura concorsuale per un appalto, nel raffreddare una palla con all'interno un nome “amico” durante il sorteggio per l'assegnazione, ad esempio, degli appalti. Il sorteggiante, “amico” anch'esso, nel girare le sfere, sentiva al tatto la più fredda, la estraeva e les joeux sont fait.
Di Pietro ha ripulito la politica nazionale ed il pool è sulla bocca di tutti. Su di loro si vanno interessando i quotidiani stranieri, ma anche i telegiornali, soprattutto quelli Fininvest (per ovvi motivi), creano proprio degli inviati “speciali” di cronaca giudiziaria davanti al tribunale di Milano per seguire da vicino tutta la vicenda Mani pulite: questi stanno davanti al Tribunale 24 su 24, filmano, registrano, intervistano. Sempre. Nasce anche una sorta di pool tra i giornalisti stessi, dove si scambiano informazioni, notizie, rumors e le domande da porre ai magistrati, avvocati ed inquisiti. In un clima del genere nascono i primi talk show politici, da “Samarcanda” di Michele Santoro a “Milano-Italia” di Gad Lerner, nonché il celebre “L'istruttoria” di Giuliano Ferrara. Fininvest in quel periodo si discosta molto dalla Rai visto che era una tv di Stato lottizzata dalla politica nazionale.
Gherardo Colombo aveva 46 anni ed era già noto alle cronache per le sue indagini sulla lista della Loggia P2, il delitto del liquidatore della Banca Privata Italiana Giorgio Ambrosoli ed i fondi neri dell'Iri, due situazioni che non proseguirono ma che furono bloccate e forse avrebbero fatto scoprire il “bubbone” tangentistico con qualche anno d'anticipo. Il suo compito era di esaminare le carte sequestrate.
Piercamillo Davigo, coetaneo di di Pietro, era l'anima giuridica della squadra, un uomo tutto d'un pezzo che aveva già avuto a che fare con il mondo della corruzione indagando sulle “carceri d'oro”. Il suo ruolo era quello di chiedere le autorizzazioni a procedere alle Camere per l'arresto del politico indagato.
I capi di questo gruppo agguerrito di magistrati furono Gerardo d'Ambrosio, allora 61enne, già noto per le sue indagini sulla strage di piazza Fontana e sulla vicenda “Calabresi-Pinelli” che scagionò il commissario, e Francesco Saverio Borrelli, napoletano, cinquantacinquenne entrato in magistratura nel 1955 ed aveva scalato tutti i gradi, diventando Procuratore Capo di Milano nel 1988. Fino alla fine delle indagini altri magistrati fecero parte del pool, come Armando Spataro, Ilda Boccassini e Tiziana Parenti.
Il pool milanese voleva seguire le orme dell'omonimo creato da Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto a Palermo per combattere in maniera vincente, e differente, la Mafia, e per vincere dovevano essere amici, confidenti, esperti. Se a Palermo volevano ridare dignità alla città e alla regione, a Milano volevano ridare dignità alla città, alla politica nazionale e al Paese intero. Se la vittoria del pool palermitano fu il Maxiprocesso alla Mafia (novembre 1986-dicembre 1987) e portò alla condanna di oltre 350 mafiosi, a Milano è dal 1993 che le indagini hanno subito un'impennata vorticosa, con l'accusa di corruzione a Craxi.
Il pool di Palermo venne sciolto dal nuovo Procuratore Antonino Meli subito dopo la nomina, mentre quello milanese chiuse la sua esperienza nel 1996, dopo lo scagionamento dei suoi membri dalle accuse mosse contro di loro dal 1994.
Se il pool di Mani pulite fosse stata una squadra sportiva, di Pietro ne sarebbe stato il capitano ed il cannoniere. La “squadra” milanese si sciolse il 14 luglio 1994 a causa, tra le tante, del “decreto Biondi”, dal nome del ministro di Grazia e Giustizia del Berlusconi I, approvato il giorno prima che affidava agli arresti domiciarli tutte le persone in carcere per le indagini. Il pool si sentì preso in giro e i magistrati chiesero di essere affidati ad altri incarichi.


I primi suicidi degli indagati e le critiche al pool

Ovviamente tutti coloro che ricevettero gli avvisi di garanzia e quelli che sentirono “puzza di bruciato” iniziarono a fare una “processione” davanti alla scrivania di di Pietro e dei suoi colleghi, ma non reagirono tutti allo stesso modo: c'è chi ne rimase traumatizzato, chi pensò che l'indagine sarebbe durata poco tempo e si sarebbe conclusa in un nulla di fatto, chi pianse, chi scaricò le colpe sui colleghi di partito. E ci fu chi decise di uccidersi. Nei tre anni di indagini, si tolsero la vita trentun persone (undici nel '92, dieci nel '93 e dieci l'anno dopo).
Il primo suicidio “politico” avvenne martedì 16 giugno con la morte di Renato Amorese, leader dei socialisti lodigiani, 49 anni, consulente finanziario. Era stato convocato da di Pietro nel suo ufficio pochissimo tempo prima. Era stato collaborativo e non si sentiva turbato, anche perchè non era stato tirato in ballo nelle indagini, ma solo perchè consulente di una società couinvolta nel “caso Chiesa”. Si diceva che avesse preso una forte tangente.
Ma il primo suicidio “importante” avvenne il 2 settembre in una cantina di una villa a Brescia. A togliersi la vita fu un politico di spicco della politica lombarda, il socialista Sergio Moroni, 45enne uomo forte del partito del Garofano e legato da profonda amicizia con Craxi, nonché tesoriere regionale del Partito.
Era alla seconda legislatura e fino a quel momento aveva ricevuto già tre avvisi di garanzia in quanto ritenuto “esattore” delle tangenti per lo smaltimento dei rifiuti, per le Ferrovie Nord e per i lavori all'ospedale di Lecco quando era assessore regionale. Essendo parlamentare poteva godere dell'immunità e per questo motivo non fu arrestato, anche se il pool aveva comunque chiesto l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti. Sentitosi braccato dalle indagini, si suicidò sparandosi un colpo di fucile in bocca. Furono trovate alcune lettere, tra cui una indirizzata all'allora Presidente della Camera, Giorgio Napolitano, dove scrisse che non aveva mai preso tangenti e che la politica ha avuto le colpe di nascondere il sistema, accusando anche il clima “da pogrom” che si stava vivendo il Paese. Sua figlia Chiara, allora diciottenne, nove anni dopo diventò deputato. Tra gli altri suicidi eccellenti, fu il 1993 l'anno caldo: il 20 luglio, al quarto mese in carcere, si uccise a San Vittore Gabriele Cagliari, Presidente dell'Eni, indagato ed arrestato per i fondi neri nell'ambito SAI e per una presunta maxitangente. Lasciò alcune lettere contro il pool per la conduzione delle indagini e per la severità nelle carcerazioni preventive.
Tre giorni dopo si uccise nella sua villa Raul Gardini, genero del fondatore della Ferruzzi e capo di Montedison. Gardini aveva paura di finire in carcere viste le dichiarazioni di Giuseppe Garofano sulla vicenda Enimont. Si sparò con il suo fucile.


Tra gli attentati di Capaci e di via d'Amelio, un Capo dello Stato da eleggere

In un'Italia che vide ogni giorno arresti, avvisi di garanzia ed un clamore televisivo mai visto, ecco tornare forte come non mai la Mafia. “Cosa nostra” era guidata dai Corleonesi, coordinata dai super boss latitanti Totò Riina e Bernardo Provenzano. Durante gli anni Ottanta sono molti gli omicidi di magistrati, politici ed imprenditori, usando la tecnica dello “stragismo”. Anche la Mafia doveva riorganizzarsi e i Corleonesi decisero da attuare stragi per far tremare i “palazzi”.
Il 23 maggio 1992 sull'autostrada A29, nei pressi dell'uscita “Capaci”, in direzione Palermo, scoppiò una bomba di 400 chilogrammi posizionata sopra uno skateboard e fatta scivolare in un tunnel sotterraneo. Furono colpite dal fragore la Fiat Croma blindata guidata dal giudice Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia, con a fianco la moglie Morvillo ed il poliziotto della scorta, e altre due “Croma” con a bordo la restante scorta. Lo scoppio creò una voragine di almeno tre metri e mezzo di profondità. Falcone non morirà sul colpo, ma la sua vita terminerà qualche ora dopo all'ospedale di Palermo, mentre la moglie circa tre ore dopo. Giovanni Falcone aveva 56 anni e da anni era in prima linea nella caccia ai boss della “Cupola”. I poliziotti della sua scorta che persero la vita erano Vito Schifani, Rocco Dicillo ed Antonio Montinaro, mentre altri quattro poliziotti di scorta sopravvissero nonostante le forti ferite, tra cui Giuseppe Costanza che avrebbe dovuto essere alla guida della Croma blindata, ma che invece volle guidarla Falcone.
La morte di Falcone era già nei piani di “Cosa nostra” da oltre un anno ed era già scampato ad un altro attentato, noto come “dell'Addaura”, il 21 giugno 1989, quando la sua scorta scoprì una bomba che doveva esplodere ma che invece non esplose. Il mandante dell'attentato era Totò Riina. Dalle indagini si scoprì che ad azionare il detonatore a Capaci fu Giovanni Brusca, mentre parteciparono all'attentato Pietro Rampulla, Raffaele Ganci, Gioacchino La Barbera, Santino di Matteo ed Antonino Gioè.
Lo sdegno nel Paese fu molto elevato e le esequie di Falcone videro l'intera città di Palermo riversarsi nella chiesa di san Domenico per dare l'ultimo saluto al coraggioso magistrato: tutti i politici che accorsero per dargli l'estremo saluto ricevettero fischi (si recarono tra gli altri Martelli, Spadolini ed il ministro dell'Interno Scotti), mentre fu applaudito il pool milanese giunto nel capoluogo siciliano per salutare il collega. Molto intenso fu il messaggio letto da una delle vedove, Rosaria Costa Schifani, contro i mafiosi cui avrebbe concesso loro il perdono per la strage, ma solo se lo avessero chiesto in ginocchio, ma lei sapeva che non sarebbero mai cambiati.
Quella stessa settimana era in corso l'elezione del IX Presidente della Repubblica. Dopo un nulla di fatto, il 26 maggio, al sedicesimo scrutinio, si decise di trovare l'erede di Cossiga. Venne eletto il democristiano Oscar Luigi, novarese di 74 anni, con 672 voti. L'elezione del politico democristiano di lunghissimo corso è parsa come una scelta veloce e risoluta della situazione politica nazionale. Durante le votazioni caddero prima Arnaldo Forlani (colpito dai franchi tiratori DC), Giulio Andreotti, in quanto un suo luogotenente in Sicilia, Salvo Lima, era stato ucciso dalla Mafia il 12 marzo precedente, e anche Giovanni Spadolini, in quanto alcuni esponenti di spicco del suo partito, il Repubblicano, avevano ricevuto alcuni avvisi di garanzia. Divenne Capo dello Stato un uomo delle istituzioni, conservatore ed ex magistrato.
Il 19 luglio, alle ore 16:58, un'altra bomba scosse l'Italia: in via d'Amelio, a Palermo, una Fiat 126 imbottita di 100 chilogrammi di tritolo esplose non appena il giudice antiMafia Paolo Borsellino suonò il campanello della casa della madre. La deflagrazione colpì il magistato 52enne e la sua scorta. Oltre al giudice morirono cinque agenti di scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto fu Antonino Vullo che descrisse l'esplosione come un qualcosa di terribile e spaventoso. Borsellino morì 57 giorni dopo l'amico-collega Giovanni Falcone. Il 24 luglio si tennero le esequie private, per volontà dei famigliari che non volevano politici alle esequie, si tennero in una chiesa periferica cara al giudice.
Ai due eroi della lotta contro la Mafia sono state decicate vie, scuole, aule di tribunali e l'aeroporto di Palermo.
Gli eccidi di Capaci e di via d'Amelio rientrano a pieno titolo nella stagione delle bombe che la Mafia fece partire per screditare il Paese rendendolo debole e ingabbiandolo nelle “trattative”. Le altre bombe furono quella (fallita) di via Fauro a Roma (14 febbraio 93), quella di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 93) che causò 5 vittime e 35 feriti, quella di via Palestro a Milano (27 luglio 1993) che causò anch'essa cinque morti, le bombe alle chiese di san Giovanni in Laterano e san Giorgio in Velabro (28 luglio 1993), che non causarono vittime, e quella contro lo stadio Olimpico di Roma, il 23 gennaio 94, che non esplose e che sarebbe potuta scoppiare durante una partita di calcio di cartello.
Le stragi del 1992-1993 furono diverse rispetto a quelle degli anni di piombo, perchè queste avevano dietro la Mafia, l'organizzazione criminale più pericolosa in italia, che doveva riorganizzarsi dopo la fine dell'equilibrio (caduta del Muro e fine della Guerra fredda) e con lo stragismo cercava di colpire uno Stato debole e metterlo ko, portarlo ad un tavolo e fare le famose “trattative”.


Il simbolo positivo di Tangentopoli: Antonio di Pietro.

Antonio di Pietro è sempre stato identificato come il leader di “Mani pulite”, il magistrato che ha distrutto i partiti corrotti e messo in galera politici collusi e corruttori.
La forza del magistrato di origine molisana è stata anche nell'aver carpito l'importanza dei mezzi informatici, mai utilizzati fino a quel momento. Scrivere un atto a mano o con il computer era molto diverso: riduzione del tempo e maggiore possibilità di incrociare i dati a disposizione. Conosce bene la corruzione, avendo indagato sulla vicenda “carceri d'oro” del 1988, “Lombardia Informatica” e le forniture all'ATM. E su Chiesa aveva elementi tali per cui procedere grazie ad una rilevazione, datata 1990, in cui si parlava di “racket del caro estinto” negli ospizi milanesi.
Di Pietro diventa un idolo nazionalpopolare, capace da solo di abbattere l'omertà di un sistema marcio e corrotto che ha dominato il Paese fino a quel momento. Ovviamente di Pietro non è amato da tutti, ma sono proprio i politici ad essere contro di lui per i suoi metodi poco ortodossi di condurre gli interrogatori e per il fatto di usare termini gergali non proprio appropriati per un magistrato. Ma se la politica lo detesta, la folla lo adora, tanto che in quei mesi caldi di indagini nasce, addirittura, un merchandising con magliette e orologi griffati “legalità”, uniti a cori da stadio verso il magistrato ed i suoi colleghi. Proprio la gente è dalla sua parte, scendendo in strada a manifestare contro quella parte di Italia (la politica) che doveva fare del bene al Paese ma che invece fece solo del male.
E' particolare anche il modo di porsi: non appena scoprì che Chiesa aveva due conti nascosti in Svizzera cui aveva dato i nomi di due acque molte note, di Pietro li sequestrò e contattò l'avvocato dell'esponente socialista dicendogli che “l'acqua minerale [era] finita”. Oppure il bluff contro Roberto Mongini, democristiano vicePresidente della Sea, per costringerlo a parlare di Pietro prese dei faldoni a caso e li porse al politico milanese dicendogli che quelle erano le accuse contro di lui. Mongini, resosi conto di essere con le spalle al muro, vuotò il sacco. Ma anche il definire sui giornali e alle tv di aver colto Chiesa “con le mani nella marmellata” fu un'altra frase celebre usata dal magistrato di Montenero di Bisaccia.
L'obiettivo numero uno per Antonio di Pietro fu Bettino Craxi, il politico intoccabile per antonomasia e dal 1976 leader del Partito Socialista Italiano. Il 15 dicembre il politico socialista ricevette il primo dei suoi oltre venti avvisi di garanzia. Il primo ebbe ben 40 capi di imputazione, di cui diciasette per concorso in corruzione. La parabola politica di Craxi finì nel maggio 1994 quando fuggì in Tunisia, ad Hammamet, dove morì il 19 gennaio 2000. L'evento più violento contro il politico milanese furono i fatti dell'hotel Raphael di Roma la sera del 30 aprile 1993 (il giorno dopo suo discorso alla Camera dove ammise di aver preso finanziamenti illeciti), dopo che la Camera dei Deputati aveva rifiutato l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti, una folla inferocita si radunò davanti alla sua residenza intonando cori di scherno verso di lui. Non appena uscì, la sua auto venne bersagliata da migliaia di monetine.


Conclusioni

Il 1992 è stato uno degli anni più neri della storia della Repubblica italiana: il neo entrato in vigore Trattato di Maastricht, quello che ha trasformato la Cee in Unione europea prevedeva dei parametri cui ogni Nazione doveva rispettare per fare parte del patto e il nostro Paese era pesantemente over in ogni paramentro. L'inflazione era attestata sul 6,9%, mentre i paramentri la volevano al 3%, il deficit di bilancio era all'11% invece che al 3, quasi doppiato il rapporto deficit/PIL (60% Maastricht, 118% Italia). A questo, ci fu da aggiungere la svalutazione della lira e la sua uscita dal Sistema Monetario Europeo con il Paese era sull'orlo della bancarotta. Proprio in quel mese il governo presieduto da Giuliano Amato promosse una manovra da 100.000 miliardi di lire per risanare le casse dello Stato, promuovendo anche la privatizzazione di quattro colossi statali come Iri, Enel, Ina ed Eni che divennero delle società per azioni. La lira, dopo il 16 settembre, ribattezzato “il mercoledì nero della Borsa”, uscì dallo SME, insieme alla Gran Bretagna, rientrandovi solamente nel 1996.
L'Italia era comunque uno dei Paesi più industrializzati al Mondo, ma dal punto di vista economico la classe politica allora al potere e pensava più a se stessa che al bene comune. In appena tre mesi (agosto-novembre) la lira si svalutò del 40% rispetto al marco tedesco, moneta della Nazione ieri come oggi più forte economicamente. Il 1992, come detto, è stato l'anno delle ultime elezioni politiche della Prima repubblica: finiva il sistema politico-partitico nato nel dopoguerra e che ha governato il Paese dal 1948 sino a 1994, e nasceva una nuova politica. Era cambiato il sistema elettorale (il Mattarellum al posto del proporzionale puro), le coalizioni si formavano prima del voto e non dopo (la prima coalizione a vincere fu il “Polo” guidata da Silvio Berlusconi, sceso in campo appena due mesi prima del voto con il suo nuovo partito, Forza Italia) e per la prima volta entrarono nella squadra di governo il Movimento Sociale Italia, che si stava trasformando in Alleanza Nazionale, e la Lega Nord, il partito settentrionalista entrato per la prima volta in Parlamento solo sette anni prima.
Il sistema tangentistico ha infettato tutto il Paese, basti pensare che le opere pubbliche derivate dall'illeceità del Sistema sono costate sempre al meno il doppio di quanto erano state preventivate. La stessa cosa per le tempistiche di realizzazione: nel 1992 un chilometro della metro milanese costava 192 miliardi, contro i 45 di quella di Amburgo, i lavori per il “passante ferroviario” arrivò a costare 100 miliardi in dodici anni di lavori, mentre l'omologo di Zurigo fu realizzato in sette anni e costato solo 50.
Si disse che le tangenti ebbero un “costo”: 10mila niliardi l'anno era l'ammontare totale, con un indebitamento pubblico di circa 200mila miliardi di lire. Cifre da capogiro che andarono ad incidere anche sul debito pubblico, che nel 1980 era al 60%, tra l'inizio del Craxi I e del Craxi II fu del 70 e del 92% e nel 1992 arrivò al 118%. Non a caso il 26 luglio “The Observer”, il domenicale inglese tra i più famosi al Mondo, uscì con un articolo al vetriolo contro il nostro Paese definendo la “repubblica delle banane d'Europa” che viveva in una condizione di caos.
Sono passati ventidue anni dall'apertura delle indagini he hanno scosso l'Italia, ma il malcostume nel nostro Paese non è stato annientato. Fortunatamente lo stragismo mafioso si. Almeno quello.


Biografia di riferimento:

Barbacetto G. – Gomez P. – Travaglio M., Mani pulite. La vera storia, Editori Riuniti, Roma, 2002;

Colaprico P., Capire Tangentopoli: un manuale per capire, un manuale per riflettere, il Saggiatore, 1996;

Corrias P. – Gramellini M. – Maltese C., 1994. Colpo grosso, Baldini&Castoldi, 1994;

Gomez P. – Travaglio M., La repubblica delle banane, Editori Riuniti, Roma, 2001;

Montanelli I. - Biagi E., L'Italia degli anni di fango, Rizzoli, Milano, 1993


Veltri E. - Travaglio M., L'odore dei soldi, Editori Riuniti, Roma, 2000
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Articoli pubblicati da Simone Balocco e Paola Maggiora


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