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Novara dalla caduta del fascismo alla Liberazione [ di Simone Balocco e Paola Maggiora ]

Cade il regime, ma la guerra continua. Nasce e muore la RSI

Quello che accadde la notte tra il 24 e il 25 luglio 1943 durante l’ultima riunione del Gran Consiglio del Fascismo ebbe un’eco di straordinaria importanza in Italia: il celebre “ordine del giorno: Grandi” sancì la sfiducia dell’istituto supremo fascista nei confronti del Duce e, dopo un Ventennio, faceva cadere il fascismo. Mussolini venne incarcerato ed il Maresciallo d’Italia, Pietro Badoglio, traghettò il Paese per 45 giorni fino alla firma dell’armistizio dell’Italia con gli Alleati, avvenuto il 3 settembre 1943, reso pubblico il successivo 8 settembre.
Subito dopo la sfiducia, Mussolini venne convocato dal Re, arrestato e condotto prima in una prigione di Roma-Prati, poi a Ventotene, Ponza e alla Maddalena, mentre dal 28 agosto al 12 settembre a Campo Imperatore sul Gran Sasso, per poi essere scarcerato dai militari nazisti guidati da Otto Skorzeny e portato al cospetto di Hitler a Berlino. L’incarico di Mussolini (inteso come capo del Governo) fu assegnato al Maresciallo d’Italia Badoglio, il quale sottolineò che la guerra non era per niente finita, ma il Paese però era libero dalla dittatura. I fedeli alla causa nazifascista erano consci che la guerra era ormai persa.
Cadde il “fascismo regime”, ma il fascismo (come ideale politico) non morì del tutto, perché per Hitler era troppo importante salvaguardare comunque l’Italia, ovvero la parte meridionale del fronte di guerra in Europa. Doveva nascere un nuovo alleato visto che con l’armistizio di Cassibile l’Italia usciva dalla guerra: il 23 settembre 1943 vide la luce quella che passò alla storia come la Repubblica Sociale Italiana, uno Stato vassallo della Germania nazista con capitale Salò, nel Bresciano, che durò fino al 25 aprile 1945. La nascita di un nuovo soggetto statale era necessaria nper continuare il conflitto, secondo i nazisti.
La capitale del nuovo Stato nell’idea di Mussolini doveva essere Roma, ma per motivi bellici non lo fu in quanto i confini meridionali della RSI arrivarono fino al basso Lazio, riducendo il proprio territorio ogni qualvolta l’esercito di Resistenza e gli Alleati si spingevano verso Nord e venne riconosciuta solo dalla stessa Germania e dai Paesi alleati dell’Asse (Francia di Vichy, Slovacchia, Manchuko, Croazia, Ungheria, Romania). I suoi fondami ideologici erano un misto di corporativismo, socialnazionalismo, fascismo e razzismo antisemita (la RSI riconobbe le leggi razziali del 1938). La capitale fu Gargnano, ma gli incontri più importanti, soprattutto quelli diplomatici, si tennero a Salò, e per questa ragione fu definita “Repubblica di Salò” e i militari “repubblichini”. A Gargnano c’era villa Feltrinelli, residenza di Mussolini.
Dopo neanche due anni il progetto politico della RSI cadde il 25 aprile 1945 a seguito della Liberazione del Nord Italia, la cattura di Mussolini a Dongo, sul lago di Como, e la sua fucilazione a Giulino di Mezzegra e l’esposizione del suo cadavere in piazzale Loreto a Milano il 28 dove un anno prima furono uccisi quindici partigiani. Il 2 maggio ci fu la resa incondizionata di Caserta, dove la guerra fu dichiarata conclusa e il 10 febbraio 1947 si arrivò al trattato di Pace di Parigi con le forze Alleate vincitrici del conflitto.


Novara durante il periodo “badogliano”

La notizia della caduta del fascismo a Novara venne presa con gioia e soddisfazione dai cittadini, che già il 25 luglio erano in giro a fare festa ed a distruggere tutti i simboli del regime. Si tennero i primi comizi spontanei. Ma la guerra continuava inesorabilmente. I fascisti ed i militari rimasti fedeli presidiarono i punti nevralgici del fascismo novarese (casa Littoria, Poste, Municipio, Prefettura), ma in città si respirava comunque un’aria nuova.
Francesco Ballero era il prefetto del tempo, il quale manifestò un forte antifascismo tanto da avvicinarsi ad uno dei capi della Resistenza novarese, il professor Piero Fornara. Tre mesi dopo venne sollevato dall’incarico e il 21 ottobre 1943 venne sostituito da Dante Tuninetti. Commissario prefettizio fu Ferdinando lo Monaco e successivamente divenne podestà il direttore dell’istituto Dominioni” (l’orfanotrofio cittadino), Ettore Bossi, avvocato molto noto in città nonché benefattore e proprietario dell’antonelliana “casa”, celebre costruzione cittadina.
Gli antifascisti vennero internati all’interno del castello sforzesco posto nell’allora piazza Vittorio Emanuele (oggi piazza Martiri) anche solo per pochi giorni.
Poco dopo la caduta del fascismo, iniziò la ripresa delle attività antifascista e di Resistenza. Venne alla luce tutto quel ginepraio di attività che avevano tramato contro la dittatura sin dai suoi esordi. Epicentro di queste furono le case di famiglie legate ai dettami del socialismo, del comunismo e del liberismo: dai Bonfantini ai Ballario, dai Pasquali ai Tosi, ai Bermani, dai circoli “popolari” ai ritrovi abituali dei dopolavoristi, in poco tempo vicini alle posizioni comuniste.
A rendere difficoltoso il tutto fu l’arrivo in città dei militari tedeschi, anche perché Novara faceva parte della Repubblica sociale ed essendo un territorio controllato dai tedeschi, questi arrivarono e cercarono di controllarlo ed evitare “sbandamenti”: nel settembre ’43 arrivò il primo gruppo di SS che impose i pesanti dettami dell’esercito, la città era occupata ed i novaresi vivevano tra perquisizioni, coprifuoco e minacce.
Il 12 settembre i tedeschi appena arrivati in città causarono la morte con fucilazione del giovane antifascista ceranese Giuseppe Ubezio, ucciso a colpi di mitraglia nei pressi della caserma “Perrone”, colpito perché forse ritenuto un possibile ladro di armi. Ancora oggi nel luogo dell’omicidio è presente una lapide muraria in ricordo.


L’unico partito legale: il Partito Fascista Repubblicano

Il Partito Nazionale Fascista, nato nel 1921, morì con la sentenza del Gran Consiglio del luglio 1943. La decisione del feldmaresciallo Kesserling di rendere il Nord Italia territorio di guerra sotto il controllo dei tedeschi portò alla nascita, appunto, di uno Stato ed anche di un partito: il 18 settembre 1943 nacquero la già citata Repubblica Sociale Italiana ed il Partito Fascista Repubblicano, onde evitare un controllo troppo invasivo sul territorio italiano. I poteri dello Stato e del Partito erano nulli, in quanto i nazisti lo resero “Stato fantoccio”, ovvero subordinato totalmente alla Germania, mentre il secondo fu ritenuto uno “zuccherino” da parte dei nazisti, dato che oramai il fascismo era morto la notte del 24 luglio.
Il PFR fu guidato da Alessandro Pavolini, ex capo del MinCulPop, ed il nuovo “Manifesto di San Sepolcro” divenne il “Manifesto di Verona”, il quale stabilì il nome del nuovo Stato ed il suo ordinamento, le regole per l’arruolamento nel nuovo esercito, la decisione di portare avanti la guerra con i nazisti contro gli anglo-americani, ma soprattutto punire tutti coloro che tradirono la “causa” fascista la notte dell’”ordine del giorno Grandi”.
A Novara i “nuovi” fascisti si riorganizzarono occupando i vecchi Circoli esistenti e la sede di Casa Littoria venne confermata presso il palazzo dell’odierna piazza del Popolo, già sede del PNF novarese dal 1939. I leader del nuovo partito furono lo zoccolo duro del fascismo locale: Ezio Maria Gray, Amedeo Belloni ed Emanuele Basile. Si persero le “tracce” del senatore Rossini, oramai ai margini della vita politica cittadina e riparato in Svizzera perché colpito da condanna di morte dal Tribunale provinciale straordinario. Il Tribunale novarese, composto da persone di chiara e spiccata fede fascista, aveva sede nell’odierno palazzo Borsa di piazza Vittorio. Oltre al senatore Rossini furono colpiti altri 24 soggetti.
I posti di potere vennero occupati da coloro che erano vicini al primo fascismo, ora aderenti al nuovo Partito: dopo quello che fece Vittorio Emanuele III a Mussolini, la monarchia era invisa ai fascisti.


Militari a Novara: un fallimento totale. Il ruolo delle “brigate nere”

Un qualsiasi Stato è dotato, anche rudimentalmente, di un esercito e di forze armate. Anche la Repubblica Sociale ne ebbe uno, ma molto scalcinato se relazionato a quello italiano che invase l’Albania e la Grecia, non molto efficiente già di suo.
Nei due anni di attività, la Repubblica di Salò riuscì ad inquadrare solo poco più che 250mila militari (molti di questi volontari) ed il fiore all’occhiello fu la X Mas del generale Junio Valerio Borghese, che svolse attività di polizia e repressione. Ancora più scarse furono l’aviazione e l’esercito, la prima ridotta drasticamente mentre la seconda era formata anche da giovani in parte volontari (come detto), ma anche da giovani obbligati dalle minacce di fucilazioni in caso di rifiuto.
Importante è stato il ruolo della Guardia Nazionale Repubblicana, la versione “repubblichina” di quella che fu la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale fascista, ed ebbe un ruolo di polizia militare e giudiziaria. A Novara la sede della GNR fu presso la caserma “Tamburini” di baluardo La Marmora (odierna sede dei Carabinieri) e dal 1944 presso la scuola “Ferraris”, mentre l’Ufficio politico venne ubicato in centro, prima in via Avogadro e poi anch’esso presso la sede della Guardia, mentre le militi donne (il Servizio Ausiliario Femminile) vennero fatte insediare nel quartiere Sacro Cuore nei locali del convento delle suore di via Frasconi. L’esercito fu dislocato tra le caserme “Perrone”, “Passalacqua” e “Cavalli”.
Dal punto di vista dell’arruolamento, molti giovani decisero di sottrarsi al reclutamento in quanto delusi dalle promesse fatte dal fascismo prima dell’inizio della guerra o perché inquadrati nelle prime forze di resistenza partigiana. Per chi non si arruolava l’alternativa era o la fucilazione o l’internamento nei campi di concentramento in Germania e Polonia, dove molti non tornarono indietro. I primi nuclei partigiani, in collaborazione con il Comitato di Liberazione Nazionale nacquero ad Arona per mano di uno dei principali fautori della “disobbedienza”, il socialista Alberto Jacometti da San Pietro Mosezzo, classe 1921, nome di battaglia “Andrea”. Dalla città lacuale, i gruppi partigiani nacquero in tutta la Provincia. Tranne che a Novara, ritenuta troppo poco sicura e distante dalle montagne, vere roccaforti della Resistenza. I membri del CLN erano di tutte le estrazioni sociali, di tutte le età, si spostavano con i mezzi in loro possesso (dall’auto alla bicicletta), “esercitavano” dove lavoravano o a scuola. Anche negli studi professionali, come quello di Ugo Porzio Giovanola e di Piero Fornara.
Nel 1944, considerato da tutti il peggior anno di guerra, il Partito Fascista Repubblicano istituì il “braccio armato” del Partito, composto da persone fedeli all’Idea in maniera tale da poter aiutare la GNR, in difficoltà nel reperire volontari. Il nome di questo corpo fu “Brigate nere”, in contrapposizione alle “brigate” partigiane (“Garibaldi”, “Osoppo”, “Matteotti”) di matrice “rossa”. Furono un fallimento come numeri (divennero membri poco più che 20mila persone contro le oltre 100mila previste da Pavolini). Nei loro due anni di attività le “Brigate nere” commisero omicidi, furti, rapine, violenze e distruzioni.


Il personaggio più importante della Resistenza novarese: Piero Fornara
A Novara la parola “Resistenza” fa rima con Piero Fornara. Nato a Novara nel 1897, la sua professione era quella di pediatra e non a caso il suo soprannome era “al dutur di fiulin” (il dottore di bambini). Primario al “Maggiore”, a causa del suo antifascismo dovette rinunciare all’insegnamento per dedicarsi esclusivamente alla cura: questo non gli precluse l’”insegnamento” dell’antifascismo ai colleghi e ai giovani specializzandi, usando il reparto per nascondere renitenti ed antifascisti.
Il 27 settembre 1944 Fornara venne arrestato da parte della “squadraccia” di Vincenzo Martino, in quanto la fidanzata del suo informatore, Mario Soldà, Maria, confessò ai fascisti dove avrebbero potuto trovare il medico e la sua “squadra”. Soldà venne ucciso crudelmente dopo un interrogatorio e la ragazza, spaventata dalla visione del fidanzato morto (senza orbite ed impiccato), spifferò tutto a Martino. Le accuse verso Fornara caddero, mentre le persone arrestate con lui vennero incarcerate (l’assistente Aldo Schiavini, due religiose, la portinaia dell’ospedale Prandi e l’infermiera Cantoia: le donne furono liberate il giorno dopo, Schiavini a guerra conclusa). Fornara scamperà alla morte grazie al suo alibi della “Montecatini” dove era andato giorni prima a parlare con il dottor Patta di una formula chimica errata per la commercializzazione di un farmaco. I fascisti si accertarono della presenza del medico alla “Montecatini”, i cui ranghi confermarono la versione del pediatra.
La figura di Fornara è stata fondamentale per tutta Novara e la sua Provincia un punto di riferimento per tutti gli antifascisti locali.
Nella fase che portò alla Liberazione della città (24 – 28 aprile 1945) sarà il fulcro delle trattative con i nazifascisti ed a partire dal 28 aprile 1945 fino al 28 febbraio 1946 resse l’incarico di Prefetto della città, con poteri di governo e rappresentanza, anche in collaborazione con l’AMG. Grazie a lui la città poté rialzarsi e riprendere la propria vita.
Successivamente fu eletto costituente per il PSIUP (i socialisti di unione proletaria) ma non partecipò alle prime elezioni legislative del 18 aprile 1948, in quanto volle tornare a Novara a continuare la sua attività di pediatra. Morì il 1° febbraio 1975 ed alla sua memoria è stato intitolato l’Istituto Storico della Resistenza novarese.


Il personaggio più importante della repressione fascista: Enrico Vezzalini/i>

Se Fornara è stato il capo della Resistenza, la figura di Enrico Vezzalini ne rappresentava la nemesi: cattiveria e protagonismo allo stadio più estremo.
Nato in Provincia di Rovigo il 16 settembre 1904, era un fascista della prima ora e durante l’esperienza repubblichina si contraddistinse per la scrupolosità burocratica e, per la violenza fatta perpetrare sugli antifascisti e i partigiani, soprattutto nell’Ossola. Già membro del Tribunale di Verona, arrivò a Novara da Ferrara il 22 luglio 1944 e fin da subito impose circolari e direttive contro tutti coloro che si opponevano all’arruolamento. Vezzalini, di chiara fede e pensiero fascista, subentrò al prefetto Barbera, a sua volta subentrato al collega Tuninetti: i motivi di questi cambiamenti (tre in appena 14 mesi) furono dovuti al fatto che la guerra e la situazione stava scappando di mano ai repubblichini, messi in difficoltà dai partigiani e dall’opposizione.
Vezzalini poté contare sulla collaborazione dei ragazzi di Pasqualy, poté usufruire dell’appoggio dei “Tupin”, i suoi fedelissimi arrivati da Ferrara e che da lui prendevano gli ordini tramite il loro capitano che rispondeva al prefetto veneto e che avevano sede in via Monte San Gabriele L’ordinanza del 22 settembre 1944 impose l’obbligo per tutti i maschi dai 16 ai 60 anni di età renitenti e tutti i loro parenti di arruolarsi altrimenti sarebbero stati fatti internare nei campi di concentramento nazisti. Questo si distinse per la violenza e la repressione, instaurando il terrore come fece durante il suo mandato a Ferrara, dove, nella notte del 14 novembre 1943, fece arrestare settantaquattro persone e undici di queste vennero fucilate per vendicare la morte del federale Ghisellini ucciso dai partigiani. Anche a Novara si contraddistinse per la ferocia delle sue azioni e dei suoi proclami: ciò che successe nell’agosto 1944 a Vignale ne fu un esempio.
Il destino volle che lo stesso Vezzalini venne ucciso con le sue stesse modalità, la fucilazione: il 23 settembre 1945 dopo il processo a suo carico per i reati di cui fu considerato responsabile fu fucilato presso il Poligono di via Sforzesca la mattina del 23 settembre 1945. Stessa sorte toccò a 6 membri della “squadraccia”, condannati a morte per fucilazione, mentre i restanti 21 furono condannati all’ergastolo.


Il momento più tragico e triste: l’eccidio di Vignale, 26 agosto 1944

Novara visse in diverse occasioni i drammi della quotidiana vita resistente al fascismo repubblicano. Non mancarono i fatti di sangue ed ancora oggi i luoghi dove ci furono le fucilazioni partigiane sono ricordate con commozione. Naturalmente, i partigiani sapevano che sarebbero potuti morire e per loro (questo in tutta Italia) questa era una condanna che “subivano” con il sorriso, sicuri del fatto che non sarebbero morti invano ma per la libertà del Paese e per le generazioni future.
Novara non fu esentata da ciò. Il fatto ricordato ancora oggi più dolorosamente è l’eccidio che venne perpetrato a Vignale, periferia nord della città, sulla direttrice Borgomanero – lago d’Orta. Il 26 agosto 1944 caddero sotto i colpi della “squadraccia” di Martino tredici ragazzi diciottenni che si rifiutarono di “vestire” i colori della Repubblica di Salò e, per questa ragione, con l’inganno, vennero trasportati su due veicoli nel borgo e fucilati davanti alla popolazione: la morte dei cospiratori doveva essere “teatrale” e di esempio per chi avesse voluto in futuro schierarsi contro i nazifascisti.
Il 25 agosto 1944 era scaduto il termine utile per l’arruolamento nell’esercito della RSI e tutti coloro che non si fossero arruolati o sarebbero trasportati nei campi di concentramento tedeschi o sarebbero stati uccisi. Tantissimi italiani non si arruolarono: i più fortunati divennero partigiani o tornarono a casa vivi dai campi d’internamento, i più sfortunati vennero fucilati nelle piazze e non tornarono vivi dai campi tedeschi.
Questi vennero incarcerati nelle prigioni del castello visconteo di piazza Vittorio fino al 26 agosto quando vennero portati a Vignale con la “scusa” di dover iniziare a ricostruire i ponti stradale e ferroviario fatti saltare dai partigiani due giorni prima.
I ragazzi furono divisi in due gruppi, ognuno dove era stato fatto cadere un ponte e fucilati per rappresaglia, davanti alla popolazione. Alcune donne si presero cure delle salme mentre i fascisti sorridevano per la loro azione.
I tredici ragazzi morti erano Crestanini Renato, i fratelli Giovanni e Natale Diotti, Gatti Fausto, Mancini Igino, Passera Secondo e Sala Erminio; i fratelli Orione e Spartaco Berto, Denti Antonio, Molinari Pietro, Schiorlini Giuseppe e Saini Angelo: i primi sette sono ricordati presso il ponte stradale, gli altri sei dove c’è il ponte ferroviario.


Personaggi che hanno fatto grande la Resistenza novarese.

Nei due anni di guerra civile Novara ha consegnato alla propria storia cittadini che sin sono battuti con tutte le loro forze cercando in tutti i modi di liberare la città dall’oppressore e insegnare ai giovani i dettami della libertà. I principali uomini sono stati Alberto Jacometti, Vincenzo “Cino” Moscatelli, Eraldo Gastone, Franco Toscano, Enrico Massara, Francesco Albertinale, monsignor Leone Ossola (vescovo di Novara del periodo e famoso per aver rifiutato il giuramento alla RSI); Rina Musso, Marcella Balconi, Renza Sguazzini Ferraris, Lidia Brisca Menapace per le femmine.


Gli ultimi giorni dell’aprile 1945, la fine del regime, l’inizio della libertà: 25 e 28 aprile 1945
Il percorso che portò alla Liberazione è stato lungo e doloroso per l’Italia e anche Novara non fu da meno.
Era chiaro che la guerra sarebbe stata ad appannaggio degli Alleati con i nazifascisti oramai “chiusi” ad Ovest dallo sbarco alleato in Normandia e a est con l’avvicinarsi dell’Armata rossa verso la Germania. Inoltre gli anglo-americani che da Anzio liberarono Roma e piano piano stavano arrivando al superamento della linea Gotica, la linea difensiva voluta da Kesserling per impedire l’avanzata degli Alleati guidati dal generale Alexander verso il Nord Italia. L’Italia proclamò la Liberazione con l’ingresso delle forze Alleate a Bologna e Milano il 25 aprile, mentre a Novara, la Liberazione avvenne tre giorni dopo, il 28 con l’ingresso dei partigiani in città.
Il 26 aprile si incontrarono presso la Prefettura il vescovo Leone Ossola ed i rappresentanti del fascismo novarese: i fascisti e i tedeschi capirono che per loro era finita. La resa ufficiale avvenne a palazzo Rossini, sede del Comando militare delle SS, di proprietà del senatore omonimo. Il colonnello Hanh decise, pressato da Ossola, di incontrare i partigiani presso al sede del Vescovado. Da notare l’analogia con la fine del fascismo a Milano con quella di Novara: nella città meneghina il ruolo importantissimo di Ossola venne effettuato dal cardinale Ildebrando Schuster. Ossola partì alla volta di Veveri, dove si era fermata la colonna partigiana capitanata da Eraldo Gastone e dal maggiore “Tia” Grassi e si diressero in città tra una folla di persone che li applaudirono con sui balconi il tricolore. Quel giorno si tennero tre riunioni (due in Vescovado, una a palazzo Rossini).
Dopo gli incontri si ritirarono tutti i militari, repubblicani e nazisti, facenti parte della GNR, della “Muti” e della “Decima Mas” che si arresero davanti alle caserme cittadine e furono rinchiusi nelle caserme come “prigionieri politici”. Furono arrestati oltre 2500 militari tedeschi in attesa dell’arrivo degli Alleati, cui sarebbero stati consegnati in quanto i partigiani non erano militari regolari, erano militanti politici e stanziati in difesa di un territorio.
Da Arona non arrivarono però belle notizie. Il capitano Stamm, capo di una agguerrita colonna nazista, che ancora non si era arresa, non volle cedere e decise di muoversi verso Novara con tutti i suoi uomini (circa un migliaio) rastrellando la popolazione, ma il suo viaggio fu molto difficile a causa degli attacchi delle “volanti” partigiane che incontrarono nei circa 40 chilometri che separavano il lago Maggiore dalla pianura. Arrivati in Novara furono bloccati definitivamente e condotti prima in prefettura e poi in carcere. Si conta che fu distrutto un panzer tedesco a Novara. Il 28 aprile arrivarono gli Alleati guidati dal maggiore Robert Readheah e dal maggiore Mark Terry ed il 30 aprile la città fu dichiarata libera. Iniziarono i primi comizi e l’attività della città riprese gradualmente, grazie anche al fatto che non subì né attacchi né bombardamenti.
Il 1° maggio venne reintrodotta la Festa del Lavoro, abolita durante il Ventennio, il 2 maggio arrivarono i primi americani che presero in consegna i tedeschi ed il 3 arrivarono anche gli americani dell’AMG, il Comando Militare Alleato che si riunirono con il personale nominato dal CNL. La guerra era finita. L’Italia e Novara erano davvero libere.


Un luogo insolito della Resistenza novarese: lo stadio “Littorio” di via Alcarotti

Durante gli anni della Repubblica di Salò lo sport italiano andava avanti a stento anche perché tutto il Paese era in guerra e fra morti e distruzioni il pensare a qualcosa di diverso era impossibile. Si praticavano tutti gli sport ma non come venivano fatti prima del 10 giugno 1940. Novara non era da meno. Soprattutto nel 1945 si aspettava con trepidazione la fine del conflitto. Gli unici sport novaresi a proseguire erano i tre più amati in città: il calcio, l’hockey su pista ed il pugilato, con tornei amichevoli e senza trofei prestigiosi da assegnare.
Il centro nevralgico dello sport novarese, lo stadio “Littorio”, gioiello dell’architettura fascista novarese, era praticamente usato solo per le amichevoli della squadra azzurra di calcio e, come dice lo scrittore novarese Gianfranco Capra, subì una “grave umiliazione” in quanto il 28 aprile 1945 fu ridotto a campo di concentramento per i membri della “colonna Morsero”, capitanata dall’ex prefetto di Vercelli, Morsero, in fuga dalla città verso le campagne ed intercettata nelle campagne di Castellazzo il giorno prima. La loro meta sarebbe stata la Valtellina, dove si vociferava si sarebbe creato un fronte con ciò che restava della ex Repubblica Sociale, il celebre Ridotto alpino.
Il motivo dell’utilizzo dello stadio era dovuto al fatto che le carceri cittadine erano sovraccariche di prigionieri politici ed il prefetto Fornara e il questore Agostino Repetto decisero di usare lo stadio come prigione temporanea. Da circa 1300 iniziali, al termine dei dieci giorni previsti per l’uso del campo, molti fuggirono e molti furono portati a Vercelli ed uccisi. Per vendetta i prigionieri distrussero ciò che trovarono nelle loro “celle”, come gli archivi del Novara Calcio e della Pro Novara. Il 10 maggio lo stadio venne liberato e bonificato ed il suo nome divenne “Comunale”.


Bibliografia essenziale:

Begozzi M., Non preoccuparti che muoio innocente, Lettere dei condannati a morte della Resistenza novarese, Interlinea Edizioni, Novara, 2005

Braga A., La città e la guerra. Itinerari. Novara 1940-1945, Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea del Novarese e del Verbano Cusio Ossola “P. Fornara” e Provincia di Novara, Novara, 2006

Capra G, Lo sport e la guerra. Novara 1940-1945, Quaderni novaresi, Zen Iniziative, Novara, 2006

Fabei S., Il linguaggio di Enrico Vezzalini, in “I sentieri della ricerca. Rivista di Storia contemporanea”, Edizioni Centro Studi “Piero Ginocchi”, Crodo, 2006

Grassi L., Gli eccidi di Vignale. Una comunità tra guerra e occupazione (1943-1945), Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea del Novarese e del Verbano Cusio Ossola “P. Fornara”, Novara, 2004

Omodei Zorini F., Piero Fornara. Il pediatra delle libertà, Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea del Novarese e del Verbano Cusio Ossola “P. Fornara” e Provincia di Novara, 2005
  • TAG: novara, caduta fascismo, repubblica sociale italiana, liberazione, periodo badogliano, piero fornara, enrico vezzalini, eccidio vignale, personaggi resistenza novarese, colonna morsero, francesco moranino

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