Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia autori: 9 maggio 1978: il sacrificio di Aldo e Peppino

9 maggio 1978: il sacrificio di Aldo e Peppino [ di Simone Balocco e Paola Maggiora ]

La Storia, si sa, è fatta da momenti belli e meno belli, date belle e meno belle da ricordare. E' il ricordo il momento più alto della Storia, dove si celebra un evento che ha avuto un'importanza massima per uno Stato o per una comunità che hanno avuto la pietas di tutti. Alzi la mano chi, durante il proprio percorso di studi, non si è annoiato a ricordare date o eventi storici da esporre al docente di turno durante un'interrogazione o un esame. A tutti, almeno una volta, è capitato di dover studiare un evento storico, le cause e le conseguenze. Noi dipendiamo dalla storia, dalle scelte di alcuni politici del passato, dalle vittorie o dalle sconfitte nelle guerre, da perdite ed acquisizioni di territori. E poi basta andare in giro nelle nostre città: tutto è storia, tutta la storia ci circonda. La storia è nostra, è umana e ci appartiene, volenti o nolenti. Nel nostro Paese, la Storia (materia, ma anche la storia in sé) è molto sentita, anche se le ultime generazioni hanno dimostrato...di aver dimenticato la Storia e la sua importanza. Affinché nelle generazioni a venire non cada nell'oblio il ricordo di eventi importanti, il Parlamento italiano ha istituito, tramite leggi ad hoc, giornate dove si ricordano eventi di un certo spessore che hanno portato alla morte di molte persone, affinché non finiscano mai nel dimenticatoio. Ed ecco allora l'istituzione della “Giornata della memoria” (27 gennaio) in memoria (appunto) delle vittime dei campi di concentramento nazisti, la “Giornata nazionale del Ricordo dedicata alle vittime delle foibe e all’esodo degli italiani dalla Dalmazia, Istria e Venezia Giulia”, celebrata in ricordo delle vittime delle foibe nel periodo compreso tra il 25 luglio 1943 e i giorni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale in Italia (25 aprile 1945 e successivi), con l'esodo di almeno 500mila persone dalle loro terre in cerca di un nuovo territorio dove vivere. Se il 27 gennaio 1945 fu liberato (e quindi si seppe della sua esistenza) il campo di Auschwitz, il 10 febbraio 1947 è la data del trattato di pace di Parigi che sancì il passaggio di Istria e gran parte della Venezia Giulia alla Jugoslavia titina.
Durante l'anno esiste un'altra ricorrenza civile dove si ricordano anche le vittime degli attentati terroristici nel nostro Paese. E si “festeggia” proprio oggi, il 9 maggio. Questa giornata è stata istituita il 4 maggio 2007 e il giorno scelto fu il 9 maggio poiché quel giorno (giust'appunto di 40 anni fa) veniva trovato morto Aldo Moro, Presidente della Democrazia cristiana e più volte capo del governo e ministro della Repubblica, per mano delle Brigate rosse.
La giornata in ricordo delle vittime del terrorismo è un momento di riflessione su un periodo della nostra storia recente che ha messo in ginocchio il Paese con attentati alle istituzioni, simboli e luoghi per cercare di destituire l'assetto nazionale. In questo contesto rientrano le vittime degli anni di piombo e del biennio 1992-1993, ma anche le vittime delle stragi della criminalità organizzata (mafia, camorra, 'ndrangheta), della lotta altoatesina, del terrorismo internazionale durante il quale sono stati colpiti italiani in Italia o all'estero. Decine di stragi, centinaia di morti, migliaia di feriti: numeri da guerra civile.
Un momento dove ricordare alle generazioni presenti e a quelle future che nel nostro Paese hanno vissuto innocenti e “capitani coraggiosi” che hanno messo davanti la loro vita per dare un senso di legalità al Paese.
Quel martedì 9 maggio 1978 non fu trovato però solo il cadavere di Aldo Moro, ma anche quello (dilaniato) di un trentenne di Cinisi, in Provincia di Palermo, allora poco noto nel resto del Paese, ma molto conosciuto e amato nella sua terra, la Sicilia: Giuseppe Impastato detto Peppino. Anche lui è da considerarsi una vittima del terrorismo, quello mafioso. Due vittime pesanti, dal destino incrociato, ma con poco in comune, che hanno perso la vita per dare all'Italia e alla Sicilia un momento migliore.

Aldo, una vita per l'impegno politico
La vita di Aldo Moro è sempre stata legata all'impegno civico e politico. Già docente universitario, il politico salentino (era nato a Maglie, nel Leccese) iniziò fin da giovane ad interessarsi alla res publica, venendo eletto tra i 556 costituenti (di cui fu uno dei vice-Presidenti) con le elezioni del 2 giugno 1946.
Moro è stato attivo nella politica nazionale fin dai tempi universitari quando militava nella FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) di cui fu per tre anni (1939-1942) Presidente nazionale, per poi venire eletto alla Costituente con le elezioni del 2 giugno 1946 per la Dc, partito dove era iscritto da due anni, fino al 16 marzo 1978. In quegli anni, Moro ricoprì diversi incarichi: due volte Presidente del Consiglio (con cinque governi), Ministro degli Esteri, Ministro della Pubblica istruzione, Ministro di Grazia e Giustizia, nonché Sottosegretario di Stato. A livello partitico, è stato uno dei politici più apprezzati della Democrazia cristiana, di cui fu prima segretario politico per 4 anni e mezzo (1959-1963) e poi per un biennio Presidente (1974-1976).
Considerato un attento uomo delle istituzioni, Moro, al pari di Amintore Fanfani, è stato ribattezzato il “cavallo di razza” dello Scudo crociato: uno dei politici più importanti di tutto l'arco costituzionale e membro di spicco, insieme al politico aretino, della parte politica democristiana di Iniziativa democratica. In pratica, un fuoriclasse del partito dello Scudo crociato.
L'apice dell'importanza nella vita politica nazionale, Moro lo toccò tra il 1974 ed il 1976, quando capì che, durante il periodo caldo degli anni di piombo, il Partito Comunista Italiano era un partito come un altro nel “parco” nazionale e doveva essere preso in considerazione per un suo ingresso nella compagine governativa per il bene del Paese. Enrico Berlinguer, “cavallo di razza” del PCI, non ebbe mai contrasti con Moro e anche per lui l'idea che il suo partito andasse al governo era condivisa non per un discorso di potere, ma di bene della nazione. Del resto, il segretario del PCI era stato uno dei primi, all'indomani del golpe cileno di Augusto Pinochet, a temere in Italia una deriva golpista, tanto che nel biennio 1973-1974 la deriva autoritaria dello Stato si pensava fosse possibile da un momento all'altro.
Moro nel 1963 fu il primo Presidente del Consiglio a formare un governo di centrosinistra con l'alleanza tra socialisti, socialdemocratici e repubblicani detto “centrosinistra organico”, proprio perché il PSI ebbe un ruolo molto importante nella compagine governativa: il politico pugliese, esponente della frangia “dorotea” guidò Palazzo Chigi ininterrottamente fino al giugno 1968. Moro I (quadripartito Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano, Partito Socialista Democratico Italiano, Partito Repubblicano Italiano, 231 giorni), Moro II-III (stesso quadripartito). Gli ultimi due governi di Moro furono il IV (bipartito DC e PRI) e V (monocolore DC). Il Moro III, fino al Craxi I (1983-1986) è stato il governo più longevo della storia delle repubblica e a oggi è il sesto più lungo dei sessantaquattro governi che si sono succeduti dal primo della Repubblica (il de Gasperi IV).
Fino al 1974 si ebbero poi sei governi di centrosinistra (Rumor I, Rumor III, Colombo I, Andreotti II, Rumor IV-V) e tre monocolori DC (Leone II, Rumor II, Andreotti I).
Dove nacque il legame tra Moro e Berlinguer? Dopo le elezioni politiche del 1976, con la Democrazia cristiana primo partito con il 38,7 %, seguito dalla Falce e martello con quattro in meno, il risultato più ampio fino a quel momento.
Moro cercò di portare i comunisti ad avere un ruolo nei governi nazionali, ma solo perché nel Paese c'è una situazione eco-sociale molto traballante: l'idea era arrivare al “compromesso storico”, vale a dire rendere il PCI un partito governativo e non un paria. Del resto, in quegli anni l'Europa fu investita da un vento di “eurocomunismo” che voleva Botteghe oscure autonomo da Mosca e capace di essere un partito come tutti gli altri e non la longa manus dell'Urss in Italia. L'idea di Berlinguer piacque, salvo ai suoi iscritti più di sinistra, mentre dalle parti di Piazza del Gesù ciò non fu visto bene dai democristiani “di destra”. Il governo Andreotti III ebbe la “non fiducia” del PCI: per la prima volta i comunisti non votarono contro ma si astennero. L'appoggio esterno dei comunisti fu visto in malo modo sia da Washington che da Mosca per ovvie motivazioni di presa e di interessi.
C'era da dare un segnale al Paese sul fatto che il PCI non doveva allearsi con i democristiani.
Il momento topico della vicenda si ebbe giovedì 16 marzo 1978, prima della fiducia al governo Andreotti IV, un monocolore Dc. Quel 16 marzo non fu importante solo per ciò che avvenne nelle aule parlamentarie, ma anche per quello che successe, intorno alle 9 di mattina, in via Fani angolo via Stresa, nel quartiere Camilluccia, zona nord della capitale.

Peppino, una vita per l'impegno anti-mafia
Il cognome Impastato, nel Palermitano, fin dagli anni Trenta, era un cognome pesante: faceva rima con “mafia”. Luigi Impastato, il capo famiglia, per la sua vicinanza con Cosa nostra durante il Ventennio fascista, fu mandato al confino e molti suoi famigliari ed amici erano “uomini d'onore”: non fu mandante di nessun omicidio, ma frequentava gente mafiosa dando loro degli aiuti e supporto. Impastato, coniugato con Felicia Bartolotta, ebbe due figli: Giuseppe e Giovanni. Tra i due c'era un altro Giovanni, che morì piccolo ed il terzogenito prese il suo nome. La moglie sapeva dei rapporti del marito, ma stette sempre in disparte anche se non le piacevano quelle frequentazioni.
I giovani Impastato avevano il destino segnato: farsi baciare le mani, avere il rispetto da tutti e vivere nel malaffare. Il padre voleva che i figli crescessero sotto il suo codice comportamentale e che mostrassero sempre rispetto verso i mafiosi.
E invece no, Giuseppe detto Peppino, non voleva nulla di tutto ciò: non voleva i soprusi, non voleva le riverenze, detestava l'omertà. Peppino voleva che la mafia sparisse dalla sua Regione e che la sua Regione si scrollasse di dosso decenni di illegalità e malaffare. L'evento che gli cambiò la vita fu la morte, il 26 aprile 1963, dello zio Cesare Manzella, capo della mafia di Cinisi, in un attentato esplosivo (la prima autobomba usata dalla mafia). Questo fu il punto di non ritorno della vita di Peppino Impastato: combattere la mafia da dentro, dalla sua famiglia visto che era collusa. Ma questo era un problema molto sentito anche allora: la mafia era nel tessuto sociale e molte persone avevano legami non solo famigliari ma di amicizia con gente vicina alla mafia. E questo odio lo portò ad un aspro conflitto con il padre, tanto che lo cacciò di casa.
Impastato la sua lotta contro il sistema mafioso l'ha fatta con mezzi che oggi fanno sorridere: un giornalino edito in ciclostile ed una radio privata autofinanziata. Non ebbe a disposizione i social network, i blog o il web, ma riuscì a fare breccia nel cuore e nella mente di tutti.
Sulle pagine ciclostilate di “Idea socialista” (1965) e sulle frequenze di Radio Aut (abbreviazione di “Autonomia”), nel 1977, Impastato parlava pane al pane, vino al vino: critiche aspre alla mafia e sulle sue nefandezze nell'Isola, senza remore e senza pensare alle conseguenze. Vicino alle idee della sinistra, Impastato si avvicinò al PSIUP per poi abbracciare idee extraparlamentari, aderendo prima a Lotta continua poi ad Avanguardia operaia e agli ideali non violenti di Danilo Dolci e delle sue marce antimafia: Impastato partecipò alla “Marcia della protesta e della speranza per la pace e lo sviluppo della Sicilia Occidentale” dell'11 marzo 1967 in favore delle persone disagiate e povere della Sicilia occidentale.
Oltre a Dolci, anche il pittore Stefano Venuti fu un ispiratore di Peppino Impastato. Il pittore cinisaro fu il fondatore della sezione del PCI di Cinisi dopo la strage di Portella della Ginestra, avvenuta il 1° maggio 1947, dove la banda di Salvatore Giuliano uccise quattordici persone e ne ferì oltre un centinaio durante i festeggiamenti della Festa dei Lavoratori in quella zona. Sul ciclostile di “Idea socialista”, Impastato scrisse articoli molto forti contro la mafia e le connessioni con la politica locale, facendo nomi e cognomi: tra i bersagli, le giunte comunali di Cinisi, in particolare quella di Pandolfo, vero bersaglio di Peppino Impastato fu “travolto” dalla politica attiva e dalla Contestazione del Sessantotto, abbracciando idee vicine al comunismo extraparlamentare. Divenne sin dalla nascita un sostenitore di Democrazia proletaria, il partito di estrema sinistra nata nel 1975 dall'unione dei principali partiti filocomunisti extraparlamentari di allora e decise di correre per un posto in consiglio comunale.
Impastato era un sognatore, un visionario ma anche un rivoluzionario con la volontà di cambiare il Mondo e questo lo portò a venire ripudiato dal padre colluso. Grande lettore, nonostante gli studi classici e l'aver sostenuto pochi esami di Filosofia, Impastato era ateo, anticlericale, antirazzista e vicino alle cause delle persone normali, come le proteste sull'ampliamento dell'aeroporto di Punta Raisi, presso la sua Cinisi, e dell'autostrada che andavano a togliere dalle loro case oltre duecentocinquanta famiglie contadine.
Impastato non aveva, come detto, grandi mezzi a propria disposizione se non un megafono e i suoi “media”. Nella seconda metà degli anni Settanta però la sua lotta si fece aspra e usò un nuovo mezzo di comunicazione che allora era agli albori: la radio. Era il periodo delle radio libere, del nascente fm, del fatto che lo Stato non aveva più il monopolio radiofonico e lo stava perdendo anche per quanto riguardava l'etere. E la radio fondata da Impastato a Terrasini, paese limitrofo al suo, divenne un modo per esprimere dissenso, raccogliendo intorno a sé molta curiosità. Faceva satira facendo nomi e cognomi, anche canzonando i soggetti in questione, mettendo in risalto il malaffare tra la politica di Cinisi e la mafia. Il centro dell'attività di Impastato era un piccolo circolo, chiamato “Musica e cultura”, dove lui e i suoi amici si trovavano per parlare di politica e di lotta alla mafia, ma anche per passare giornate scanzonate e divertirsi tra di loro. Questo circolo fu un qualcosa di molto importante nella Sicilia del tempo, punto nevralgico degli incontri dei giovani. La sua sede era un garage frequentato da tantissime persone dove si organizzarono dibattiti, concerti, balli e spettacoli teatrali.
Furono una “costola” del circolo anche il primo collettivo femminista di Cinisi, dove si parlava di alcuni temi tabù per l'Italia dell'epoca: aborto, libertà sessuale, contraccezioni, sfruttamento del lavoro femminile. La chiusura del circolo portò all'apertura di Radio Aut.
Le idee di Impastato erano condivise da tutti a parole, ma poco nei fatti: nonostante il “regime” omertoso di paura e il “girarsi dall'altra parte” di molti compaesani, Impastato ce l'aveva con tutti i boss, con tutti quelli che erano in odore di mafia e non aveva paura di nessuno. Nemmeno dei boss. Nemmeno di Gaetano Badalamenti, detto Tano, boss della sua Cinisi. E proprio Badalamenti fu il bersaglio principale di Impastato durante la trasmissione satirica “Onda pazza” dove lo definiva “Tano seduto capo di Mafiopoli”.
Ed Impastato divenne più tagliente, più aggressivo e senza esclusioni di colpi. La sua idea radiofonica piacque sin da subito e la programmazione (totalmente autofinanziata) ebbe un largo consenso.
Domenica 14 maggio 1978 a Cinisi si sarebbe votato per il rinnovo del consiglio comunale e Peppino Impastato, dopo anni a combattere la mafia “da fuori”, volle cercare di combatterla “da dentro”, da dentro le istituzioni, in cerca di un consenso tale da poter dare speranza e far aprire gli occhi ai siciliani. La campagna elettorale di Peppino fu un successo clamoroso ed ebbe 350 voti. Impastato venne eletto, ma non prese mai parte a nessuna seduta consiliare.

Aldo, la morte dopo 55 giorni di sequestro
Il 16 marzo 1978 il Governo Andreotti IV si presentò alla Camera per la fiducia e la ottenne grazie anche al fatto che il PCI non votò contro. Il governo guidato da Andreotti rimase in carica fino al marzo 1979. Quel giorno, però Moro non partecipò ai lavori della Camera. Come mai il Presidente della Democrazia cristiana aveva saltato quel momento importante della storia della Repubblica italiana? Dobbiamo andare in via Fani, zona nord-ovest di Roma, intorno alle ore 9, come detto. Una via come tante nella capitale del nostro Paese dove successe qualcosa che sconvolse l'intera Nazione: Aldo Moro fu sequestrato dalla “colonna” romana delle Brigate rosse, il gruppo terrorista “di sinistra” più noto nel panorama di riferimento dei movimenti extraparlamentari che univa marxismo, leninismo e trotzkismo contro lo Stato borghese e lo sfruttamento dei lavoratori. A differenza dei gruppi eversivi di destra “specializzati” in stragi, le BR (come gli altri gruppi della loro area) colpiva elementi specifici.
Poco prima delle 9, come da consuetudine, l'onorevole salì sull'auto di servizio che lo scortò fino a Montecitorio dalla sua casa di via del Forte Trionfale. Moro, come sempre seduto dietro, era intento a leggere i giornali e aveva con sé dei documenti parlamentari ed una serie di tesi di laurea perché nel pomeriggio avrebbe partecipato, come relatore, ad una seduta di laurea. Quando la sua autovettura ed un'altra della sua scorta si indirizzarono verso il fondo di via Fani, ad un certo punto spuntò davanti alla Fiat 130 una “128”. Quest'ultima frenò di colpo e si fece tamponare. Dal lato sinistro della strada (come senso di marcia), spuntarono quattro uomini vestiti da avieri che iniziarono a sparare sull'auto di Moro e a quella di servizio dietro. I cinque membri della scorta furono uccisi e Moro fu caricato su una Fiat 132 entrata in via Fani da via Stresa in retromarcia. Quando era iniziata la mattanza, a chiudere via Fani dall'alto ci pensò un'altra vettura con altri due brigatisti a bordo.
I cinque membri della scorta a perire sotto i colpi brigatisti furono Oreste Leonardi e Domenico Ricci (maresciallo e appuntato dei Carabinieri) e Francesco Zizzi, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino (vicebrigadiere e agenti della Polizia di Stato).
Alla guida della Fiat 128 che si fece tamponare c'era Mario Moretti, a sparare alle due autovetture (entrambe dal lato della guida) furono Valerio Morucci e Raffaele Fiore (che colpirono la Fiat 130 con dentro Moro, l'appuntato Ricci alla guida ed il maresciallo Leonardi lato passeggero anteriore, il quale che cercò di proteggere Moro) e Prospero Gallinari e Franco Bonisoli (diciassette proiettili contro l'Alfetta bianca di servizio con Rivera alla guida, il vicebrigadiere Zizzi a fianco, dietro di loro Iozzino che uscì dall'auto cercando di sparare, ma fu trafitto da una pioggia di colpi). La Fiat 132 che portò via Moro era guidata da Bruno Seghetti, mentre sulla Fiat 128 che chiuse via Fani c'era Alvaro Lojacono ed Alessio Casimirri. A bloccare il traffico di via Stresa ci fu Barbara Balzerani, mentre a dare il cenno a Moretti dell'arrivo dell'auto di Moro fu Rita Algranati. L'agguato era stato calcolato nei minimi dettagli. Moro venne portato via su una Fiat 132 blu.
L'Italia rimase con il fiato sospeso: gli anni di piombo erano entrati nella loro fase più calda con una lotta senza quartiere, ma mai era stato toccato un membro delle alte istituzioni: le BR avevano fino a quel momento ucciso militanti missini, forze dell'ordine e magistrati, mai un politico di rango. Fu il loro “salto di qualità”. Uscirono edizioni straordinarie dei quotidiani e del Tg1. L'Italia diventò un enorme “posto di blocco”, con le forze dell'ordine impegnate nella ricerca del politico di Maglie: i controlli e le perquisizioni si tennero quasi esclusivamente a Roma, coinvolgendo oltre 170mila forze dell'ordine che controllarono quasi 200mila persone.
Il sequestro Moro spaccò l'opinione dei politici nazionali, tra chi voleva trattare con i brigatisti per liberarlo (Craxi e pochi democristiani) e chi non voleva trattare con i brigatisti (DC, PSDI, PLI, PRI), lasciando l'ex Premier nelle loro mani. Il giorno dopo le Brigate rosse rivendicarono il rapimento senza però parlare di riscatto o richieste particolari.
Si iniziò a pensare all'emanazione di un decreto legge che avrebbe dato maggiori potere alle forze armate per trovare nel più breve tempo possibile il Presidente Moro, ma i partiti erano contrari all'emanazione di leggi speciali.
Il 18 marzo le Brigate rosse avvertirono la sede del quotidiano romano “Il messaggero” che in un luogo preciso avrebbero trovato il primo comunicato con una foto di Moro vivo. Si disse che il Presidente sarebbe stato processato nel “tribunale del popolo” all'interno della “prigione del popolo”. A presidiare l'onorevole nella “prigione” furono i brigatisti Moretti, Braghetti, Maccari e Gallinari. Moro non subì mai percosse, se non interrogatori fiume e processi “politici” da parte dei brigatisti.
In base ai processi che si sono tenuti sul “caso Moro”, questa “prigione” sarebbe stata in una palazzina di via Montalcini 8, quartiere Portuense, nella zona della Magliana, nota perché ai tempi base della malfamata banda criminale. Intestataria dell'appartamento si scoprì essere Anna Laura Braghetti, brigatista rossa.
Il 27 marzo uscì il terzo comunicato, dove si diceva che Moro avrebbe scritto una lettera a Cossiga, sperando che la situazione, già delicata, non si facesse problematica. Moro scriverà ben ottantasei lettere a colleghi di partito, alla famiglia e al Papa di allora, Paolo VI: alcune arrivarono a destinazione, molte no e furono ritrovate in un secondo momento. Il 3 aprile anche Papa Paolo VI, da piazza San Pietro, esortò i rapitori a liberare Aldo Moro. La moglie dell'onorevole Moro sperò che il partito del marito facesse qualcosa, ma la Balena bianca non fece nulla, in quanto non voleva scendere a patti e compromessi con i brigatisti.
L'11 ed il 16 aprile uscirono il quinto ed il sesto comunicato: il “processo” continuava e Moro fu ritenuto colpevole e condannato a morte: l'ansia in casa Moro, e in Italia, toccò il punto più alto.
Il 18 aprile, per puro causo dovuto ad un controllo dopo che una vicina aveva notato una perdita d'acqua dal piano superiore, venne scoperto il covo di via Gradoli, zona Nord di Roma, dove ci sarebbero stati i brigatisti Balzerani e Moretti (sotto falso nome): la via e lo stabile furono controllati già il mese prima come tante vie e tanti palazzi. Ma la polizia non entrò in quell'appartamento.
Il 19 aprile uscì il comunicato numero 7 che disse che Moro era morto ed il suo cadavere sarebbe stato fatto trovare sul fondo del lago della Duchessa, un lago di montagna nei pressi Borgorose, nel Reatino, a oltre 1.700 di altitudine. Il Presidente democristiano sarebbe stato ucciso il 1° aprile.
Quel giorno fu anche trovato, per caso, un covo delle BR in via Gradoli, nei pressi della via Cassia. Il cadavere di Moro non fu però trovato, nonostante furono impegnati tantissimi poliziotti e furono usati cani ed elicotteri: non fu trovato in quanto il comunicato era falso e si pensò che anche i precedenti lo fossero.
Il 21 aprile arrivò un nuovo comunicato numero 7 con un'immagine di Moro vivo e con in mano una copia di un giornale con la data del giorno prima: Moro era vivo, ma le Brigate rosse alzarono il tiro, esortando le parti in causa entro due giorni a venire a patti con le Br per la liberazione di alcuni detenuti politici.
Il comunicato numero 8 uscì il 25 aprile e le Brigate rosse chiesero la liberazione di tredici prigionieri politici tratti da un elenco specifico fatto pervenire in cambio della liberazione di Moro. Andreotti e la Dc non vollero trattare con i terroristi, anche se questo avrebbe potuto portare alla fine della vita di Moro.
Il nono comunicato fu fatto pervenire il 6 maggio e fecero capire che Moro era prossimo all'uccisione in quanto non si era mai arrivati all'accordo precedente.
Moro venne ucciso la mattina del 9 maggio nonostante gli fu detto quella mattina avrebbe cambiato ancora nascondiglio. Il corpo fu nascosto dentro il baule di una Renault 4 rossa posizionata in via Caetani, una via nei pressi di largo di Torre Argentina. A pochi passi da dove l'autovettura fu parcheggiata si trovavano le sedi di DC (piazza del Gesù) e PCI (via delle Botteghe oscure): il corpo dello statista che voleva unire le due forze politiche nemiche per antonomasia per il bene del Paese era stato fatto rinvenire a metà strada tra le due sedi di partito. La beffa delle beffe. Due giorni dopo la scoperta del cadavere di Aldo Moro, Francesco Cossiga, si dimise da ministro degli Interni.
Ad avvisare della morte di Moro fu Moretti, il quale fece la telefonata che portò alla scoperta del cadavere: il brigatista chiamò Franco Tritto, collaboratore e amico intimo di Moro, e gli disse che il cadavere dello statista sarebbe stato fatto trovare dentro la Renault. La telefonata fu registrata e si sentiva il brigatista parlare in modo impassibile, mentre il professor Tritto rimase impietrito e singhiozzò nell'ascoltare dove avrebbe trovato il cadavere dell'amico, dopo aver dato la triste notizia alla famiglia. L'immagine del corpo di Moro dentro il baule della Renault 4 rossa è entrata negli annali delle foto più importanti e tristi della nostra storia repubblicana. Naturalmente il ritrovamento del cadavere di Moro chiuse per sempre la breve esperienza della vicinanza tra DC e PCI. Da quel punto di vista, le BR avevano vinto, ma i fatti di 55 giorni di Moro portarono il gruppo terrorista al loro declino dopo anni di azioni e 87 vittime.
La famiglia di Moro non volle rilasciare dichiarazioni ed entrò in silenzio stampa: avrebbero voluto un funerale di Stato, nessun lutto nazionale o medaglie poiché il loro congiunto fu abbandonato proprio dallo Stato.
Il corpo di Moro fu tumulato a Torrita Tiberina, ad un'ora di macchina da Roma. Il governò organizzò un funerale “in ricordo” con la messa celebrata dal Papa senza la bara dello statista e senza i suoi famigliari. Ancora oggi, la Fiat 130 dove era seduto Aldo Moro è ancora presso Centro Superiore Ricerche e Prove della Motorizzazione Civile di Roma ed è rimasta così dal giorno del rapimento: vetri rotti, sangue e proiettili sulle portiere. Come un reperto storico, è esposta in questo museo in via di Settebagni, zona Casal Boccone.

Peppino, la morte sui binari dopo aver dato troppo fastidio
L'attività politica e anti-mafiosa di Peppino Impastato non era mai passata inosservata. Anzi, in molte occasioni gli fu intimato “gentilmente” di smetterla altrimenti per lui ci sarebbero stati problemi. Ma Impastato non si tirò mai indietro e continuò per la sua strada. Le sue battaglie spaziavano dall'anti-imperialismo al razzismo, dagli aiuti alle popolazioni povere alle vittime del terremoto del Belice (gennaio 1968), dalla sicurezza sul lavoro alla disoccupazione, dall'ecologia alla difesa del territorio, dalla lotta alle speculazioni edilizie alle battaglie per l'acqua, dalla difesa dei contadini sfrattati per la costruzione della terza pista di Punta Raisi alla battaglie per le cave in mano a personaggi in odore di mafia.
Non si sa se l'attivista di Cinisi avesse mai pensato che la sua lotta lo avrebbe portato alla morte, ma lui continuava a denunciare la mafia e le sue attività sul giornale e alla radio. Sua è la famosa frase colorita “la mafia è una valanga di merda” (poi diventata “montagna”) per definire Cosa nostra: una cosa enorme fatta di malvagità.
I mafiosi si sa non è gente che andava per il sottile e durante uno degli incontri fra le “famiglie”, nel maggio 1978, venne deciso che Impastato doveva morire. A volere morto Impastato fu Tano Badalamenti. Come mai Impastato non fu colpito prima? Semplice, perché fino al 19 settembre 1977 lo “difendeva” il padre, ma con la morte di quest'ultimo dopo un incidente automobilistico dai lati oscuri, era chiaro che Impastato avrebbe avuto i giorni contati. La morte del padre, forse voluta perché si era rifiutato di uccidere o di far uccidere il figlio con lui in vita, fece crollare la “barriera” protettiva nei suoi confronti. Quando fu aperta la camera ardente del padre, a casa Impastato arrivarono molti mafiosi che furono accolti dalla vedova e dal secondogenito stringendo loro le mani. Peppino si rifiutò categoricamente di farlo: quelli avevano non solo fatto del male a Cinisi e alla Sicilia, ma anche a loro padre.
Se Moro sarebbe stato il candidato alla corsa per il Quirinale nel 1978, Impastato si candidò come consigliere comunale a Cinisi nelle elezioni amministrative del 14 maggio. Impastato prese 250 voti e fu eletto consigliere comunale per Democrazia proletaria. Non prese mai parte alle sedute, in quanto la notte tra l'8 e il 9 maggio 1978, fu fatto seguire e preso in ostaggio da alcuni soggetti, venne malmenato a morte in un casolare e il suo corpo adagiato sui binari della linea Palermo-Trapani e fatto esplodere. Peppino Impastato aveva da poco compiuto 30 anni.
Al mattino presto le forze dell'ordine perquisirono casa Impastato e le abitazioni dei suoi amici: si pensava che fosse un terrorista visto che era morto durante un attentato riuscito male e le forze dell'ordine volevano scoprire i segreti della sua vita “politica”. Solo a mattina inoltrata fu comunicata alla famiglia e agli amici la sua morte.
La notizia lasciò di sasso i siciliani. I suoi amici capirono fin da subito che era successo qualcosa al loro leader, perché la sera prima non partecipò alla riunione del circolo per parlare degli ultimi comizi da tenere prima del voto: Peppino non aveva mai saltato una riunione e questo per loro fu un brutto presagio. Il caso volle che la notizia del suo cadavere passò quasi inosservata nel “continente” perché uscì la notizia del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Nello stesso pomeriggio si tenne un comizio elettorale: doveva parlare Peppino, lo sostituirono alcuni amici e compagni di partito come Umberto Santino del Centro di documentazione nato l'anno precedente.
Le prime indagini fecero propendere per la morte di Impastato come un attentato dinamitardo dello stesso Impastato, fu accusato di essere un terrorista. Alcune “contro indagini” non ufficiali fecero venire fuori il fatto che Impastato non morì in un attentato, ma fu ucciso in un attentato causato da terzi, come esposto durante un incontro che si tenne nella Facoltà di Architettura dell'Università di Palermo il 12 maggio.
Ma c'era qualcosa di poco chiaro sull'andamento delle indagini: dalla celere riparazione dei binari alla pietra insanguinata consegnata alle forze dell'ordine e poi fatta sparire: chiari esempi che qualcuno stava tramando da tempo contro Impastato e fece in modo di far sparire indizi importanti che avrebbero fatto risalire all'identikit di chi l'aveva ucciso.
Ai funerali di Impastato parteciparono migliaia di cittadini, anche non di Cinisi, per dimostrare il loro affetto verso Peppino ed il suo impegno. Non vi presero parte i parenti e alcuni vicini di casa, “impauriti” per la presenza di tantissimi giovani: la mamma di Peppino decise di chiudere definitivamente i rapporti con i famigliari e gli amici che non presero parte alle esequie del figlio. Proprio quella che sposò il para-mafioso Luigi aveva rinnegato definitivamente il suo passato. Durante il passaggio della bara molte persiane di Cinisi erano chiuse e molti concittadini non parteciparono alle esequie per paura di essere visti da qualche mafioso “in borghese”.
Da quel momento, lei e il figlio Giovanni iniziarono una battaglia per far venire a galla la verità e a loro si unirono gli amici di Peppino.
Il 16 maggio 1978 la signora Felicia e il figlio Giovanni presentarono un esposto alla Procura di Palermo sostenendo che la morte di Peppino non fu dovuta ad un attentato andato male, ma era stato un omicidio, facendo il nome di Gaetano Badalamenti.
E sull'onda della emotività (e del rispetto nel ricordo della morte di Giuseppe Impastato), l'anno successivo si tenne la prima manifestazione nazionale contro la mafia della storia, dove presero parte oltre duemila persone.
Iniziò un lungo processo con il Centro di documentazione “Giuseppe Impastato” (erede del Centro nato nel 1977 e diventato tale il 20 maggio 1980) in prima fila per portare testimonianze importanti per risalire a chi avesse ucciso e fatto uccidere l'attivista di Cinisi. Furono importanti il bollettino “10 anni di lotta contro la mafia” edito dal Comitato di Controinformazione Impastato (nato accanto al Centro) con tutte le lotte del giovane Peppino. Nell'estate 1980, Radio Aut chiuse i battenti.
E fu una beffa per chi aveva dato il via alle indagini scoprire, a seguito delle perquisizioni fatte in casa Impastato e tra gli amici militanti di Peppino, che l'attivista non era morto per colpa sua collocando del tritolo sulla linea ferroviaria, ma sapere che qualcuno lo aveva catturato, ucciso, il suo corpo adagiato sui binario e fatto saltare in aria.
Chi era il mandante dell'omicidio? Uno solo, il boss di Cinisi: Gaetano Badalamenti. Fu proprio la madre durante le udienze processuali ad indicare nel boss mafioso colui che aveva voluto la morte del figlio. Per la prima volta, la signora Felicita andò contro la sua famiglia: di grandissimo coraggio, in ricordo e per rispetto del figlio brutalmente ucciso.
Tra il 1984 ed il 2002 si tennero i processi.
L'8 aprile 1984 fu arrestato Gaetano Badalamenti e si accertò poco tempo dopo che nel 1978 era a capo della mafia. Un mese dopo si accertò che Impastato era morto per mano della mafia, ma i responsabili furono ignoti (ordinanza Chinnici-Caponnetto). Nel gennaio 1988 si riaprì il processo grazie a Falcone, ma nel febbraio 1992 il sostituto procuratori de Francisci archiviò l'inchiesta: Badalamenti non fu il mandante della morte di Impastato, ma i suoi rivali di Corleone.
Il 13 marzo 1998, Peppino Impastato è stato riconosciuto come “vittima della mafia”.
Il 5 marzo 2001 Palazzolo, collaboratore stretto di Badalamenti, fu condannato a 30 anni, mentre l'11 aprile 2002 a Badalamenti venne dato l'ergastolo che scontò in un carcere del Massachussets dove era rinchiuso dal 1987 ed in cui stava già scontando una pena di quarantacinque anni per traffico internazionale di stupefacenti all'interno dell'operazione “Pizza connection”. Morì in carcere nell'aprile 2004, ma coloro che depistarono le indagini non vennero mai perseguiti. Gli esecutori materiali della morte di Impastato furono Nino Badalamenti (che morì nella Seconda guerra di mafia) e Ciccio di Trapani, morto anni prima.
Sempre nel 2002 fu organizzato il primo Forum sociale antimafia, una tre giorni di dibattiti, concerti, spettacoli e cortei con il patrocinio del Centro documentazione ed il supporto, tra le altre, dell'Associazione Amici di Peppino Impastato e l'Associazione Radio Aut.
Nel dicembre 2008, l'aula consiliare di Cinisi fu dedicata a Peppino Impastato: tempo prima si pensava di dedicarla all'ex sindaco Pandolfo, uno dei simboli che Impastato aveva combattuto in vita.
Nel 2011 la casa di Badalamenti venne confiscata e divenne sede dell'”Associazione Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato”. Tutti sapevano che c'entrava la mafia, che c'entrava Badalamenti, che c'entravano coloro con cui Impastato aveva un conto in sospeso, ma solo la forza della madre e degli amici riuscì a far andare più a fondo le indagini: bastava fare solo “cento passi” da casa Impastato per capire qualcosa in più sulla morte del giovane Peppino.

Aldo e Peppino quarant'anni dopo
La memoria, in campo storico, sta a significare il ricordo di fatti ed eventi che hanno caratterizzato un qualcosa ed il suo ricordo deve essere sempre vivo. E la data del 9 maggio, come giorno per la celebrazione della giornata delle vittime degli attentati terroristici, non è stata casuale. “Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro”, diceva lo scrittore cileno Luis Sepúlveda: istituire una giornata simbolica (ma pregna di significato) per ricordare eventi che non devono mai essere dimenticati è giustissima, ma non deve essere una giornata “spot” ma tutto l'anno sono da ricordare le vittime che non devono essere mai dimenticate e non ricordate solo perché ce lo ricorda il calendario. Tutto questo per sconfiggere il grande nemico della storia e della memoria: l'oblio.
Ovviamente quando si pensa alla giornata della memoria in ricordo delle vittime del terrorismo non c'è fermarsi al solo Aldo Moro e a Peppino Impastato, ma si devono ricordare le vittime delle bombe degli anni di piombo, delle stragi di mafia e degli attentati terroristici lontani dall'Italia.
Le morti di Moro e Impastato, a poche ore di distanza l'una dall'altra, sono però importanti perché hanno un comune significato: entrambi volevano cambiare lo status quo in cui vivevano. Moro è stato vittima della stessa politica e ucciso da chi voleva cambiare in peggio il Paese, mentre Impastato morì perché voleva cambiare la mente dei siciliani che avevano paura della mafia, riuscendoci in parte smuovendo le coscienze dei suoi concittadini e corregionali, anche se ciò gli costò la vita. Entrambi non avevano paura delle azioni che facevano, ma sono andati avanti per la loro strada e hanno lasciato un segno nella storia del Paese.
Soggetti di questo tipo sono definiti “eroi”, anche se Moro ed Impastato rifiuterebbero questo epiteto avendo fatto questo per il bene assoluto del Paese. Moro sicuramente non pensava di finire così, abbandonato da tutti, mentre Impastato sapeva che prima o poi avrebbe dovuto fare i conti con qualcuno più “grande” di lui. E il giovane Peppino negli anni aveva avuto degli avvertimenti, ma lui non si è mai fermato, ha sempre protestato, esprimendo il suo dissenso verso la mafia. Impastato è stato un figlio del Sessantotto prima e del Settantasette dopo: un figlio dei tempi che ha vissuto e la sua storia, insieme a quella dei suoi amici di Cinisi, è stata densa di ideali, coraggio, ribellione e violenza. Dove la “violenza” l'hanno subita lui e suoi amici che usavano la parola, gli striscioni e i cortei al posto delle armi.
Uno potrebbe dire: “ne è valsa la pena perdere la vita per una cosa di questo tipo?”. Certo, perché l'omicidio di Impastato ha svegliato le coscienza e ha fatto alzare la testa a tanti siciliani e ha dato quel quid in più alla magistratura di proseguire la caccia ai mafiosi, con la cattura tra il 1984 e il 2006 dei vari Buscetta, Calò, Riina, Santapaola Graviano e Provenzano. Ma la morte di Moro portò all'arresto dei brigatisti rossi che lo avevano sequestrato e ucciso, portando alla fine degli anni di piombo e alla fine della cellula delle Nuove Brigate rosse di inizio secolo.
Sul caso Moro si sono tenuti cinque processi ed organizzate due Commissioni parlamentari (Commissione parlamentare bicamerale Moro, attiva tra il 1980 ed il 1983, Commissione parlamentare bicamerale Stragi, dal 1988 al 2001, guidata dai parlamentari Libero Gualtieri e Giovanni Pellegrino).
Sulla storia di Moro e Impastato sono stati girati film, documentari, opere teatrali e canzoni. I due film più riusciti sono stati “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio del 2003 sulla tragedia di Aldo Moro, con Maya Sansa, Roberto Herlitzka e Luigi Lo Cascio. Lo stesso Lo Cascio è stato il protagonista del film “I cento passi” di Marco Tullio Giordana, vincitore di ben cinque David di Donatello, tra cui quello di miglior attore protagonista allo stesso Lo Cascio e a Tony Sperandeo come miglior attore non protagonista: i due attori siciliani nella pellicola interpretarono Peppino Impastato e Gaetano Badalamenti. La pellicola era anche in lizza per il premio come miglior film e miglior regia. Nel 2004, il gruppo musicale kombat-folk dei Modena City Ramblers dedicò a Peppino Impastato la canzone “I cento passi”, raccontando la storia dell'attivista anti-mafia. Per il gruppo modenese, le morti contemporanee di Moro ed Impastato sono avvenute durante “[...] la notte buia dello Stato Italiano/quella del nove maggio settantotto/la notte di via Caetani, del corpo di Aldo Moro/l'alba dei funerali di uno Stato”. Il film e la canzone prendono il titolo dalla distanza tra la casa degli Impastato e di Badalamenti, effettivamente distanti cento passi l'una dall'altra. Nel film fu messo in risalto il coraggio e la forza della madre di Peppino, traendo spunto proprio da come si comportò la signora Impastato dopo la morte del figlio: coraggiosa, determinata e piena di forze per far venire a galla la verità.
Le Br furono sconfitte e la battaglia di Peppino smosse le coscienze dei siciliani e di tutte le persone libere e contro le malefatte. E peccato che Impastato solo molto tempo dopo fu dichiarato “vittima di mafia”.
Aldo e Peppino, morti sul campo, morti per dare un destino diverso alla politica nazionale e all'Italia, morti che hanno avuto per anni degli interrogativi tra depistaggi, errori e silenzi pesanti. Ma con la certezza, postuma, di non essere morti invano. Moro e Impastato sono morti lo stesso giorno, quel 9 maggio 1978 considerato come “la più grande tragedia italiana collettiva italiana del dopoguerra”. E la brigatista Barbara Balzerani, a due mesi esatti dalla ricorrenza del 40ennale, sul suo profilo Facebook (la donna, arrestata nel 1985, mai pentita e mai dissociatasi dalla sua attività brigatista, e in libertà definitiva dal 2011) espresse la volontà di ricordare i “fasti del 40ennale” fuori dall'Italia, sollevando un vespaio di polemiche per la mancanza di rispetto verso la morte dello statista, subendo però la censura di alcuni suoi compagni di movimento. Un'uscita fuori luogo da parte di una persona che ha contribuito a realizzare “la più grande tragedia italiana collettiva italiana del dopoguerra”.
La stessa Balzerani, proprio il 16 marzo scorso, ha presentato un libro (non inerente i fatti di via Fani) in un centro sociale di Firenze. L'evento, organizzato molto tempo prima, ha avuto uno strascico di polemiche per il fatto che una brigatista non pentita e con alle spalle oltre venti anni di carcere possa andare a tenere conferenze dopo quello che ha fatto di grave in gioventù, senza mai pentirsene.
E la mattina del 21 febbraio scorso, la targa di via Fani in ricordo dei cinque morti della scorta di Moro fu imbrattata, infangando anche la loro memoria. Quando si dice mancanza di rispetto verso chi è morto e che deve essere ricordato giorno dopo giorno per il suo sacrificio.
Due uomini diversi per cultura e formazione, Aldo e Peppino. Due uomini che hanno operato a distanza di migliaia di chilometri, due che sono morti per mano di due elementi (terrorismo e mafia) che hanno rappresentato un'immagine distorta dell'Italia nel Mondo. Due uomini saggi, miti, eroici. Due che nonostante i tanti processi successivi alle loro morti ora possono riposare in pace.
Per questo motivo non basta una sola giornata per ricordarli, ma tutta la vita.


Bibliografia suggerita
Aldo Moro
Silvio Bonfiglio – Jacopo Sce, Il delitto infinito. Ultime notizie sul sequestro Moro, Kaos Edizioni, Milano, 2002;
Guido Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, il Mulino, Bologna, 2016;
Ferdinando Imposimato – Sandro Provvisionato, Doveva morire. Chi ha ucciso Aldo Moro. Il giudice dell'inchiesta racconta, Chiare Lettere, Milano, 2008;
Agostino Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, il Mulino, Bologna, 2005;
AA.VV, Dossier delitto Moro, a cura di Sergio Flamigni, Kaos Edizioni, Milano, 2007;

Peppino Impastato
Giovanni Impastato – Franco Vassia, Resistere a Mafiopoli. La storia di mio fratello Peppino Impastato, Stampa alternativa, Viterbo, 2009;
Salvo Vitale, Peppino Impastato. Una vita contro la mafia, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2016;
Carmelo Pecora, 9 maggio '78. Il giorno che assassinarono Aldo Moro e Peppino Impastato, Editrice Zona, Civitella in Val di Chiana, 2007.


Sitografia
www.centroimpastato.com;
Le auto della strage di via Fani 40 anni dopo, www.panorama.it/news/cronaca/le-auto-della-strage-di-via-fani-40-anni-dopo-foto/;
Il caso Moro - La storia siamo noi, https://www.youtube.com/watch?v=AKZXe6a8QFE;
Aldo Moro. 55 giorni di passione, di Giuliano Gallo e Paolo Menghini, regia di Vittorio Nevano, Corriere della Sera, https://www.youtube.com/watch?v=hXASlgP5kSk;
Peppino Impastato - La storia siamo noi, https://www.youtube.com/watch?v=fqYZ7O-hBNw;


Filmografia Buongiorno, notte, regia di Marco Bellocchio, 2003. con Roberto Herlitzka, Luigi Lo Cascio, Maya Sansa;
I cento passi, regia di Marco Tullio Giordana, 2000, con Luigi Lo Cascio, Luigi Maria Burruano, Lucia Sardo, Tony Sperandeo.
  • TAG: mafia, peppino impastato, aldo moro, brigate rosse, democrazia cristiana, prima repubblica

Articoli pubblicati da Simone Balocco e Paola Maggiora


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