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La guerra per il mezzogiorno di Carmine Pinto [ di ]

La guerra per il Mezzogiorno
Italiani, borbonici e briganti 1860-1870
di Carmine Pinto


Editori Laterza
Edizione: 2019, VII rist. 2021
Pagine: 512, ril.
Prezzo: 28,00 Euro
Collana: Cultura storica
ISBN carta: 9788858135310
ISBN digitale: 9788858138564
Argomenti: Storia contemporanea, Storia d'Italia

Il brigantaggio fu l’eroica resistenza meridionale al colonialismo sabaudo o la sfida allo Stato di bande criminali?

La guerra per il Mezzogiorno concluse la crisi del Regno delle Due Sicilie, determinò il successo dell’unificazione italiana e marcò la complicata partecipazione del Mezzogiorno alla nazione risorgimentale. Iniziò nel settembre del 1860, dopo il successo della rivoluzione unitaria e garibaldina, e si protrasse per un decennio, mobilitando re e generali, politici e vescovi, soldati e briganti, intellettuali e artisti. Non fu uno scontro locale, perché coinvolse attori politici e militari di tutta la penisola e d’Europa, ma non fu neppure una guerra tradizionale: i briganti, le truppe regolari italiane, i volontari meridionali si sfidarono nelle valli e nelle montagne in una guerriglia sanguinosa, del tutto priva dei fasti risorgimentali. Si mescolarono la competizione politico-ideologica tra il movimento nazionale italiano e l’autonomismo borbonico; l’antico conflitto civile tra liberalismo costituzionale e assolutismo; la lotta intestina tra gruppi di potere, fazioni locali, interessi sociali che avevano frammentato le città e le campagne meridionali. Questo libro, per la novità di materiali e documenti usati e per la vastità delle ricerche compiute, offre una prospettiva sulla guerra di brigantaggio che innova interpretazioni fino a oggi date per acquisite.

Vincitore del Premio Basilicata 2019 Saggistica storica nazionale
Premio FiuggiStoria Saggistica 2019
Premio Città di Montesano 2019
Premio Sele d’Oro 2019 Saggistica
Premio Rende Book Festival 2019
Premio letterario Città di Siderno 2019 Saggistica
Premio Fiuggi Storia 2019 Saggistica


Recensione del Prof. Emiliano Beri dell'Università degli Studi di Genova

I l 1859-60 è stato un biennio di eventi eccezionali – in buona parte inaspettati e solo parzialmente pianificati – che hanno concretizzato il progetto unitario nazionale italiano, saldando il Nord e il Sud della Penisola. Non l’ha però concluso, nella misura in cui il Meridione continentale dopo l’Unità è stato teatro di un lungo conflitto, che ha avuto come posta in palio la stabilizzazione della costruzione unitaria di fronte ai tentativi di restaurazione borbonica. Il lavoro di Carmine Pinto, frutto di una ricerca decennale, proietta il lettore in questo ultimo atto del percorso unitario che, iniziato nel 1860 col passaggio di Garibaldi dalla Sicilia alla Calabria, ha avuto nel Meridione continentale il suo teatro, concludendosi dieci anni dopo con la fine della guerra al brigantaggio pro-borbonico.
Dal biennio eccezionale, vittorioso, il lettore viene quindi trasportato nella realtà della lunga lotta tra guerriglia borbonica e controguerriglia unitaria: la prima guerra italiana, secondo un’azzeccata categoria interpretativa proposta dall’autore, e l’ultima guerra intestina al Mezzogiorno borbonico. Il punto visuale da biennale diventa, quindi, decennale. Ma non solo, diventa pluridecennale, perché la guerra per il Mezzogiorno è al contempo l’ultimo atto del processo unitario italiano e l’ultimo atto del lungo conflitto civile che, a più riprese, ha scandito l’ultimo sessantennio di vita del regno borbonico (unione dinastica di Regno di Napoli e Regno di Sicilia fino al 1816, Regno delle Due Sicilie dal 1816). Nell’atto finale, la guerra per il Mezzogiorno, si sono affrontati due progetti politici contrapposti, entrambi monarchici: quello nazionale italiano, sabaudo, e quello nazionale napoletano, borbonico. Ma per capire la guerra per il Mezzogiorno Pinto propone una prospettiva di lungo periodo; un lungo periodo che prende le mosse dal 1799, passa per il 1820, il 1848, il 1860, e porta fino al 1870, mostrando, con efficacia, come il conflitto sia in primo luogo il prodotto di una dinamica interna al Mezzogiorno. È una dinamica in cui si affrontano, si confrontano e si scontrano, tre attori politici: l’assolutismo borbonico, il liberalismo costituzionalista napoletano e l’indipendentismo siciliano, con gli ultimi due sconnessi tanto nel 1820 quanto nel 1848, e ripetutamente sconfitti, fino alla convergenza, vittoriosa, sul progetto unitario nel 1860. Una convergenza che ha portato sia coesione di intenti e obiettivi che aiuto esterno, in una prospettiva, unitaria, che ha dato all’intervento estero una connotazione interna, ossia in cui l’intervento esterno ha preso corpo come liberazione, come intervento di italiani in aiuto di italiani per saldare le due metà della Penisola.
La prospettiva di lungo periodo restituisce al conflitto la sua dimensione storica, e restituisce il conflitto all’analisi storico-scientifica, permettendo al lettore di dotarsi degli anticorpi necessari per sviluppare immunità verso quegli approcci pseudoscientifici che hanno dato forma ad un racconto pseudostorico del conflitto, proposto al grande pubblico negli ultimi due decenni da una nutrita costellazione di autori. Si tratta di autori che hanno fatto propri i temi della propaganda di guerra e dell’immaginario politico pro-borbonico, del «borbonismo», eleggendoli acriticamente a misura della realtà, attraverso un processo di decontestualizzazione e ricostruzione selettiva.
Il conflitto viene così raccontato come il prodotto dell’invasione di un regno prospero e coeso, e della conseguente reazione degli invasi, oppressi, depredati e decimati dagli invasori stranieri (garibaldini e piemontesi), il cui successo è stato possibile solo grazie ad una cospirazione orchestrata dalla Gran Bretagna, la maggiore potenza del tempo. Con la cospirazione che è la condizione necessaria per spiegare la caduta di regno prospero e coeso di fronte all’azione di un gruppo di Mille mercenari criminali; un’armata di Brancaleone che avrebbe dovuto essere rapidamente eliminata, se non fosse stata assoldata, appoggiata e aiutata dalle armi e dai denari britannici e dall’azione di pochi, spregevoli e subdoli, traditori profumatamente remunerati.
Sebbene l’artificiosità di una tale ricostruzione sia palese agli occhi di chi ha gli strumenti per approcciare criticamente alla storiografia, il suo appeal su una non trascurabile fetta di pubblico è notevole, nella misura in cui fornisce una spiegazione semplice, ed efficace nella sua semplicità, alla realtà del Meridione, individuando nel passato i colpevoli delle difficoltà del presente.
Ma l’appeal ha bisogno di condizioni strutturali, di un racconto costruito in funzione della tesi, con un approccio selettivo che elimini quegli attori, elementi ed eventi che la problematicizzano, ne evidenziano le contraddizioni, le debolezze, e portano la riflessione a conclusioni opposte, o comunque diverse, da quelle prefissate. Così il conflitto civile che ha dilaniato il regno borbonico a più riprese nel primo sessantennio dell’Ottocento , e la collocazione della guerra per il Mezzogiorno al suo interno, viene espunto dal racconto, così come vengono espunte, all’interno del racconto della guerra per il Mezzogiorno, tanto l’adesione massiccia di meridionali alla rivoluzione unitaria quanto il ruolo cruciale svolto dai ceti dirigenti e dalle milizie armate meridionali nella repressione del brigantaggio pro-borbonico.
È qui che il lavoro di Pinto assume un particolare valore, nella misura in cui restituisce al lettore, al pubblico, la realtà di una guerra che, per essere spiegata e capita, deve essere collocata in una dinamica interna al regno come fase finale, come punto di arrivo, del lungo conflitto scandito dal 1799, dal 1820 e dal 1848. Un punto di arrivo che segna la vittoria del fronte antiborbonico.
È una vittoria prodotta dalla confluenza nel progetto unitario delle due anime dell’anti-assolutismo e dell’anti-borbonismo meridionale: il liberalismo napoletano e l’indipendentismo siciliano. Due anime sconfitte ripetutamente nei conflitti precedenti, e capaci di trovare la vittoria attraverso la convergenza su un progetto, quello unitario, che ha saputo dare forma concreta, e definitiva, all’obiettivo di produrre un cambio di regime: dalla monarchia assolutista napoletana (borbonica) a quella costituzionalista italiana (sabauda). Mi limito a proporre alcuni elementi che possono dare efficacemente l’idea della connotazione di «rivoluzione disciplinata» (cioè emendata da quegli accessi e dal quel disordine che avrebbero potuto alienare il consenso dell’élite) antiborbonica, e conflitto civile, propria della guerra per il Mezzogiorno; ossia a come la guerra sia stata un conflitto di meridionali contro i Borbone e di meridionali contro altri meridionali. In primo luogo, il fatto che la Sicilia sia rimasta dopo il 1860 stabilmente unitaria, senza essere attraversata da quel fenomeno di lotta politica-criminale che è il brigantaggio pro-borbonico. Già questo primo elemento spiega efficacemente uno degli snodi cruciali del collasso del regno: la defezione di una delle Due Sicilie. In secondo luogo, il fatto che l’esercito garibaldino, alla fine del suo percorso vittorioso, fosse formato per due terzi da volontari meridionali (circa 35.000 uomini su 53.000). Infine, la dimensione del contributo meridionale alla lotta contro le bande di combattenti pro-borboniche: un contributo che si può comprendere guardando ai circa 400.000 uomini in servizio, nel 1862, nella Guardia nazionale delle ex «Province napoletane» (ossia del Meridione continentale). Con la Guardia nazionale che ha avuto un ruolo di primo piano nella lotta al brigantaggio, in primo luogo attraverso i suoi reparti d’élite, le colonne mobili, in secondo luogo nella forma dei battaglioni misti, unità formate da compagnie dell’esercito e della guardia nazionali, in un’efficace sinergia tra forze regolari e milizie locali. Ecco che l’immagine di una contrapposizione rigida, monolitica, tra invasore settentrionale («piemontese») e resistente meridionale («napoletano»), proposta dalla letteratura pseudostorica, lascia spazio alla realtà della contrapposizione tra un fronte unitario trasversale, italiano, in cui i meridionali sono protagonisti, e il fronte borbonico. È la contrapposizione tra due diversi progetti nazionali, a cui corrispondono due sovrapposte spaccature del regno duosiciliano: la prima tra le due Sicilie – la Sicilia da una parte e le Province napoletane dall’altra –, la seconda interna alle Province napoletane, con i borbonici da una parte e gli unitari dall’altra.
La spiegazione del successo è articolata, e Pinto la affronta in tutta la sua complessità: dall’analisi del contesto internazionale (caratterizzato dall’isolamento dei Borbone) alla riflessione sulle realtà locali, con i progetti nazionali che si intrecciano agli interessi dei gruppi politici in lotta per l’occupazione degli spazi di potere. Il lettore viene condotto fuori dalle semplificazioni distorsive e accompagnato all’interno di una realtà, complessa, articolata e sfaccettata: la realtà di un conflitto che è rivoluzione e controrivoluzione, guerra nazionale e guerra civile. Non solo, il lettore viene condotto all’interno della realtà della guerra, in tutta le sue ramificazioni politiche, militari, sociali e culturali.
Ma il lavoro di Pinto non si ferma qui, non è uno studio che parla solo al pubblico, è un lavoro che parla anche agli accademici, alla storiografia e agli appassionati di storia militare (un universo di lettori e studiosi non accademici troppo spesso trascurato dall’editoria italiana). L’analisi dei contrapposti progetti politici, e dei motivi che hanno determinato la vittoria di quello unitario, si sviluppa attraverso una costruzione multitematica, incardinata su una ricca, ma al contempo snella, ricostruzione evenemenziale, che dà maggiore sostanza, efficacia e profondità alle riflessioni. La riflessione spazia dalla guerra di idee – con la mobilitazione intellettuale e mediatica, la costruzione d’immagine di sé e del nemico e le strategie di costruzione del consenso –, alla mobilitazione politica e militare delle élite, dei ceti medi e degli strati sociali popolari – col loro immaginario, i loro obiettivi, attraverso forme e categorie che prefigurano, almeno parzialmente, alcuni temi che saranno propri della guerra totale –, dalla prospettiva dei vertici politici e degli alti comandi – con i progetti, gli obiettivi, i processi decisionali – a quella dei combattenti, con la quotidianità della guerra e delle violenza.
La storia militare del conflitto, virtuosamente intrecciata con quella politica, culturale e sociale, impegna buona parte delle 500 pagine del libro. Anche qui l’analisi spazia, muovendosi su una molteplicità di piani. Ecco i punti di forza tattici e operazionali della guerriglia brigantesca e i suoi limiti strategici, di coordinamento, di coesione morale e operativa tra volontari legittimisti internazionali e briganti meridionali. Ecco le tappe dello sviluppo di un’efficace dottrina di controguerriglia da parte delle forze di sicurezza italiane, attraverso la definizione di obiettivi strategici articolati, finalizzati a colpire le bande sotto il profilo operativo (l’azione incalzate per sottrarre al guerrigliero la possibilità di colpire e sganciarsi, ossia per annullare nella sua natura l’essenza stessa della guerra per bande) e sotto il profilo logistico (l’azione condotta allo scopo di eliminare le basi e i punti di appoggio delle bande, di sradicare le reti di sostegno e approvvigionamento al brigantaggio, attraverso un’equilibrata sinergia di repressione e politica del perdono).
Ecco la centralità dell’azione militare in rapporto al territorio, da una parte in termini di ordine e sicurezza, dell’altra in termini di disordine e insicurezza; da parte italiana quale strumento di costruzione di consenso e di legittimazione politica, da parte borbonica-brigantesca quale strumento di decostruzione del consenso e di delegittimazione politica. Sono i cardini delle strategie dei due attori del conflitto, nella necessità, che ha il nuovo regime, di legittimare sé stesso attraverso l’esercizio della funzione fondamentale di chi esercita il potere, la tradizionale fonte legittimante del potere, garantire pace, giustizia e sicurezza, e nell’azione della guerriglia pro-borbonica finalizzata a delegittimare il nuovo regime attraverso il disordine e l’insicurezza. Se l’obiettivo viene definito sulla dicotomia sicurezza/insicurezza, il centro di gravità non può che collocarsi, in forme diverse, sulla popolazione civile: proteggere i propri sostenitori, colpire quelli del nemico, favorire il travaso tra i due campi, legittimare garantendo ordine, delegittimare generando disordine. I moduli operativi sono solo in parte simili, per lo più differiscono, in relazione alla divergenza dell’obiettivo e alla natura strutturale dell’attore: l’azione dei briganti è caratterizzata da un utilizzo sistematico della violenza contro i civili in una connotazione quasi esclusivamente criminale; l’azione degli unitari è caratterizzata dal ricorso a legislazioni di emergenza finalizzate al perseguimento dell’obiettivo in un quadro di legalità e di contenimento della violenza incontrollata. L’anomia della guerra civile si declina in forma asimmetrica: amplificata da un lato, contenuta ed imbrigliata, senza però essere annullata, dall’altro.
La riflessione pluritematica sulla guerra civile meridionale, e la prospettiva di lungo periodo con cui viene affrontata la guerra per il Mezzogiorno, permette infine a Pinto di proporre una convincente ridefinizione interpretativa del brigantaggio, attraverso l’interazione di ricerca archivistica, riflessione storiografica e ampiezza di prospettiva, mettendo in relazione la tradizionale realtà del banditismo rurale con la contingenza della lotta politica. Nella lotta politica il banditismo assumeva frequentemente, quasi consuetudinariamente, la connotazione peculiare di forza armata militante. Così accadde anche nel Mezzogiorno del 1860-70, dove un fenomeno sociale plurisecolare, definito qui brigantaggio in luogo di banditismo, nella contingenza del conflitto si schierò, diventando forza armata di quell’attore della lotta politica che si proponeva sia come campione della Tradizione e della Fede, della Nazione napoletana e della Legittimità dinastica, sia come interlocutore aperto al riconoscimento e alla promozione sociale delle leadership brigantesche. Un fenomeno strutturale della società rurale che assume nei conflitti la connotazione di fenomeno politico-criminale: politico negli scopi, negli obiettivi e nella collocazione militante; criminale nella sua natura, che si manifesta attraverso la pratica operativa. Documento inserito il: 17/02/2022
  • TAG: brigantaggio, borboni, savoia, mezzogiorno, garibaldi

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