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L'elogio di Tito da Svetonio a Mozart [ di Carlo Ciullini ]

L'arco trionfale a lui dedicato campeggia ancor oggi, imponente nella sua unica arcata, nella parte occidentale del Foro a Roma.
Volle onorarne il ricordo il fratello Domiziano, l'ultimo dei tre imperatori flavi (che regnarono dal 69 dopo Cristo al 96) a guidare l'Impero dopo il padre Vespasiano e, appunto, il fratello maggiore Tito, morto precocemente dopo due soli anni di principato, dal 79 all'81.
Il possente monumento celebrava in modo postumo i successi di Tito in Giudea, dove Vespasiano aveva inviato il primogenito per sedare la ribellione degli Ebrei.
Una rivolta soffocata nel sangue con dure rappresaglie e, sopratutto, l'epocale distruzione, nel 70, del Tempio di Gerusalemme: dopo l'abbattimento del grande luogo di culto voluto da Re Salomone a opera delle armate babilonesi di Nabucodonosor, le mura del Tempio crollarono di nuovo nella polvere.
Venne così cancellato per sempre il centro sacrale del monoteismo ebraico, e i simboli dell'atavica religione, sottratti alle fiamme, furono trasferiti come preda bellica nel paese del vincitore.
Tito trionfava. Ecco ascendere, per la via che saliva al Campidoglio, il ricco bottino di guerra del giovane generale, vanto e prode stirpe dell'imperatore Vespasiano: il sacro candelabro a sette braccia, poi il tesoro del Tempio, le trombe d'argento che avevano fatto crollare le mura di Gerico, e infine i più irriducibili dei ribelli, condotti in catene prima e al supplizio poi.
A metà della processione trionfale, infatti, acerrimi nemici di Roma avversi alla schiavitù, come Simone Bar Giora, furono tratti via per esser giustiziati a parte. La rivolta giudaica fu dunque soffocata con la violenza, e la figura di Tito Flavio, comandante delle legioni vittoriose, ci appare quella di un generale risolutamente spietato.
Se il genere umano si divide in buono e cattivo, ebbene, egli appartenne senz'altro a questa seconda schiera, nella parte iniziale della sua carriera politico-militare.
Eppure, Tito ha saputo perfettamente incarnare durante il suo breve biennio di regno (esattamente due anni, due mesi e venti giorni, specifica Svetonio) il ruolo del princeps mite, assennato, clemente e fonte di letizia per il suo popolo.
Amato e lodato dai suoi contemporanei per il carattere amabile, il giovane Flavio, morto troppo presto a soli quarantadue anni, ha saputo attirare anche il favore dei posteri.
La memoria collettiva lo ha reso icona del sovrano positivo, illuminato, pregno delle virtù e delle qualità più auspicabili in un reggitore di popoli.
Per trattarne ci rifacciamo a Caio Svetonio Tranquillo, il biografo per antonomasia dei primi imperatori, e autore di uno dei più rinomati testi della letteratura latina, il “De vita Caesarum”, una straordinaria raccolta di vite dedicate a Cesare e agli imperatori da Augusto (27 avanti Cristo) a Domiziano (96 dell'era volgare).
Il quadro delle loro regali esistenze viene tracciato da Svetonio in modo semplice, con rapide e colorite pennellate, senza orpelli retorici ma con dovizia di particolari, aneddoti, curiosità, accompagnati da exempla virtuosi o da pruriginose descrizioni di vizi (più o meno privati), fino al racconto di palesi nefandezze.
Svetonio, che fu segretario ab epistulis di Adriano, e che visse dunque nella prima metà del II°secolo dopo Cristo, ebbe, grazie alla sua particolare e prestigiosa funzione, possibilità pressoché illimitate di accesso agli archivi imperiali e ai senatus consulta, dai quali suggere informazioni assai preziose in vista della stesura della sua grande opera biografica.
E proprio dalle pagine riguardanti Tito Flavio traiamo notazioni affascinanti per meglio conoscere questo princeps, vera “delizia del genere umano”.
Cosa era cambiato nell'animo di Tito, in quel decennio che separò le sue cruente imprese in Palestina dall'ascesa al trono detenuto dal padre, nel 79?
Durante la campagna giudaica, il giovane Flavio, allora trentenne, non mostrò invero alcuna pietà per il popolo ebreo:“All'ultimo assalto di Gerusalemme- ci racconta Svetonio- egli abbatté dodici difensori della città con altrettanti colpi di freccia”.
Mostrando coraggio, valore militare e determinazione, Tito ebbe ben presto l'esercito ai suoi piedi: “La gioia dei soldati e il loro affetto erano così vivi che, congratulandosi con lui, lo salutarono imperatore, e poco più tardi, quando lasciò la provincia, cercarono di trattenerlo, chiedendoli con suppliche e con minacce di restare, oppure di condurli con lui”.
Nonostante l'appoggio incondizionato delle truppe, mai Tito pensò di detronizzare il padre Vespasiano, mostrandosi invece in ogni circostanza sua validissima spalla. Solo la morte dell'anziano genitore, dovuta a cause naturali, lo portò ad assumere le vesti di nuovo imperatore: ma, da allora, il cambiamento nella sua vita non fu solo di carattere pratico.
Svetonio stesso, fin da subito, evidenzia la metamorfosi interiore del secondo Flavio: “Tito fu chiamato la delizia del genere umano, tanto egli fu in grado per natura, per capacità e per ricchezza di mezzi di conquistarsi la simpatia di tutti e, cosa ben più difficile, dopo essere diventato imperatore, mentre quando era semplice cittadino, e anche durante il principato di suo padre, non gli mancarono né l'odio né il biasimo pubblici”.
Un mutamento a 360°, dunque: perché ciò accadde non è dato sapere, e molteplici possono essere le ipotesi al riguardo.
Resta, in definitiva, un mistero celato nell'animo di Tito stesso.
Questo non sarà, come vedremo, l'unico dilemma relativo alla sua figura: di qui a poco ci porremo altre domande sull'uomo, domande cui risulterà arduo dare risposta certa.
In qualità di membro di spicco della famiglia reale, Tito ricoprì prima di salire al trono tutte le cariche istituzionali più prestigiose: fu censore, per ben sette volte console, e condivise col padre anche la tribunicia potestas.
Godette perciò di un potere enorme, secondo solo a quello di Vespasiano: ne abusò oltremodo, anzi spietatamente.
Scrive Svetonio: “Ebbe una condotta eccessivamente dispotica e brutale giacché, non appena uno gli era sospetto, assoldava individui che, nei teatri o nell'accampamento, reclamassero il suo supplizio, come se parlassero a nome di tutti, e lo faceva giustiziare senza nessun scrupolo”.
Pare impossibile che un uomo di animo così spiccatamente perverso, non di rado crudele, potesse in seguito rifulgere come icona di bontà e clemenza.
Il giudizio dello storico romano circa l'indole mostrata da Tito prima di cingersi del manto purpureo è del tutto negativo, diremmo tranchant:“Questo modo di comportarsi (…) gli attirò sul momento molto odio, al punto che forse nessuno divenne imperatore con una così cattiva reputazione e contro la volontà più decisa di tutti”.
Il rampollo di casa Flavia si distingueva, poi, per intemperanza e libertinaggio; né mancava di rapacità, ci riferiscono le fonti, poiché si avvaleva delle proprie prerogative in ambito giudiziario per trarne profitto economico.
Poi, il miracolo...Il racconto svetoniano muta d'aspetto e pare, d'improvviso, narrare un'altra vita, un personaggio diverso, di sicuro lontano anni-luce da quello precedentemente descritto: Tito Flavio come una crisalide umana, insomma.
Questo il passo con il quale Svetonio capovolge la cupa realtà precedente: “Ma tale cattiva reputazione tornò a suo vantaggio e lasciò il posto ai più grandi elogi, quando non si scoprì in lui nessun vizio, ma al contrario, si ritrovarono le più rare virtù”.
Difficilmente (a meno di nuove scoperte storiografiche) sapremo cosa accadde e portò Tito al mutamento copernicano: nel 79 nasce davvero, assieme al suo breve principato, una nuova e purificata versione di questo uomo.
L'encomio, cui Svetonio dà il via nelle pagine seguenti, pare la biografia di uno di quei re-santi alla Luigi IX°, tipici del Medioevo e delle crociate: “Tito non tolse più niente a nessun cittadino, rispettò più di chiunque il bene altrui”.
E ancora: “Assai benevolo per natura, Tito fu il primo imperatore a ratificare con un solo editto tutti i benefici dei prìncipi che lo avevano preceduto, senza pretendere che gli si facesse domanda”.
La descrizione delle virtutes regali sale ancora di tono: “Poiché il personale di casa gli faceva osservare che prometteva più di quanto potesse mantenere, rispose che nessuno doveva uscire malcontento da un colloquio con l'imperatore”.
E, per finire, un episodio che pare più tratto da una raccolta di fioretti francescani, piuttosto che dalla biografia di un sovrano pagano: “Una sera, a tavola, ricordandosi che tutto il giorno non aveva concesso un beneficio a nessuno, pronunciò queste parole memorabili che giustamente si esaltano:''Amici miei, ho perduto una giornata!''”.
La potremmo definire una conversione ante-litteram, o forse, più semplicemente, una nuova presa di coscienza.
Nei momenti di estrema emergenza che, a dispetto di un regno così breve, segnarono profondamente il biennio di Tito, il princeps non si tirò mai indietro circa i compiti cui ottemperare in qualità di maggior responsabile istituzionale dell'Impero.
L'epocale eruzione del Vesuvio (e la conseguente distruzione di Pompei, Stabia ed Ercolano), il grande incendio che spazzò per più giorni una buona parte di Roma e, infine, una epidemia di peste tra le più virulente misero a dura prova le capacità di Tito nel coordinare e dirigere i soccorsi necessari: “In tutte queste calamità così gravi -è scritto nelle “Vite dei Cesari”- egli mostrò non solo la sollecitudine di un imperatore, ma anche la tenerezza tipica di un padre, ora confortando il popolo con editti, ora procurando tutti i soccorsi che dipendevano da lui”.
In qualità di Pontefice Massimo, carica che aveva assunto spontaneamente al fine di mantenere una condotta morale pura e aliena dalle perfidie crudeli che avevano copiosamente caratterizzato, ad esempio, la dinastia giulio-claudia, “Tito giurava-sublima Svetonio- che preferiva morire, piuttosto che far morire qualcuno”.
Siamo alla vera apoteosi: l'uomo più potente del mondo si spogliava delle sue prerogative per cingere le vesti del misericordioso, di colui che rigetta ogni forma di violenza e, anzi, offre inerme la gola pur di non “commettere peccato”.
Sembrano davvero i primi refoli di quel vento chiamato Cristianesimo che si abbatterà portentoso sull'Impero, nei decenni a seguire.
Va detto tuttavia, a scanso di errate valutazioni e di troppo affrettate considerazioni di stampo etico-religioso, che i concetti di umanità, di fratellanza universale e di intangibilità della vita erano pilastri basilari di filosofie secolari quali lo Stoicismo, che già aveva permeato di sé importanti strati della popolazione, la classe élitaria in particolare.
Ad ogni buon conto, il destino riservò a un sovrano tanto meritevole una sorte beffarda, sottraendolo, in un brevissimo volgere di tempo, all'affetto generale nutrito nei suoi confronti.
Infatti, recatosi in Sabinia per una visita di routine, l'imperatore cominciò ad accusare deboli febbri che andarono velocemente aggravandosi, tanto da impedirgli un ritorno a Roma: la morte lo colse inesorabile ad Aquae Cutiliae, nella villa di campagna dove aveva riparato e nella quale non molto tempo prima era spirato anche Vespasiano; al padre, però, il fato aveva regalato una vita ben più lunga.
E così, poco più che quarantenne, l'“amor ac deliciae generis humani” terminava i suoi giorni: era il 13 Settembre 81 dell'era cristiana.
La mestizia e il dolore popolare furono genuini e spontanei; il Senato, da parte sua, non tergiversò un momento nel promulgare specifici editti attinenti alle iniziative di commemorazione del princeps defunto.
Per i senatori, d'altro canto, era conveniente (e salutare...) omaggiare il fratello scomparso di chi, da lì a pochi giorni, ne avrebbe preso il posto per diritto dinastico: Domiziano.
E, sfortunatamente per l'oligarchia romana, essa avrebbe avuto a che fare, per ben tre lustri, con un imperatore via via più ostile alla classe senatoria stessa: di tale attrito, non di rado dai sanguinosi risvolti, si fa testimone eccellente l'opera del maggiore tra gli storici latini, Cornelio Tacito, contemporaneo o quasi del meno geniale (e più canonico) Svetonio.
Il mistero sulla morte di Tito resterà probabilmente irrisolto: le fonti al riguardo non ci sono di molto aiuto, e la patologia che lo condusse alla morte è, ancor più a distanza di secoli, di difficile identificazione.
Una malattia infettiva? Una forma influenzale sottovalutata? Addirittura, una lenta ma efficace opera di avvelenamento messa in atto da sicari dell'ambizioso fratello minore, uno dei pochissimi che ne avrebbe forse auspicata la morte?
Tant'è, la dipartita del secondo Flavio colse tutti alla sprovvista.
Una ulteriore ombra di mistero getta, sulla funesta vicenda, una delle frasi estreme pronunciate dal moribondo, che si lamentò del fatto che la vita gli fosse tolta “nonostante la sua innocenza, dal momento che nessuno dei suoi atti gli lasciava rimorsi, ad eccezione di uno solo”.
Cosa aveva fatto Tito, così da provarne un senso di colpa fino agli ultimi dei suoi respiri? O non era, piuttosto, il rimpianto per una occasione perduta nella sua breve vita? Difficilmente avremo, un giorno, risposta a un tal quesito.
Una scomparsa, quella dell'astro-Tito, un astro tanto fulgido quanto effimero, che risulta veramente enigmatica.
La fama della bontà di Tito, vera mosca bianca nella perversa teoria di imperatori che sin lì lo avevano preceduto (Tiberio, Caligola, Nerone, Galba, Vitellio), ha attraversato i secoli e affascinato intensamente gli uomini: la sua pietas, la disponibilità anche nei confronti degli umili, l'uso che egli fece dello smisurato potere personale per migliorare le condizioni di vita dei cittadini dell'Impero mediante editti e interventi urbanistici, tutto concorre ad alimentarne il mito.
Lo stesso genio musicale di Wolfang Amedeus Mozart, diciassette secoli dopo la morte del grande Flavio, non seppe sottrarsi dall'esaltare, in un'opera teatrale del 1791 (l'ultima partorita dalla immensa creatività del salisburghese), la proverbiale clemenza di Tito.
Nella omonima opera, rappresentata in anteprima a Praga pochi mesi prima che morisse, Mozart magnificò una delle principali virtù di cui un sovrano illuminato deve dotarsi: quella di saper concedere il perdono.
In ciò si esercita la grandezza di chi detiene il potere assoluto: non nel poter imporre la morte a chicchessia, senza impedimento alcuno, quanto piuttosto nel dispensare la grazia e il proseguimento della vita a chiunque si veda già spacciato.
La clemenza di Tito” è un omaggio mozartiano al pio imperatore, la cui esistenza fu una fulminea cometa nel cielo di Roma, la signora del mondo.
Stendiamo un riassunto dell'opera e dei suoi due atti, tentando una semplificazione della trama, invero non poco contorta.
E' la storia, a lieto fine, di amori celati e sospirati, di amori respinti, di congiure ordite, perpetrate e poi fonte di rimorso, di legami fraterni e indissolubili e, soprattutto, è la storia di un uomo benevolo e mite, Tito Flavio.
A Roma, la bella Vitellia, amante del giovane Sesto, in cuor suo nutre passione per Tito imperatore: folle di gelosia perché questi ama, invece, la principessa barbara Berenice, ella chiede a Sesto di ordire una congiura contro il sovrano.
Ma Sesto, dinanzi alla inopinata richiesta della donna, se ne va titubante, legato com'è a Tito da affetto sincero.
L'intreccio si posa poi sul Campidoglio: qui, l'imperatore ignaro del complotto riceve proprio Sesto, che chiede la benedizione regale alle nozze tra sua sorella, la dolce Servilia, e l'amico Annio; sfortunatamente, Tito ha nel frattempo cambiato idea circa l'atteggiamento da seguire riguardo al proprio matrimonio.
Non ritiene, infatti, consono ai mores tradizionali impalmare una donna barbara, ma conviene invece ch'essa debba esser romana: chi, all'uopo, meglio proprio della giovane Servilia...?
L'ordito mozartiano prosegue complesso: Tito, constatando quanto profondo sia l'amore che lega ad Annio la fanciulla invano desiderata, ne accetta sereno il rifiuto e, abbandonando ogni proposito nuziale, concede il suo benestare all'unione dei due ragazzi.
In preda all'ira e alla gelosia che la pervade, Vitellia, ritenendo erroneamente che l'amore di Tito verso Servilia vada a buon fine, pone il povero Sesto dinanzi a un aut aut: o lei, o Tito, che Sesto scelga. L'uomo opta per la sua amante, e se ne va a compiere il misfatto.
La trama è ormai entrata nella sua parte più drammatica, e gli eventi si susseguono veloci: l'afflitta Vitellia, rimasta sola, viene raggiunta da Annio e Publio, il prefetto del Pretorio, i quali la avvertono della scelta definitiva, in materia di moglie, compiuta da Tito: è lei stessa, Vitellia...
La donna tenta invano di fermare Sesto, ma è troppo tardi: il giovane ha già incendiato il Campidoglio, e ritiene che nello stesso sia perito Tito, così come gli era stato richiesto; per buona sorte l'imperatore si è salvato, e Annio consiglia prudentemente a Sesto, macchiatosi del tentativo di regicidio, di chiedere fiducioso perdono al sovrano.
Nel frattempo, però, Publio arresta il colpevole, e lo trascina nella sala delle udienze: qui ha finalmente luogo l'incontro tra Tito e Sesto.
Il reo ha confessato la congiura al Senato, che lo ha senza indugio condannato a morte: l'uomo però si è astenuto, per amor di Vitellia, dal denunciare anche la vera cospiratrice del crimine.
Tito è combattuto nel profondo dell'animo: salvare oppure no la vita all'amico che ha attentato alla sua propria? Dapprima firma la convalida all'esecuzione, poi la straccia, quindi di nuovo ordina nascostamente a Publio di eseguire la sentenza. Nel frattempo, la reale responsabile, Vitellia, pentita del proprio ruolo delittuoso, è avvicinata da Servilia, che le chiede di intercedere, in qualità di futura imperatrice, per la salvezza del fratello, ormai destinato al patibolo.
Siamo, finalmente, all'epilogo dell'opera mozartiana: nell'anfiteatro, la folla invoca e loda Tito che, proprio allorquando sta per condannare Sesto, viene fermato dall'arrivo provvidenziale di Vitellia che, coram populo, svela tutta la verità. Tito, clemente e generoso, perdona tutti: “Sia noto a Roma ch'io son lo stesso, e ch'io tutto so, tutti assolvo e tutto oblìo”.
Il 79 dopo Cristo traccia la linea di demarcazione tra il primo, detestabile Tito e il secondo, amabilissimo; una data che segna il discrimine tra la vecchia versione, temuta e disprezzata, del figlio di Vespasiano, e la nuova, oggetto di spassionato affetto della plebe e di genuina riverenza delle classi agiate.
Abbiamo già parlato di metamorfosi, di cambiamento epocale dello spirito, dell'indole, del modo di proporsi agli altri da parte di Tito: un uomo impietoso, pregno di vizi e di efferata cattiveria, è attraversato da un fremito purificatore, al momento di salire al trono, fremito che lo monda dai peccati commessi in precedenza.
Tito è l'uomo redento, l'oscurità diventata luce per i popoli di tutto l'ecumene imperiale.
E la bontà dell'uomo, tanto profonda da parere innata, si scontra clamorosamente con la perversione e l'irascibilità mostrate nei primi anni di vita pubblica, al seguito del padre.
Tito, amore e delizia del genere umano, rappresenta davvero un miracolo fattosi persona.
L'impuro Domiziano macchiò, con le sue azioni scellerate, il nome aureo che la domus flavia si era costruito in virtù degli atti di Vespasiano e del maggiore dei figli; tuttavia, a dimostrazione che il trand imperiale fosse ormai volto al positivo nonostante il triste intermezzo domizianeo, nel 96 d.C. riprese con Nerva la serie di optimi principes quali Traiano, Adriano, Antonino, Marco Aurelio.
L'Impero, proprio grazie all'opera dei migliori dei Flavi, diede così inizio a quell'età felice in cui Roma, la sua potenza e il benessere dei suoi abitanti toccarono l'apogeo, in un clima di serena pax romana.
Di questa era, il breve ma intenso regno di Tito segna una tappa fondamentale e un deciso colpo di spugna sugli obbrobriosi decenni giulio-claudii.

Nell'immagine, l'Arco di Tito a Roma.


Riferimenti bibliografici

SVETONIO, “Vite dei Cesari”, Garzanti, Milano, 2008
FINSCHER L., “La clemenza di Tito”, Piper, Zurigo/Monaco, 1991
Documento inserito il: 23/02/2016
  • TAG: impero romano, imperatori flavii, svetonio, mozart, clemenza tito

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