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Il concetto di armonia musicale in Macrobio: una questione celeste

di Francesco Servetto


«[…] L’affermazione di Cicerone è dotta e perfetta in tutte le sue parti quando dichiara che il suono celeste è separato da “intervalli ineguali, eppure distinti da una razionale proporzione». Con questa frase Macrobio riassume la concezione e la genesi ciceroniana dell’armonia musicale, da lui riportata ed analizzata nei primi quattro capitoli del secondo libro dei Commentarii in Ciceronis Somnium Scipionis, opera dedicata al figlio Eustazio, nella quale si espone ed analizza la dottrina platonica dell’armonia delle sfere, legata al concetto di immortalità dell’anima e di anima del mondo, tema poi caro alla magia naturale del Rinascimento. Dopo aver esposto nel primo libro la teoria delle rivoluzioni della sfera stellata e delle sette sfere inferiori, ci si sofferma sulla sua applicazione in campo musicale, spiegando quei rapporti matematici che permetterebbero di individuare e catalogare i gradi armonici presenti nella musica vocale e strumentale, la fisica alla base dei suoni e l’inesorabile impercettibilità per l’orecchio umano dell’armonia celeste. Un tema, in seguito, anche shakespeariano.
L’autore afferma che il suono udibile è prodotto dalla spinta e dal moto delle sfere celesti, le quali realizzerebbero armonie temperate e proporzionate: l’orbita stellare superiore, girando a velocità maggiore rispetto alle altre, produrrebbe il suono più acuto, mentre quella lunare, la più bassa e la più lenta, emetterebbe il suono più grave. In natura, dunque, ci sarebbero un’alternanza di suoni acuti e gravi, i cui gradi superiori e inferiori si troverebbero alle estremità della volta celeste. Per quel che riguarda la Terra, sita sulla nona orbita, è considerata immobile al centro del sistema cosmico, in linea con l’astronomia tolemaica, mentre le altre otto, muovendosi, genererebbero solo sette suoni circoscritti dai loro intervalli, poiché due di esse, Mercurio e Venere, viaggerebbero alla stessa velocità. Coloro che riescono a riprodurre, tramite strumenti musicali o con la voce, questi intervalli ben temperati e proporzionati, da Macrobio definiti “dotti”, si ritaglierebbero la via per ricongiungersi al cosmo e alle sue leggi eterne ed uniformi.
Per mezzo di cosa le sfere produrrebbero, dunque, il suono? Per l’autore, la ragione va ricercata nell’aria, la quale, una volta colpita, genera un rumore, così come avviene nello scontro tra due corpi, con la differenza che la conformazione peculiare dell’aria consentirebbe la nascita di rumori particolari, sia gradevoli per l’orecchio, i suoni, sia fastidiosi, i rumori. Nel primo caso, ciò sarebbe possibile a causa di una legge numerica ben definita, le cui caratteristiche produrrebbero accordi armonicamente strutturati, di contro quando ciò non avviene si parla di rumore vero e proprio. Il concetto di armonia celeste per Macrobio è tuttavia legato alla convinzione che, in ciel, tutto si manifesti in seguito all’intervento divino, pensiero profondamente connesso al suo retroterra culturale e alle sue tendenze filosofiche, neo-platoniche e neo-pitagoriche. Ad ogni modo, la parte fisica del cosmo avrebbe il ruolo principale, ideale, nella struttura e nel manifestarsi delle umane sensazioni uditive, così come l’insondabile perfezione del creato sarebbe la dimostrazione pratica dell’esistenza delle leggi aritmetiche e dell’ordine senza i quali nulla sarebbe possibile.
Per conciliare la teoria, indimostrabile da un punto di vista esperienziale, tanto che nel prosieguo dell’opera egli affermerà senza dubbi che l’uomo non potrebbe udire la musica derivante dalle sfere celesti, così come si manifesta nel cosmo, Macrobio racconta un aneddoto della vita di Pitagora, il quale avrebbe casualmente intuito l’esistenza di precisi rapporti matematici, tra i diversi toni, imbattendosi in un’officina in cui era battuto del ferro incandescente, per mano di artigiani, i quali con i propri martelli producevano suoni che seguivano un determinato ordine, in un’alternanza di registri acuti e gravi, che richiamavano all’orecchio l’idea del temperamento armonico, con il presentarsi costante di un intervallo musicale uguale. Annotando i singoli colpi, in un primo momento, Pitagora collegò la genesi dei suoni alla forza con cui gli operai battevano il ferro, poi si rese conto che, scambiatisi tra di loro i martelli, gli intervalli musicali restavano identici e costanti: aveva intuito che ciò era dovuto ai martelli stessi, dal cui peso dipendeva la produzione del suono e dalla differenza di peso tra gli stessi, da cui dipendeva il rapporto armonico. Annotò, in termini matematici, le distanze tra i toni, riprodusse poi un sistema di pesi differenti, notando tuttavia come ciò non consentisse la riproduzione temperata udita nell’officina: solo a determinati valori potevano corrispondere determinati suoni. Si rivolse, dunque, agli strumenti a corda, applicandovi gli stessi pesi dei martelli sopracitati e poté concludere che veniva rispettata la giusta sequenza armonica riscontrata nell’officina, la quale risultava maggiormente gradevole, a causa della qualità timbrica propria dei materiali utilizzati, budella di pecora o nervi di buoi. Ciò lo portò a ragionare sulle numerose possibilità dei rapporti tra i suoni, associabili tra loro in accordi, salvo doverne limitare il numero a sei, di modo che generassero sensazione di consonanza nell’uditore: l’epitrito, l’emiolio, la doppia, la tripla, la quadrupla e l’epogdo.
Il primo individua il rapporto tra due numeri di cui il maggiore contiene interamente il minore e la sua terza parte, come avviene nel rapporto tra il quattro e il tre, ed esprime il salto di quarta, in termini moderni do-fa. Nell’emiolio, il numero maggiore contiene il minore più la sua metà, come tra il tre ed il due, e genera il rapporto di quinta, do-sol. La doppia esprima l’ottava (do-do2) ed è il rapporto tra un numero che contiene il doppio del minore, come tra quattro e due, la tripla vede il maggiore contenere tre volte il minore, produce l’accordo di ottava più quinta (do-do2-sol2), nella quadrupla il maggiore contiene quattro volte il minore, ad esempio quattro e uno, e l’accordo che ne deriva è detto di doppia ottava (do-do2-do3). L’epogdo definisce il rapporto tra un numero che contiene il minore più l’ottava parte di esso, come tra nove ed otto, e l’intervallo da esso scaturito è definito “tono”. Esiste inoltre l’intervallo detto “semitono”, non considerabile l’esatta metà di un tono, poiché, basandosi esso sul numero nove, non divisibile per due, matematicamente non può trattarsi di un numero intero.
Per semplificare il concetto, Macrobio afferma che la distanza tra tono e semitono è minima, numericamente individuabile come quella tra i numeri duecentoquarantatre e duecentocinquantasei: in un primo tempo, i pitagorici lo chiamarono diesis, poi tale definizione fu applicata all’intervallo inferiore al semitono, mentre Platone parla di limma. Da ciò, il computo degli accordi: quarta, quinta, ottava, ottava più quinta, doppia ottava e tono, che sarebbero riproducibili ed udibili per l’uomo, mentre l’armonia celeste del cosmo si dipanerebbe su una gamma quattro volte maggiore, raggiungendo quattro ottave più una quinta.
Macrobio prosegue poi l’indagine, tentando di rendere agevole la comprensione della teoria musicale, utilizzando il pensiero platonico spiegato nel Timeo, secondo il quale l’anima del mondo sarebbe formata dai rapporti numerici sopracitati, in concomitanza con l’azione del Demiurgo. Considerando, dunque, le dimensioni geometriche dei solidi, lunghezza, larghezza e profondità, si giunge alla parte minore da cui esse si sviluppano, il punto, la cui ineffabilità è un postulato geometrico, ma la cui forza risiede nel dar vita alle linee, le quali opportunamente combinate giungono a descrivere mono-dimensioni, le linee, bi-dimensioni quali le superfici delle figure piane, e tri-dimensioni, le citate grandezze proprie dei solidi. Così come il punto è definibile monade – il principio ripreso poi, in età moderna, da Dee e Leibniz – e poiché da esso sono definiti e generati i vari corpi, così dalla seconda provengono i numeri. Analizzando i punti relativi ai numeri pari, si consideri il due simile alla linea, data dall’estensione del punto e da due punti delimitata, il quattro il delimitare del corpo matematico definito da quattro punti, dunque esteso in lunghezza e larghezza e, infine il suo doppio, l’otto, dotato delle due citate dimensioni con in più la profondità.
Se, con i numeri pari, il concetto appare piuttosto semplice ed intuitivo, per quanto concerne i dispari la situazione risulta meno agevole: se il primo numero pari è il due, va considerato in questo caso di conseguenza il numero tre, che diverrà dunque il valore della linea. Triplicandolo, si otterrà il nove, il valore della figura risultante dalle due dimensioni di larghezza e lunghezza, e, triplicando nuovamente, si otterrà ventisette, l’analogo dispari dell’otto, anch’esso a definire le tre dimensioni dei corpi solidi. La monade, dunque, per produrre ciascun solido, si avvale di sei numeri, tre pari e tre dispari: Platone afferma, infatti, che all’atto di creare l’anima del mondo, la divinità si sarebbe avvalsa di quei numeri che dal pari e dal dispari concorrono a formare il cubo, figura perfetta tra i solidi.
Riportando le parole platoniche, «tolse la prima parte da questo caotico fermento, poi una parte doppia della prima; ne tolse quindi una terza della seconda ma tripla rispetto alla prima; una quarta parte, doppia della seconda; una quinta, tripla della terza, una sesta, ottupla della prima, e una settima, ventisette volte moltiplicata la prima. Dopo di ciò riempì gli intervalli che lasciavano tra essi i numeri doppi e tripli, inserendovi delle parti in modo che i singoli intervalli si trovassero legati da due medietà; questi legami generarono gli emioli, gli epitriti e gli epogdoi». L’anima del mondo, dunque formata da sei numeri, pari e dispari, con le relative proporzioni, si trova ad essere tale per garantire l’armonia del mondo. Essa è intessuta di musica, di suoni riscontrabili proprio nei rapporti definiti ottava, generato dal doppio di uno, cioè, due, emiolio o accordo di quinta, formato dal primo numero dispari (tre) con due, epitrito o di quarta, dato da quattro e tre, e doppia ottava, cioè quattro ed uno. Considerando il moto generato nell’universo dalla forza propulsiva dell’anima del mondo, si afferma che essa stessa è stata creata tramite numeri, che generano l’armonia musicale, quindi un insieme di suoni tra loro in consonanza.
Platone afferma, inoltre, che per riempire gli intervalli tra i suddetti numeri, la divinità si servì dei rapporti numerici proporzionali, gli emioli, gli epitriti, gli epogdoi ed i semitoni. L’universo platonico, dunque, è in movimento, a causa dell’impulso dell’anima del mondo, definito “soffio”, e, al suo interno, si configura come necessaria l’armonia musicale, insita nei numeri e nei rapporti proporzionali tra essi, utilizzati dalla divinità per creare il Tutto. Nella Repubblica, Platone asserisce che, su ogni sfera, si troverebbe una sirena, termine con cui in greco si indicava chi canta per la divinità, intendendo pertanto che il movimento di essa produce un canto rivolto agli dèi.
Esiodo, nella sua Teogonia, afferma che le nove Muse sono tali per derivazione dalle otto sfere, sette delle quali erranti e l’ottava posta sopra di esse. Urania, è il cielo; aggiunge inoltre che ve n’è una nona, più grande di tutte e data dalla loro unione, Calliope, la cui etimologia è «dotata di una voce bellissima». Di essa, afferma il poeta: «Calliope: è questa fra tutte egregia» e occupa nel testo un verso intero, mentre le restanti otto sono citate in due versi. Apollo è definito Μουσηγέτες, la guida di tutte le sfere, così come afferma anche Cicerone, «guida, sovrano e regolatore di tutti gli astri, mente e moderatore dell’universo».
Macrobio prosegue, quindi, nell’analisi sulle Muse, affermando che tutti sanno che persino gli Etruschi sono consci del legame tra esse ed il canto dell’universo, dal momento che le chiamano Camene/Canene, sostantivo etimologicamente in connessione con il verbo canere, cantare. Per lui, inoltre, il legame religione- musica è riscontrabile anche nella pratica di utilizzare musica durante i riti ed i sacrifici religiosi, provenendo essa dal cielo e ad esso tendenti le invocazioni umane. Così le strofe celebrano il moto diretto del cielo delle stelle fisse e le antistrofe il moto retrogrado dei corpi erranti. Anche la presenza di canti nelle cerimonie funebri, diffusi in parecchie culture antiche, sarebbe connessa all’idea del ritorno dell’anima al luogo di origine, il cielo appunto. La musica ingentilisce l’animo, permette all’uomo non civilizzato il contatto con la natura, emancipandolo dalle bassezze proprie della sua condizione, con un processo psicologico, che coinvolge qualsiasi carattere, anche il più rude. E, se esistono canti che stimolano il coraggio, creando una corazza emozionale che nasconde le paure, per esempio di una battaglia, di contro, alcuni hanno potere di generare una sensazione piacevole, strettamente connessa al più elevato sentimento, quello divino, poiché avendo chiunque la propria origine nel cielo, l’innato compito è tendere ad esso.
Macrobio afferma – inoltre - l’esistenza di canti curativi, legati, semanticamente, al verbo praecinere, il cui significato è, appunto, riconducibile alla pratica di curare gli infermi, attraverso incantesimi durante cerimonie magiche, in cui gli stessi non erano semplicemente pronunziati, ma effettivamente cantati, tanto da considerarsi inscindibili nelle due caratteristiche, magica e musicale. La musica ha, inoltre, il potere di incantare gli animali o comunque di tenerli a bada, come nel caso dei greggi guidati dalle litanie pastorali, e, tra gli stessi animali, ne troviamo alcuni particolarmente dotati, a livello di intonazione, come numerose specie di uccelli: l’anima del mondo provvede alla vita degli esseri e, derivando dalla musica, ogni vivente è, di conseguenza, dipendente dal potere musicale. A tal proposito sono degne di nota le parole di Plinio, il quale nel X libro della Naturalis Historia afferma la magnificenza del canto dell’usignolo, la cui capacità espressiva è propria della perfezione musicale.
Applicando la teoria al mondo fisico, Macrobio ragiona sugli studi fisico-geometrici di Archimede, il quale calcolò le distanze tra i vari pianeti, fino al cielo stellato, contraddicendo le stime platoniche, tanto che gli appartenenti alla corrente del filosofo ateniese (e lo stesso Macrobio) le respingono perché non tengono in considerazione gli intervalli doppi e tripli. Sul piano fisico essi affermano di conoscere queste distanze, modulate sulla teoria delle sfere celesti, stabilendo, ad esempio, che la distanza tra Terra e Sole è doppia, rispetto a quella Terra-Luna, tra Terra e Venere tripla rispetto a Terra e Sole, e così via sino ad arrivare alla stima tra Terra e Saturno ventisette volte maggiore rispetto a quella tra Terra e Giove. Tramite quest’artificio filosofico, l’autore afferma che l’espressione ciceroniana riguardo la separazione del suono celeste interuallis imparibus sed tamen pro rata parte ratione distinctis risulta corretta.
Il quarto capitolo si apre con un ragionamento sulle differenze tra suoni acuti e gravi, di cui già si è affermato che i primi risiedono nelle sfere più alte, la cui rotazione è più veloce, e i secondi in quelle più basse, più lente. Così come una corda tesa in maniera decisa produce un suono acuto, una corda meno tesa ne genera uno grave, anche l’aria è soggetta a questo tipo di dinamiche. Macrobio sostiene che nelle tibie, strumenti ricavati da ossa animali, piuttosto simili ai flauti moderni, i fori più vicini all’imboccatura producono suoni più acuti, perché sono parimenti più vicini alla forza propulsiva data dal fiato del suonatore e quelli più lontani ne producono di più gravi, analogamente a ciò che accade nel moto delle sfere, dove la Luna, la cui orbita è maggiormente distante dal cielo, risente degli stretti spazi in cui è confinata, e riceve per ultima e dunque con minore vigore la spinta propulsiva dell’anima del mondo. Per quel che riguarda la Terra, essendo considerata ultima delle sfere e fissa al centro dell’universo, il soffio che la permea è spesso e denso ed è proprio a causa di ciò che le viene impedito il movimento orbitale. La prima sfera, quella stellata, ha un moto da oriente a occidente, le altre sette da occidente ad oriente, e la nona, la Terra, è dunque ferma. I suoni da esse prodotte sono soltanto sette, pur essendo otto quelle in movimento: la spiegazione sta nella medesima velocità orbitale di Mercurio e di Venere, che, inevitabilmente, produrrebbero lo stesso suono. Salta immediatamente all’occhio il numero sette, considerato pregno di riferimenti, definito da Cicerone «il nodo di tutte le cose». Septenarius numerus arcana continet mysteria, dirà durante il Seicento barocco il gesuita Athanasius Kircher, a Roma, ammiratore di Macrobio, ed anche lui alfiere della dinamica celeste geostatica di Tolomeo.
A questo punto, Macrobio ritiene opportuno affrontare lo spinoso problema relativo alle hypate e alle nete, le corde poste all’estremità della lira. La prima è la più alta, dal punto di vista fisico, ma non tonale, è la più vicina al corpo del suonatore e produce il suono più grave, mentre la seconda, viceversa, è la più distante dal musico e la più acuta; con tali termini, si indicavano inoltre i suoni della scala eptatonica e dell’eptacordo. Il problema nasceva nella contraddizione portata avanti dalla tradizione, la quale considerava il suono più grave, l’hypate, collegato a Saturno e il più acuto, nete, alla Luna. In questo caso, la strategia dell’autore latino è piuttosto curiosa, a tratti sbrigativa, se non discutibile: per legittimare la portata delle affermazioni ciceroniane, sostiene che trattati di musica ne sono stati scritti innumerevoli e che chi si occupa di hypate e nete in siffatti termini si preoccupa maggiormente di apparire piuttosto che di insegnare. Una frase sibillina e un po’ oziosa.
Il commento prosegue, affermando poi che i tipi di armonia sono tre: enarmonico, diatonico e cromatico, e che quello degno di essere tenuto in considerazione, nello studio, è quello diatonico, poiché il primo sarebbe stato abbandonato col tempo, perché troppo complicato ed il terzo sarebbe da evitare, in quanto troppo fiacco. Anche in questo caso, l’autore dimostra di non avere grande dimestichezza con la autentica teoria musicale, poiché omette importanti spiegazioni, riguardo le caratteristiche delle tre armonie, costruite sul tetracordo, ma decisamente differenti l’una dall’altra, per la disposizione degli intervalli al loro interno. È necessario considerare l’estremo tecnicismo in cui necessariamente bisognerebbe addentrarsi, per fornire chiare spiegazioni al lettore, poiché, analizzando l’opera, in virtù delle conoscenze accumulatesi nei vari secoli, mano a mano che ci si avventura nel concetto della corrispondenza tra musica e pianeti si rischia di smontare gioco forza le affermazioni dei Commentarii, quando probabilmente i tentativi di spiegare tale corrispondenza sono una conseguenza dell’interessante intuizione, al momento ancora oscura, per noi che viviamo nel XXI secolo, del nesso musica-natura, considerata nella sua più alta manifestazione.
Continuando quindi nel commento, Macrobio considera come l’impercettibilità del suono cosmico sia dovuta all’imperfezione dell’orecchio umano – la precedente argomentazione ciceroniana – e per affermarlo porta l’esempio delle cateratte del Nilo, il cui frastuono non sarebbe comunque udibile dagli abitanti delle zone limitrofe, proprio perché troppo potente e, dunque, responsabile dell’assenza della capacità uditiva in quelle popolazioni. Scipione, invece, avrebbe avuto la possibilità di udire il suono cosmico, perché gli fu concesso di partecipare ai segreti celesti, normalmente preclusi al resto dell’umanità. Leggendo Macrobio, non ci si deve però aspettare un resoconto dettagliato e preciso della teoria musicale, in quanto le non poche contraddizioni interne all’opera potrebbero fare propendere per un certo scetticismo, quando non per un rifiuto vero e proprio. Inoltre, se valutata internamente ad un sistema cosmico geocentrico, come effettivamente è, la sua indagine perderebbe di credibilità, poiché, considerando le orbite dei pianeti e proponendo un’orbita solare intorno alla Terra, l’errore fisico apparirebbe generatore di un insieme di errori a catena, per non dire a cascata. Tuttavia, l’indagine mantiene comunque una freschezza e un fascino che vanno al di là delle inconfutabili scoperte dei secoli successivi, nel campo astronomico. In cosa consiste ciò?
Ritengo che la componente filosofico-psicologica sia la principale protagonista, la scintilla che incolla il lettore moderno al testo. Numerose sono le armonie, sparse nel mondo e nella storia delle civiltà, alcune semplici; si pensi ad esempio alla pentatonale di origine africana, da cui hanno tratto origine il blues ed il rock ‘n’roll; altre talmente complicate da colpire l’orecchio di chi non è nato e cresciuto in determinati ambienti, come la musica elettronica di Karlheinz Stockhausen, o come nel caso della musica indiana e delle sue numerose suddivisioni tonali, la cui complessità è avvertibile in qualsiasi brano tradizionale, che per noi occidentali è stata portata agli onori della cronaca dai Beatles negli anni ’60 del ‘900, in seguito al famoso viaggio in India. Oggi, chiunque possieda un accesso alla rete può farsi un’idea della quasi sfuggevolezza armonica di certi passaggi, per noi europei nati e cresciuti con un’idea ben precisa e strutturata del temperamento bachiano, ascoltando un brano qualsiasi di un artista del subcontinente indiano, come ad esempio il celebre Ravi Shankar.
Commentando l’opera ciceroniana, dunque, Macrobio si attiene alla concezione neo-platonica, collegando moti planetari e suono, in un tentativo di spiegarne realmente la genesi, attingendo ad un patrimonio - oramai perduto - in cui doveva trovarsi un numero imponente di opere, talvolta in contraddizione tra di loro. Autore di lingua latina, non sembra avere dubbi nel far risalire l’origine dell’indagine in campo musicale ai Greci, a in particolare Pitagora, genio matematico e proprio per questo conoscitore e studioso dei segreti della natura e, conseguentemente, della musica stessa. Appare in seguito degna di menzione l’osservazione, inconfutabile, sul potere della musica, capace di infondere coraggio negli animi dei soldati, ma anche di consolare o di celebrare degnamente riti religiosi e funebri. In essi, infatti, si tenta di stabilire una connessione col divino, fondamentale per società come quelle antiche, in cui inconcepibile era per i più la divisione tra sfera metafisica e fisica, tra parte spirituale e parte corporale. Se la matematica è il linguaggio che permette di conoscere il mondo, all’interno delle sue discipline si trovano altri sistemi atti alla codifica del tutto, si pensi ad esempio alla geometria, alla chimica, alla fisica o alla musica stessa, che risulta dunque essere il grimaldello che scardina il velo di incoscienza nel mondo sonoro, dandogli un ordine. Da cosa derivano i suoni, se non dalle manifestazioni della natura stessa? Se la perfezione è propria dell’essere perfetto, la divinità, ne consegue che la perfezione sonora, quindi quella che noi moderni chiameremmo “temperata”, deve essere un’emanazione della perfezione divina. Tralasciando posizioni favorevoli o meno all’esistenza di forme superiori, di dei o esseri soprannaturali, non utili ai fini dell’indagine, risulta più stimolante l’individuazione, nell’opera di Macrobio, del rapporto tra l’ordine cosmico e la successione armonica, che non disturba l’orecchio, anzi ne cattura l’attenzione e lo porta su lidi più o meno confortevoli, più o meno agitati, tuttavia riconoscibili e apprezzabili da chiunque.
A questo punto entra in gioco, a mio avviso, la componente cerebrale del manifestarsi sonoro: in un interessante testo del compianto neurologo Oliver Sacks, intitolato Musicophilia: Tales of Music and the Brain, è trattato più volte il tema dell’orecchio assoluto, proprio non solo dei musicisti, ma riscontrabile anche in chi non lo è, e degli effetti su determinate persone che avrebbero la capacità di vedere mentalmente associati colori ad ogni singola nota, fenomeno noto come sinestesia. Lo stesso Mozart era parte di quelle persone che hanno la capacità di percepire un’opera musicale nella tonalità in cui fu ideata dal compositore in maniera così profonda e definita, da essere turbati, se non persino infastiditi dalle differenze di trasposizione, che sovente avvengono nelle interpretazioni orchestrali o di singoli musicisti: per fare un esempio, se una sinfonia è stata concepita e pensata poniamo in si bemolle, la trasposizione in la, quindi con una differenza minima, di un semitono, ha, su questi soggetti, un effetto paragonabile a quello che potrebbe avere chiunque nel vedere un film prodotto nella propria lingua madre, doppiato in un altro idioma, o un quadro strutturato su tonalità di base blu, riproposto in tonalità viola.
Esiste un qualcosa di non ancora definito, che unisce la percezione sonora e gli stati d’animo, al momento spiegabile in termini incompleti e non del tutto appropriati, risalendo alle origini stesse dell’umanità, quando i nostri antenati erano prede e non predatori, quando dovevano avvertire, in tempo, utile ogni minima variazione sonora, per mettersi in salvo. Oggi per noi tutto ciò appare così lontano, da non consentire spesso un’analisi obiettiva, ma non siamo forse noi soggetti a pericoli percepibili ed evitabili ancora adesso, quali l’avvicinarsi di un mezzo a motore, ad esempio durante l’attraversamento delle strisce pedonali o il crollo di una parete rocciosa?
Se guardiamo al senso delle parole di Macrobio, tralasciando le conoscenze astronomiche incomplete, seppure per certi versi ben più progredite di quelle dei secoli a lui seguenti, non si può evitare di apprezzarne il tentativo di fornire un sistema che spieghi eventi inconfutabili, le cui capacità di convinzione e di stimolo raggiungono vari gradi sulla psiche umana e animale. L’analogia tra corde percosse ed aria colpita dall’immane processo di rotazione dei pianeti, a mio avviso, non vanno liquidate con pressapochismo, poiché lo sforzo dell’uomo antico di spiegare gli eventi intorno a sé è ben più meritevole di attenzione, spesso perché rallentato e messo in difficoltà dall’imprecisione o dalla vera e propria inesistenza al tempo di strumenti di misurazione; si pensi ad esempio alla singolare considerazione sui rapporti tra le varie distanze planetarie, oggi facilmente confutabili, oppure ancora all’individuazione di un’inesistente orbita solare intorno alla Terra.


Bibliografia

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M. SCHNEIDER, Il significato della musica, Milano, Rusconi, 1988.
Documento inserito il: 28/06/2024
  • TAG: armonia celeste, musica, suoni planetari, peculiarità armoniche, spiritualità tardo-antica

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