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Emozionanti diversità [ di Monica Furlani Umer ]

Relazione al Senato della Serenissima Repubblica di messer Ambrogio Contarini, mercante e ambasciatore.

Il 23 Febbraio 1474, mercoledì delle Ceneri, Ambrogio Contarini parte da Venezia.
Il Consiglio dei Pregadi lo aveva nominato, poco prima, ambasciatore presso Usun Hasan, re di Persia. Gli era stato dato l’incarico di sollecitarne l’alleanza nella guerra contro gli Ottomani, con la conferma e la garanzia dell’aiuto delle armi veneziane. Hasan è un personaggio imparentato con i Comneni, la famiglia imperiale di Trebisonda spodestata nel 1461 dal sultano turco Maometto II, e attraverso loro con le principali famiglie patrizie di Venezia.
Secondo l’uso diplomatico del tempo, Contarini riceve anche un secondo incarico. Se il sovrano persiano avesse stipulato la pace con Maometto II, bisognava ottenere la restituzione delle fortezze di Negroponte e Argo o, ultima possibilità, sottoscrivere la pace tra l’Impero Ottomano e la Repubblica di Venezia.
Alla partenza di Contarini, la Serenissima, città aperta come poche altre al divertimento, ha visto la conclusione del Carnevale e di tutte quelle funzioni religiose istituite contro questa festa.
Organizzate in opposizione ai bagordi delle maschere, le funzioni, con gli interventi di numerosi parroci, del nunzio e del patriarca che innalzavano nelle chiese particolari preghiere a Dio, riportavano in città quell’ordine che configurava l’ immagine di città pragmatica legata a quella stretta relazione tra politica e mercatura, che ha segnato la storia del patriziato veneziano. Forse quel 23 Febbraio era freddo e grigio. La nebbia, sospinta dalla laguna, si infila silenziosa tra i grossi panni «alla todesca» che Contarini e la sua compagnia indossano al momento della partenza. L’itinerario da affrontare è quello del Brennero, percorso dai mercanti tedeschi che arrivano a Venezia. Si è deciso che il nuovo ambasciatore, diretto nei territori di Persia, avrebbe dovuto attraversare la Germania, la Polonia, l’Ucraina e il Caucaso.
Le relazioni della Repubblica con l’impero Ottomano sono da sempre molto complesse. Venezia invoca l’aiuto crociato, ma non tarda a far pace con i Turchi ogni qualvolta questo conviene ai suoi interessi.
La sua politica consiste nel mantenere il controllo marittimo, difendere le città sul mare e acquisirne altre quando se ne presenta l’occasione, controbattendo con scorrerie navali alle aggressioni turche.
L’albanese Scanderbeg il più fido alleato di Venezia contro i Turchi è morto nel 1468, dopo aver tenuto testa, sulle sue montagne, alla furia ottomana. Alla sua morte, affida il paese e la sua causa a Venezia, alleata fedele e valorosa, che riesce a difendere poche città albanesi e contemporaneamente vede gli eserciti ottomani che ne occupano altre a poche miglia di mare dall’Italia.
Maometto II, nel 1470, scese in campo personalmente contro i veneziani e attacca, con una flotta molto numerosa e appena costruita, la principale base della Serenissima nell’Egeo settentrionale, Negroponte.
Si tratta di una campagna militare che segna per molti aspetti una svolta nella storia marittima di Venezia. Sebbene «l’Oriente fastoso» non sia più in sua balia, come è stato dal 1204 in poi, essa non rinuncia alla lotta. Vengono inviate molte ambascerie in Persia e verso altri vicini orientali degli Ottomani. Già nel 1463 la Repubblica ha trovato un alleato in Usun Hasan, sovrano turcomanno della Persia e nemico tradizionale del Sultano. Dieci anni di scambi di ambasciatori non producono però alcun cambiamento. Il fallimento della pace tra la Serenissima e Maometto II da infine un nuovo significato all’alleanza persiana nella conduzione della guerra che avrebbe dovuto essere combattuta su due fronti: Venezia doveva colpire sul mare e Hasan per via di terra. Il 1473 vede però, la sconfitta del sovrano turcomanno che sollecita l’aiuto dei suoi alleati, Napoli, il papa, Venezia e il duca di Borgogna.
Venezia nella lotta contro i Turchi non è sola. Più volte i pontefici avevano rinnovato gli appelli per una crociata contro gli Ottomani mentre imponevano speciali tributi a favore dei crociati.
Tributi che i governanti utilizzano per i loro scopi, tranne nei paesi come l’Albania, la Polonia, la Transilvania che ne sono direttamente minacciati.
L’ambasciatore, che al momento si trova alla corte persiana, Caterino Zeno è rimandato a Venezia alla ricerca di aiuti. Il Consiglio dei Dieci aveva precedentemente inviato, nello stesso 1473, Giosafat Barbaro con un carico di armi, ma questi resta bloccato per un anno a Cipro a seguito della conquista turca delle coste anatoliche. Sempre su ordine dei Dieci, in febbraio, parte anche Bartolomeo Leopardi.
A seguire, questa volta dopo un ordine del Senato, viene decisa anche la partenza di Ambrogio Contarini, uno dei numerosi rampolli della famosa famiglia patrizia. Nato nel 1429, esercita la mercatura, vive a lungo a Costantinopoli e nel 1470 è inviato al comando di una galera nella guerra tra Venezia e i Turchi. Lo stretto legame della Repubblica tra politica e mercatura aveva da sempre favorito il sorgere e il tramontare di grandissime ricchezze tra il patriziato e fin dall’adolescenza, i nobili praticano il commercio con l’estero. Un’attività intesa come occupazione esclusiva della propria dimensione sociale. Per i membri della propria classe si creano incarichi nella marina mercantile e li si congiunge a innumerevoli altri benefici, in grado di facilitare il loro arricchimento grazie al commercio internazionale.
Il rientro di Contarini dalla missione a Venezia, è datato 1477, anno anche della compilazione della relazione dell’ambasceria al Senato. Il rendiconto, per l’autore, è un impegno gravoso, ma è un compito sacro imposto dalla Repubblica per il suo bene e fondamentale per la salvezza di tutta la Cristianità.
Si tratta di una scrittura in cui traspaiono emozioni contrastanti: paura, stupore e angoscia di fronte ai pericoli affrontati con i tartari; pacata tranquillità per la lodevole accoglienza alla corte dell’alleato persiano, malcelato fastidio provato nei territori caucasici. Su tutto, emerge l’evidente buona considerazione che Contarini possiede di sé stesso.
La relazione informa di quanto gradevole e rassicurante sia il territorio tedesco da dove inizia il suo viaggio: città fortificate, mura possenti, case, palazzi e castelli. Niente come cavalcare in territorio cristiano e alloggiare «in bonissime ville», può rivelarsi rinvigorente. Anche nel regno di Casimiro IV Jagellone, re di Polonia «usano mangiar quasi a modo nostro, benissimo apparecchiando e abbondantemente». Quando però e purtroppo ben presto, case e palazzi, tutti fabbricati di legno svaniscono all’orizzonte e inizia il viaggio attraverso boschi percepiti come molto pericolosi, l’animo del nostro diventa cupo, preoccupato e infastidito.
Come si modifica il territorio e a quali stravaganti diversità va incontro il patrizio veneziano? Che cosa incontra di piacevole lungo tutta la sua spedizione e a quali pericoli invece va incontro? Di certo, per l’inviato di Venezia, il contatto con le popolazioni tartare risulta essere particolarmente sgradevole:
«Ebbi piacere d’essermi separato da quei maladetti cani, che puzzavano di carne di cavallo in modo che non si poteva star appresso loro».
L’atteggiamento mentale di Contarini ci indica il suo stato d’animo e la percezione negativa dell’altro diverso da sé, con cui molto spesso i viaggiatori si pongono davanti a strutture fisiche non conformi alla propria cultura, come all’abbigliamento, alle acconciature e alle condizioni di pulizia dei popoli con cui vengono in contatto.
«La mattina vennero tre Tartari, con visacci che parevano tavolazzi, e fecermi andare alla lor presenza», esordisce l’ambasciatore veneziano, che immaginiamo prendere nota della cosa con palese spavento, visto che tra i tartari e i veneziani non correva buon sangue. Durante il viaggio di ritorno sul territorio tartaro, sarà costretto a camuffarsi da medico genovese evitando così, grazie all’aiuto dell’ambasciatore russo, di essere venduto come schiavo. Già duecento anni prima, Guglielmo di Rubruck ha riferito che i Tartari non erano proprio rassicuranti. Grandi sudicioni, non lavano mai i vestiti nel timore di irritare i loro dei che non tollerano i panni stesi ad asciugare, ma non lavano neppure le scodelle usate per il cibo. Insomma, niente igiene personale né tantomeno un briciolo di decenza nelle faccende più intime di una persona.
Ma sicuramente a ribellarsi in queste circostanze così difficili, è lo stomaco del Contarini. E’ indubbio, che le sue disavventure alimentari, non avvengono solo al cospetto del desco dei tartari, perché anche il cibo dei cristiani della Georgia lascia, a dir poco, a desiderare.
Disprezzo, rifiuto (tranne in casi estremi dettati da vera e propria fame) e disgusto, si alternano nell’animo e nella pancia di Contarini di fronte alle vettovaglie di queste popolazioni: «la loro vita è sempre di carne e di latte, né niun altro alimento hanno, né sanno che cosa sia pane, salvo qualche mercante che sia stato in Rossia». I tartari «vanno camminando, cercando erbe fresche e l’acque, né mai stanno fermi, né d’altro vivono che di latte, come s’è detto, e di carne; hanno manzi e vacche, le più belle credo che siano al mondo, e similmente castroni e pecore, e sono carni molto saporite, per rispetto delli buoni pascoli ch’hanno: ma fanno grande stima del latte di cavalla». E proprio latte, il Veneziano è costretto a bere: «fecero anche portar del latte di cavalla, del quale ne fanno grande stima, e voleano ch’io ne bevesse, perché dicono che genera gran forza all’uomo: ma perché egli aveva una maladetta puzza non ne volsi bere, e l’ebbero quasi a male».
Il povero Contarini appartiene alla civiltà del vino e il vino fatto male o altre bevande offertigli in giro per il mondo, gli appaiono come intrugli disgustosi.
Reputato insieme al pane, alimento sacro per eccellenza, immagine e strumento del miracolo eucaristico, il vino ha una forte e intensa carica simbolica, attribuitagli fin dal IV-V secolo da eminenti figure quali Agostino e Ambrogio. Una bevanda che ha potuto così rappresentare quella contrapposizione che domina per secoli tra l’Europa che si considera civile e in contrapposizione a tutte quelle culture dove invece il vino non viene prodotto, inducendo a percepirle come selvagge, estranee, inferiori.
Per i viaggiatori stessi, la mancanza di vino rappresenta veramente un grave disagio: trovarlo in territorio straniero significa molto spesso dover sborsare cifre astronomiche o peggio ancora, constatarne l’assenza e dover bere cosmo che pizzica la lingua, lascia in bocca sapore di latte di mandorla e soprattutto fa ubriacare. Mercanti e pellegrini annusano con sospetto bevande come il latte di vacca fatto seccare al sole e consumato liofilizzato e sciolto in acqua calda. Proseguendo il cammino, non si beve bene neanche in territorio russo.
Il debito contratto con l’ambasciatore di Ivan III, che lo salva dall’esser venduto come schiavo dai tartari, impone a Contarini una fermata sul gelido territorio russo un bel po’ di tempo in più di quello previsto. L’attesa del denaro che doveva partire da Venezia e che gli avrebbe restituito la libertà, lo costringe a vivere con «uomini assai belli e similmente le donne, ma è bestial gente». La caratterizzazione dei russi è molto forte perché «sono grandissimi ubriachi, e di questo se ne danno grandissima laude e dispregiano quelli che nol fanno. Non hanno vino di sorte alcuna, ma usano la bevanda del mele, la quale fanno con le foglie di bruscandolo, che certo non è cattiva bevanda, e massimamente quando è vecchia: ma il signore non lassa che ognuno sia in libertà di farne, perché se avessero tal libertà ogni giorno sariano ubriachi e si amazzeriano come bestie».
Russi e tartari ritualizzano l’uso delle bevande. I brindisi collettivi rappresentano un aspetto fondamentale della socialità e le conseguenze molto spesso potevano rivelarsi disastrose per quegli stranieri che non vi si potevano sottrarre. Si rischia talvolta di arrecare gravi affronti all’ospite, offendendo quei codici simbolici che nelle consuetudini identificano le altre culture. Nel caso di Contarini, infatti, si rischia l’incidente diplomatico.
Ma nonostante tutto, Ivan III di Russia grazia l’ambasciatore veneziano sia del denaro del riscatto e gli concede la partenza, sia dal dover bere fino in fondo la coppa di birra all’ultimo banchetto: «mi fu poi presentata una tazza grande d’argento piena di quella lor bevanda di mele, dicendomi che ’l signore comandava ch’io la bevessi tutta, e mi donava la tazza: questo usano quando vogliono far grandissimo onore o a ambasciadori o ad altri. Ma mi parve gran cosa a bever tanto, perché certo era assai: pur credo che io ne bevessi un quarto d’essa; e perché sua signoria si accorse che io non poteva più bere, e perché anco per lo passato sapeva il mio costume, mi fece tor la tazza, e fu vota e datami vota».
Non sempre però, si riesce a trovare una scusa per evitare la bevuta di rito. Come ricorda Gonzáles de Clavijo, quasi cent’anni prima, alla corte di Tamerlano, ogni ospite ha il proprio coppiere che ha l’incarico di mantenere il boccale sempre pieno. Più beve, più l’uomo è considerato forte. E’ grande educazione rotolarsi a terra completamente ubriachi. L’abbandono ai mirabolanti effetti dell’alcol indica grande piacere e allegria oltre alla ricchezza e generosità dell’ospite.
Purtroppo, il patrizio veneziano sembra non solo prediligere il buon vino, ma anche essere uomo di morigerati ed educati costumi.
Cibo, abiti, clima, abitazioni e paesaggi. E presto detto che Contarini incrocia molte inquietanti diversità sulla faticosa strada della sua ambasciata.
Le differenze di culto mettono in imbarazzo il mercante-ambasciatore, senza però mai sfociare in comportamenti intolleranti. Spesso sembrano quasi più considerazioni “estetiche” legate al contesto negativo in cui incappa durante il viaggio. Venezia, infatti, educa i propri cittadini in maniera molto liberale in cose di religione, rispetto ad altre comunità cittadine.
Il patrizio sopporta, in concreto, con malcelato disagio gli incontri con le popolazioni dei regni cristiani di Mengrelia e Georgiana. Gli appaiono bizzarre e perfide grazie anche ad un’accoglienza decisamente vicina al taglieggiamento. Sono cristiani ma con pessime abitudini. Siedono a terra, mangiano, su pezze di cuoio unte, pane scadente e carne cucinata male; discutono di politica alla presenza di mogli e figli; bevono alcol a fiumi e, come se non bastasse, tutti dalla stessa tazza, senza lavarla.
E’ molto probabile che la cucina non fosse proprio ottima, ma è altrettanto, vero il turbamento emotivo di Ambrogio che deve confrontarsi con diverse usanze, ossia «secondo i loro usi»: utilizzano strani intingoli e tutto di loro è sporco. Sono anche ladri: per pagare guide e cibo il nostro ambasciatore si ritrova derubato di parecchi ducati.
Non vede l’ora di sbarazzarsi di questa gente ed evita perfino l’ingresso in quella chiesa dove si trovava una Madonna che la tradizione riferisce essere gfautrice di molti miracoli. Meglio andare via presto e lasciarsi alle spalle quella terra, popolata sì da cristiani, ma all’apparenza piuttosto bestiali.
Lo stesso cristianesimo dei Russi è molto inquietante, «hanno un papa fatto per il lor signor al loro modo, e del nostro fanno poca stima e dicono che noi siamo perduti del tutto».
Una volta sopraggiunto l’inverno, anche il territorio russo mostra avere una personalità molto forte. Di Contarini non sorprende la curiosità, l’ammirazione ma soprattutto la preoccupazione: «Alla fin d’ottobre la fiumana che passa per mezo la terra tutta si agghiaccia, sopra la qual fanno le lor botteghe d’ogni sorte cosa. E lì fanno tutti li lor bazarri e nella terra non si vende più quasi cosa alcuna……Sopra la detta fiumara agghiacciata corrono li cavalli e fanno molt’altre cose di piacere, e qualche volta anco alcuni d’essi si scavezano il collo».
E finalmente, nel sospirato giorno della partenza, Contarini scrive: «La sera alloggiammo tutti in un casale molto strano, e ancor ch’io conoscessi che conveniva patir di molti altri discommodi e disagi, per gran freddi e ghiacci ch’erano in quelli paesi, e per aver a camminar di continovo per boschi, mi pareva però ogni discomodo commodo né temevo di cosa alcuna, tanto era il gran desiderio d’uscire di quei paesi e costumi:onde io non pensavo ad altro che camminar giorno e notte».
Le opinioni dell’ambasciatore di Venezia, rivelatosi osservatore attento e perspicace come ogni buon mercante, si modificano positivamente una volta giunto in quella terra di “infedeli” dove deve aver luogo la sua missione diplomatica: il regno di Usun Hasan.
Per giungervi, dopo aver finalmente abbandonato i pessimi georgiani, Contarini, a cavallo con tutto il suo seguito, attraversa il piacevole paesaggio armeno, dominato dalla cima imbiancata del monte Ararat. Qui si trova a suo agio. Si nutre di pane, di galline e può assaporare un buon vino. Intorno il territorio è caratterizzato dalla presenza delle fattorie degli armeni. Per il patrizio, si tratta di un incontro rassicurante, è tra i propri simili: sono cattolici, hanno il loro vescovo e riconoscono l’autorità del pontefice di Roma.
Tuttavia, ci informa Contarini, non proprio tutti gli armeni sono onesti. La guida che ha portato da Caffa risulta essere un gran ribaldo e a sentire le voci degli abitanti del luogo, ha avuto grande fortuna ad uscirne bene. Contarini non tarda a riprendersi il cavallo che gli ha dato e lo manda via, prendendo come guida un prete armeno.
Prima tappa verso l’alleato turcomanno è Tabriz. In città li accoglie un grande trambusto tanto da rendere difficile trovare un posto al caravanserraglio. L’accoglienza stessa, in un primo momento, non è certo molto cordiale. Le voci dei Turchi fanno temere il peggio: «Questi sono di quelli cani che vengono a metter scisma nella fede macomettana; noi doveremo tagliarli a pezzi». A questo si aggiunge che il povero Contarini non riceve buone notizie: uno dei figli di Usun Hasan ha dichiarato guerra al padre e si è impadronito di alcuni territori. Che altro, quindi, resta da fare al re se non mettere in campo l’esercito per ricondurre alla ragione il figlio?
La situazione non è buona e rassicurante. Il veneziano è costretto a stare nascosto, può solo inviare all’esterno un funzionario addetto alle sue esigenze per comperare da mangiare. Ma i guai non sono finiti qui, perché un altro figlio di Usun, Masubei, non solo non presta ascolto all’ambasciata di Contarini, ma taglieggia i mercanti a Tabriz per poter mettere in piedi a sua volta un esercito. Per impedire di esser derubati, i mercanti chiudono tutte le botteghe, caravanserraglio compreso. Questo avvenimento impone il ricovero del veneziano e del suo seguito in una chiesa armena e gli viene impedito di uscire per evitare guai e pericoli peggiori. Mentre si susseguono le invocazioni al «nostro Signor Dio» affinché li protegga», nel settembre 1474 arriva Bartolomeo Leopardi, inviato da Venezia dal Consiglio dei Dieci.
Ambrogio poco può raccontare di Tabriz. E’ piuttosto grande, dice, ma non ha molta popolazione. Vi si trovano molti bazar e un grande movimento di merci, tra le quali l’ambra e la seta. E’ luogo di transito per le carovane in direzione di Aleppo.
Saputo del rientro dell’ambasciatore del re di Persia dalla corte ottomana, Contarini si mette in contatto con quest’ultimo, pregando di poterlo seguire, e raggiungere così insieme Usun Hasan. Iniziano così il viaggio insieme e arrivano dapprima a Sultaniyya. Attraversan un territorio secco e arido, pianeggiante, con poche colline, privo di vegetazione. La presenza di piccole fattorie permette di comperare il necessario per alimentarsi. La città ha un grande castello e una bellissima moschea con tre porte in bronzo più alte di quelle di San Marco a Venezia, tutta decorata d’argento. Bellissima e sicuramente costruita a caro prezzo, aggiunge nella relazione l’ambasciatore.
Tutt’intorno le montagne non sono molto alte; gli inverni sono rigidi, e rendono difficile la vita. Il viaggio prosegue, ma ai primi di ottobre Contarini viene colpito da febbri violentissime che lo portano al delirio. Una volta giunti a Qum anche il suo seguito si ammala. Per questo motivo sono costretti a fare una tappa piuttosto lunga, fino al 23 di ottobre. Per fortuna, la cittadina è provvista di ogni ben di Dio: circondata da mura fatte di fango, è luogo sicuro dove poter trascorrere la convalescenza.
Rimessosi a cavallo con grande fatica, alla fine dello stesso mese, Ambrogio giunge a Isfahan dove può finalmente incontrare Usun Hasan. Prima però, saputo che sul luogo si trova anche Giosafat Barbaro, Contarini va a trovarlo.
Entrambi i veneziani provano un certo sollievo nell’abbraccio di quell’incontro. Chissà quali informazioni e notizie si scambiano, oltre a quelle diplomatiche riportate. Fu però, senza alcun dubbio, un’incontro tra persone che sentono nostalgia della loro terra, dei propri simili, abituati a respirare la stessa aria e a condividere la vita della mercatura, della politica e delle esperienze di viaggio. Entrambi hanno vissuto a lungo in terra straniera. Forse si tratta del bisogno di specchiarsi, magari, per un breve istante, in una stessa immagine rassicurante.
Ma è tempo che entri in scena il gioco diplomatico. Il giorno seguente Usun Hasan manda i suoi schiavi con presenti e vettovaglie per l’ambasciatore dello stato alleato. Il 3 novembre 1474 Ambrogio Contarini e Giosafat Barbaro sono convocati alla presenza del sovrano e di otto tra i suoi baroni per presentare la lettera di credenziali ed esporre a nome della Serenissima, l’ ambasciata. Se durante il viaggio di andata attraverso i territori caucasici, il povero ambasciatore deve spesso mangiare seduto a terra, su stoffe o pezze di cuoio sporche e unte, ora si trova alla corte di un vero sovrano. Contarini può finalmente svolgere il suo incarico politico all’interno di un ruolo importante, in relazione con un gruppo di persone che detengono potere e fama visibili. Seduto su tappeti che immaginiamo preziosi, gusta gli abbondanti e saporiti cibi che il sovrano turcomanno ha fatto preparare per l’occasione.
L’amnasciatore racconta molto di Isfahan. Il suo territorio è piacevolmente pianeggiante, la terra è buona e in grado di soddisfare ogni necessità. Isfahan è una città conquistata. Non si era arresa ed era stata distrutta, ricostruita e dotata di mura difensive. Da Tabriz a Isfahan si contano ventiquattro giorni di viaggio. L’agricoltura è favorita grazie ad importanti lavori di irrigazione. La frutta prodotta è la più buona che il veneziano ha mai assaggiato. I prodotti venduti nei vari bazar, quali il vino, la legna, la carne e le galline sono molto costosi. Solo il pane può essere comperato ad un prezzo conveniente. Inoltre «Li Persiani sono uomini molto costumati e gentili nelle cose loro; mostrano d’amar li cristiani:nella detta Persia a noi non fu mai fatto oltraggio alcuno. Le loro donne vanno vestite assai onorevolmente, sì nel vestire come nel cavalcare, sono meglio che gli uomini:mostrano d’esser belle donne, perché gli uomini sono belli e ben fatti; tengono la fede maomettana».
Contarini, ora al seguito di Usun Hasan ritorna a Qum, e alloggia, durante il tragitto, sotto accoglienti padiglioni e qui trascorre l’inverno. Mangiano spesso con il sovrano e si accompagnano con conversazioni e convenevoli atti a conoscere la storia di Venezia.
La sua corte è «molto onorevole», vi sono presenti ogni giorno più di 400 persone che lì mangiano seduti a terra, riso o vivande di frumento condite con carne. Bevono a pasto molto vino. Si canta e si fa musica. Il sovrano è persona gioviale ed allegra, alto, magro, dimostra un’età maggiore di quella che effettivamente ha. Tranne nei momenti di maggiore ebbrezza quando “passava il segno”, era persona di piacevole compagnia».
Nei padiglioni, si discute molto sul compito politico e militare di Hasan quale alleato di Venezia. In primavera, poi, la corte rientra a Tabriz. Territorio di popolazioni nomadiche o seminomadiche, Contarini non sembra manifestare qui nessun particolare sconcerto o disgusto, come aveva fatto con i tartari. Questi ultimi, molto sgradevoli, sporchi e violenti, si discostano molto dai persiani che invece, non gli sollevano alcuna inquietudine. Va ricordato come ad un viaggiatore che porta comunque in sé il concetto di sedentarietà, l’immagine di popolazioni prive di legami fissi e stabili sul territorio, molto spesso veniva recepito come un prepotente elemento di destabilizzazione.
Con i persiani sembra quasi trovarsi a suo agio in questo andirivieni: «Il costume del suo cammino è che un giorno avanti mandi a mettere il suo padiglione dove egli vuole alloggiare, poi la notte il lordo si leva, e tutti vanno dove egli è posto; e dove è qualche buona erba e acqua, vi sta fin che l’erba vien consumata e poi si parte, così seguitando di continovo». E inoltre: «Li padiglioni del signore veramente erano belli quanto dir si possa:dove egli dorme è a modo d’una camera coperta di feltro rosso, con porte che basteriano ad ogni buona camera».
Buon vino, cibo gustoso e arredamento confortevole……Ambrogio Contarini sembra apprezzare le cose che rendono migliore la vita.
Usun Hasan conferma rispetto e considerazione verso i propri ospiti: «Noi con li nostri padiglioni, cioè uno per uno, seguitavamo sua signoria: e molte volte ne facea chiamar a mangiar seco, usando li sopradetti modi, ma spesse volte ci visitava di qualche presente, cioè delle loro vivande, mostrando certo grande amorevolezza, né per niun, né de’ suoi né d’altri, ne fu fatto mai torto alcuno». L’impegno di Contarini prosegue nell’incontro con l’ambasciatore di Carlo il Temerario, Ludovico da Bologna e con Marco “rosso”, ambasciatore di Ivan III.
Ai primi di giugno, finalmente, il sovrano persiano conferma di mettere a disposizione tutte le sue truppe per la guerra contro i Turchi. A fine mese però, fa richiamare gli ambasciatori e comunica che: «Voi anderete dalli vostri signori e dalli signori cristiani, e direte loro come io ero in punto per andar contra l’Ottoman, ma, avendo poi inteso che egli è in Costantinopoli e che non è per uscir quest’anno fuori, però non mi par cosa conveniente che io vada in persona contra le sue genti, ma mando parte delle mie contra quel disubbidiente di mio figliolo e parte alli danni dell’Ottoman. E io sono venuto in questo luogo per essere in punto a tempo nuovo contra il detto Ottoman:e così averete a dire alli vostri signori e alli signori cristiani».
La guerra contro i Turchi con la sua alleanza sembra comunque poter proseguire.
Invece, dopo la sconfitta del 1473 e nonostante le numerose ambascerie occidentali, Usun Hasan non attacca più gli Ottomani, seppur la sua forza militare sia notevole. Gli ambasciatori degli alleati europei e lo stesso Contarini non sono stati in grado di valutarle correttamente. Vengono riportate le cifre di cinquantamila cavalli, e non tutti ben armati, e quarantamila soldati. In realtà, il sovrano può mettere in campo centomila soldati ben armati ed addestrati.
Il tempo del rientro a casa è arrivato ed è il benvenuto. Tra gennaio e febbraio 1477, percorrendo boschi e pianure ghiacciate, il Veneziano giunge davanti alla maestà del re di Polonia. Gli viene concessa una veste di damaschino foderata di «zebellini», un seguito di quattro baroni su splendidi cavalli e l’udienza davanti al sovrano senza dover stare in ginocchio.
Il viaggio gli viene esposto in tutta la sua importanza, senza trascurare le peripezie causate dalla prepotenza dei tartari. Il sovrano si felicita per il suo rientro, quasi insperato, considerata la pericolosità dei luoghi attraversati. Il primo marzo Ambrogio Contarini e il suo seguito rientrano in Polonia e si fermano a riposare cinque giorni. Partiti, attraversano con timore il confine tra Polonia e Germania.
Una volta arrivato nelle terre del marchese di Brandenburgo, alloggiano presso la stessa osteria della partenza e qui l’oste manifesta meraviglia alla sua presenza: «dissemi che in detti confini eravamo venuti con grandissimi pericoli, e in vero egli mi fece onore e carezze assai».
Attraversata la Germania, in aprile sono a Trento. Due anni ormai, erano trascorsi dal terribile episodio che aveva visto coinvolto il piccolo Simone Unterdofer e la comunità ebraica. Si diceva che il bambino era stato sacrificato dagli Ebrei di Trento il giovedì santo del 1475. Le sue reliquie venivano venerate come quelle di un martire e così anche Ambrogio: «parsemi mio debito voler onorare quel santissimo corpo e il giorno di Pasqua, e far anche il debito di confessarmi e communicarmi». Una volta lasciato il territorio del principato vescovile, rientra finalmente a Venezia. Mentre si dirige a S.Maria delle Grazie, sul canale della Giudecca incontra il fratello Augusto e due cognati. Il saluto tra parenti è festoso. Insieme si avviano verso la chiesa per ringraziare Dio per la felice conclusione del pericoloso viaggio. Nello stesso giorno Contarini raggiunge il Senato per riferire la sua ambasciata.
Felice di esser nuovamente a Venezia, va a casa dove ringrazia «grandemente nostro Signore Iddio che mi avesse donato questa grazia e campato da tanti pericoli e ridotto a riveder li miei, perché molte volte credetti certo non gli riveder mai».


Bibliografia
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M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Roma-Bari, Laterza, 2003;
M. Montanari, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1994;
D. Balestracci, Terre ignote, strana gente, Roma-Bari, Laterza, 2008.

Documento inserito il: 21/12/2014
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