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Il mercante vero nelle città medievali [ di Monica Furlani Umer ]

Problemi di cittadinanza a Venezia.

Gli uomini d’affari, ricchi mercanti e banchieri che possiedono vistose entrate, ben gestite, sono tra i maggiori protagonisti nelle città medievali.
Dalla metà del XII secolo, la mercatura è ormai una vera e propria professione, strutturata intorno a logiche di appartenenza, caratterizzate da un insieme di buoni comportamenti entro un sistema di relazioni giuridico –morali legittimato dai poteri politico –religiosi.
Mercatura è un termine che individua un’attività specifica e molto tecnica. E’ un termine polisemico in grado di collegare e tenere unite tanto molteplici forme di scambio quanto numerose competenze necessarie in merito a merci, denaro e sentimenti, in un momento in cui l’amministrazione civica e religiosa delle città pone al centro dei propri interessi, il profitto e la gestione del denaro in modo giusto e utile.
Il mercante diventa l’attore principale del mercato, protagonista brillante dell’economia locale e sovralocale, attivo in uno spazio commerciale mondano dove circolano beni concreti, ma anche di uno spazio metafisico, organizzato intorno all’incarnazione di Cristo.
Per questo motivo il mercante, un tempo figura eticamente incerta, è fatto diventare dalla riflessione teologica, il simbolo terreno di Cristo, primo mercante che a prezzo del Suo corpo compra la Salvezza per gli uomini.
Una lunga ridefinizione, avvenuta tra XI e XIII secolo, dei poteri ecclesiastici e laici, un momento in cui la teologia è passata a disciplinare la commerciabilità dei beni profani e a definire l’illegalità dei mercatores simoniaci, come è riportato nel famoso trattato di Umberto di Silvacandida, intitolato Adversus simoniacos.
Una testualità che conferma un impegno particolarmente attento intorno al termine di usura. Mentre i pontefici legittimano l’attività di scambio e il conseguente guadagno dei mercanti, l’usura è specificata come una pericolosa abitudine deviante, un fenomeno ereticale, identificato in una voragine senza fondo nella quale sprofonda ogni possibile forma di convivenza economico-razionale. L’usura non solo frantuma qualsiasi possibilità di ottenere proficui scambi di beni, ma lacera anche le trame di quelle fondamentali relazioni sociali e affettive gestite e controllate dai cristiani, funzionali all’amministrazione del profitto economico e spirituale della comunità cristiana stessa.
Nello stesso momento in cui la Chiesa rinnova sé stessa, l’Europa mette in atto una rivoluzione commerciale appoggiata da autorizzazioni imperiali o comunque politiche, che tra gli altri meriti, hanno quello di riconfigurare la condizione professionale del mercante, che nel periodo dell’Alto Medioevo gestiva, strettamente legate, quelle operazioni creditizie e commerciali che nel corso del XII secolo si sono, invece, diversificate e che portano a quelle fasi di rielaborazione della nozione di usura, ossia di quell’abitudine considerata economicamente deviante, moralmente e socialmente pericolosa.
Tutto questo avviene, tra Duecento e Trecento, quando sempre più il mercato è programmato come luogo di attività etico – economiche, praticate da gruppi di professionisti nell’arte dello scambio. In poche generazioni, singoli individui o intere famiglie, costruiscono e gestiscono modelli economici, sociali e culturali, connotati dal loro ruolo salvifico. I mercanti sono attivi nell’elaborazione di una vera e propria arte dello scambio, inteso come uno spazio partecipativo concorrenziale alquanto attivo e complesso. Creano nuove forme associative o frazionano le loro società, diventano proprietari di quote delle navi usate per i loro commerci, sono marinai esperti che conoscono tanto i segreti della navigazione, quanto le strade migliori da percorrere via terra. Dapprima esperti consiglieri del capitano a bordo, diventano in seguito, consumati diplomatici e uomini politici.
In città commerciali come Genova, possono bastare anche pochi mezzi per partecipare a qualche attività mercantile: chi ha accumulato un minimo di capitale mobile rischia volentieri una parte per aumentarlo in società marittime o in contratti di commenda in cui si trovano a figurare come prestatori di fondi (1).
Oltre a sviluppare tecniche economiche sempre più vantaggiose, i mercanti si dotano di esperienza militare, competenze diplomatiche e spirito d’iniziativa. Inoltre, la formazione e l’unione di famiglie molto ricche, rivelano ben presto la volontà di dominio totale sulla città, in funzione dei propri interessi, sia in ambito economico che politico e religioso.
Vi è comunque una diversità di sviluppo di prospettive e tecniche, nel caso si tratti di città di mare o di terraferma, dove le prospettive commerciali possono presentarsi più stabili e sicure. Per quanto riguarda le società, queste sono costituite da molti soci: ognuno apporta al fondo sociale una parte o tutto il proprio capitale.
Di solito, si tratta di raggruppamenti familiari ben conosciuti e uniti da stima reciproca, con interessi comuni e inclini a lavorare insieme. Alla solidità della compagnia familiare, si aggiungono persone con buona reputazione, oltre alla presenza dei soci che vengono dislocati all’estero come rappresentanti nelle filiali. La stabilità, la fama e il rapporto fiduciario con i propri clienti, consentono alle compagnie di svolgere attività creditizia. In tal modo si ricevono somme in prestito su cui vengono pagati degli interessi fissi. Grazie alle somme ricevute, si effettuano poi investimenti che apportano forti profitti. In sostanza, si tratta di un embrione della banca di deposito, seppur priva della garanzia della durata del deposito stesso, una situazione che poteva far incorrere alla compagnia rischi anche molto gravi.
A titolo di esempio, l’interesse delle compagnie mercantili fiorentine, non solo confluisce nella creazione dell’industria tessile, ma si trova inesorabilmente mescolato all’attività creditizia. Un episodio di tutto rispetto per l’economia dei banchieri è stato l’accordo stabilito tra Carlo d’Angiò e Clemente IV nel 1265, per l’investitura del Regno di Sicilia (2). Una volta stabilite le condizioni necessarie per dare il via ai preparativi per la spedizione, il pontefice ottiene il denaro necessario dai banchieri toscani. La partita, per questi ultimi, è molto pericolosa, considerato l’ingente somma prestata: in caso di sconfitta militare del conte provenzale, le fondamenta stesse delle società finanziarie toscane correvano il rischio di sbriciolarsi, ma maggiore il rischio, maggiore il profitto. Per questa operazione, i banchieri, ottengono la garanzia della Chiesa che impegna le rendite, i beni delle chiese di Roma, parte del tesoro personale del papa e il tesoro della Camera apostolica. A seguito della vittoria di Carlo d’Angiò, i mercanti si assicurano i profitti legati agli interessi moratori stipulati all’interno dei contratti stessi, con un guadagno molto probabilmente proporzionale all’impresa. A questo, si aggiunge la possibilità di sfruttare il territorio conquistato e la gestione del potere nella stessa Firenze.
Trascurando per un attimo il valore politico ed economico di una simile alleanza, è fondamentale notare che i soggetti che favoriscono in massimo grado il compimento di un’impresa militare e politica, in grado di innescare profondi cambiamenti in Occidente, sono i mercanti. Soprattutto va rilevato che si tratta di un’impresa d’affari gestita a titolo privato, come forza economica autonoma e internazionale.
E’ importante ricordare che la carriera all’interno delle grandi compagnie commerciali, inizia da giovani, con costanti attività di praticantato nell’attività paterna, che avviene solitamente senza alcun compenso. Per diventare soci, è necessario invece, conoscere molto bene il mestiere, essere dotati di buon fiuto e acume, eccellere in prudenza e avere ottime frequentazioni.
Chi appartiene alle famiglie minori in ambito societario, può aspirare a salire di grado fino ad ottenere il posto di direttore di compagnia. I capitali sociali, di solito, sono molto rilevanti, secondo numero e apporto economico dei soci stessi.
La solidità delle compagnie stimola la fiducia del pubblico e induce i grandi rappresentanti della Chiesa e della nobiltà a depositare e investire ingenti somme di denaro. In tal modo si aumenta la potenza, la credibilità e quindi la fiducia e il giro d’affari delle compagnie stesse che agiscono sia dalla sede centrale che dalle numerose filiali sparse nei territori mediterranei e in quelli occidentali.
Nel caso di Firenze, il centro direttivo di molte compagnie, si trova nelle città dove abitano i soci principali e da qui partono scelte e decisioni, informazioni, ordini e merci che girano poi per tutto il mondo allora conosciuto (3).
Le filiali, sorte in città straniere, sono dotate di ampi raggi d’azione e sono riunite in precise zone delle città, strutturate intorno ai magazzini, le botteghe e gli uffici.
Il personale è sempre molto controllato, esperto e dotato di professionalità molto elevate, come i direttori delle filiali, che godono di completa autonomia fiduciaria come rappresentanti della società stessa e pertanto autorizzati a effettuare operazioni finanziarie altamente audaci e fruttuose.
Le succursali sono dotate di un numero di funzionari che varia secondo la loro importanza: troviamo i cassieri, gli addetti alle vendite e i commessi di magazzino. Si parla qui di una massa di personale fluttuante, che passa da una filiale all’altra, con tempi ben determinati. Una precauzione, usata ancor oggi, con il fine di impedire legami troppo stretti che potevano danneggiare la società stessa.
Per tornare ai fiorentini, oltre a reinvestire in attività trasformative i tessuti stranieri, grazie soprattutto alle famose tinture rosse che rendono famosa la stoffa in tutti i territori su cui veniva commerciata, si dedicano al cambio, al deposito e al credito con un’ampiezza di operazioni commerciali regolate con le lettere di cambio che girano nelle numerose piazze d’affari per effettuare pagamenti e riscossioni.
I papi, che incassano rendite da tutta la cristianità, si sono avvalgono della fama professionale dei fiorentini e li favoriscono alla scalata di un potere sicuramente incredibile che gestisce credito monetario con la Camera apostolica, con città, principi, ordini religiosi e laici. In tal modo, i banchieri fiorentini recuperano preziose remunerazioni del capitale prestato, per esempio, sulle rendite dei regni, sulle franchigie d’esportazione sul grano, sui gioielli delle corone in pegno e sui beni fondiari. Altre forme di pegno, che gli agenti finanziari delle compagnie ricevono dalle autorità cittadine come dai principi, sono le rendite legate allo sfruttamento delle miniere come la riscossione di rendite reali. Cedono inoltre, l’utilizzo del servizio che assicurava cambio e conio delle monete del regno, le cariche pubbliche, la riscossione dei diritti di dogana sulle importazioni, come avveniva, in questo caso, nei porti inglesi. Con la gestione del monopolio delle rendite dello stato, i capi delle compagnie acquisscono incarichi prestigiosi come consiglieri finanziari della Corona.
I nomi eccellenti degli esponenti più importanti delle forze economiche del tempo sono nomi famosi, come Bardi, Peruzzi, Portinari, Bonaccorsi, Alberti antichi e Alberti nuovi, Medici.
La loro arte è una professione ad alto rischio ma di altissima qualità. Connotata in maniera molto incisiva rispetto a qualsiasi altra attività, la mercatura si afferma come «prima e sola professione», in grado di attrarre l’attenzione dei grandi intellettuali francescani che avevano già delineato la comunità cittadina come una collettività dotata di competenze specifiche in grado di valutare la propria ricchezza e la misura giusta della propria appartenenza al Regno divino preannunciato dalle Scritture.
Le testimonianze scritte degli stessi mercanti ci riportano a individui complessi e raffinati, in grado di trasformare una professione in un vero e proprio modus vivendi. Questa dimensione traspare ne Il libro dell’arte della mercatura di Benedetto Cotrugli, mercante originario di Ragusa in Dalmazia quanto ne I quattro libri della famiglia di Leon Battista Alberti. Da qui possiamo trarre informazioni dettagliate e interessanti sui patrimoni familiari, la cura della proprietà, sull’accorta gestione economica e sull’esemplare esperienza finanziaria, tanto quanto possiamo conoscere il valore dato alle relazioni affettive e sociali, base dell’organizzazione dei governi cittadini ovvero dei mercati, dove sono operative le aziende dei mercanti- banchieri. Si tratta di una molteplicità di funzioni che hanno fatto dell’uomo d’affari un vero professionista esperto, dotato di mezzi e competenze sociali che, una volta portate a buon fine, lo dotano di una posizione sociale ed economica di tutto rispetto. Nonostante questa condizione privilegiata, i mercanti hanno, tuttavia, anche altre questioni molto delicate da affrontare.
Mentre la riflessione teologica porta avanti un ragionamento che definisce la collettività cristiana come uno spazio sacro dove il ruolo del commercium promuove nuove organizzazioni sociali, gli uomini d’affari, in Italia, si dotano di un’impostazione mentale razionale, molto logica. Aperti ai cambiamenti e alle innovazioni, i mercatores sono ormai i rappresentanti di un sistema economico fiduciario su base concorrenziale. Esaltati pubblicamente come sostenitori del bene comune, li troviamo perfettamente integrati nello spazio dei poteri governativi.
In quanto uomini d’affari «veri», si dotano di strumenti culturali e scritturali che li caratterizzano e che appartengono all’esclusivo mondo della mercatura. Studiosi attenti della propria professione, si qualificano con doti e capacità economico-relazionali in grado di distinguerli dagli altri cittadini, perché capaci di spostare e gestire nel modo più appropriato le proprie ricchezze oltre che le proprie qualità personali.
Se i loro affari li portano in giro, su territori distanti e su strade lontane dal centro della cristianità, molto spesso, però, essi pongono la sede dell’attività e l’abitazione nelle loro città natali e qui, grazie ai profitti accumulati, si costruiscono splendide dimore. Il loro ambiente naturale è rappresentato dai mercati internazionali da dove importano merci preziose e dove favoriscono la circolazione di denaro reale e virtuale. Audaci, sicuri, spregiudicati, acuti, dotati di grande spirito d’iniziativa, i mercanti mettono spesso a repentaglio la propria vita ma, in cambio, possono ottenere profitti elevatissimi. Sempre molto attenti ai cambiamenti politici, economici e sociali, sono altrettanto spesso fautori degli stessi: dimostrano il loro acume nelle capacità di adattamento, sviluppano o conservano tecniche commerciali, bancarie e assicurative che apprendono attraverso i loro viaggi, dalle altre culture, come quella ebraica e musulmana, presenti nel bacino del Mediterraneo.
A questo proposito, è utile ricordare l’importanza data dai mercanti veneziani favoriti, fin dal X secolo, da una certa presenza monetaria che incoraggia il prestito su pegno e il cambio. Lo stesso governo della Repubblica stabilisce le partecipazioni ai rischi del commercio marittimo, definisce i prestiti dove gli affaristi impegnano il proprio denaro e dove si assumono il rischio del viaggio, appoggiando le partecipazione associate e controllando i contratti di colleganza. Il lavoro è diviso tra i mercanti che partono e quelli che restano in città: guadagna di più chi resta e investito sul mercato una maggior quantità di denaro insieme all’assunzione di buona parte del rischio dell’impresa. La partecipazione ad un contratto di colleganza non esclude la partecipazione ad altri contratti simili come non implica la conoscenza di tecniche d’affari più specifiche, che riguardano invece i soci in partenza. Questi devono saper tessere ottime relazioni, devono acquistare, vendere e conoscere, nei loro segreti, persone, merci e luoghi.
A proposito di questa professione e della sua fama, è proprio a Venezia che si gioca una partita molto importante tra economia e politica. La stretta rete di relazioni tra famiglie di grandi uomini domina la città e ha lo scopo di impedire la creazione di una monarchia effettiva. Dopo il 1297, durante la Serrata del Maggior Consiglio, si decide di controllare ancora di più, rispetto al passato, l’ingresso al potere politico delle famiglie di più recente ricchezza. Si crea, in questo modo, un’oligarchia di uomini d’affari conosciuti e fidati che impediscono, tranne rarissime eccezioni, che nuove famiglie di mercanti diventino parte della classe dirigente (4).
La città quindi, costituita e spesso governata da spregiudicati ed esperti mercanti-marinai, dotati di uno spirito di coesione e senso della collettività molto forte, sigla con i suoi cives un patto politico-economico che ha conseguenze molto ben conosciute (5).
Gli optimates definiscono sé stessi e la città mediante regolamenti e istituzioni che provengono dall’esperienza politica, economica e da quell’ intenso spirito comunitario già citato. In questo modo, grazie al suo monopolio navale e al rigoroso controllo dello Stato su uomini, merci e monete, la Serenissima supporta l’intraprendenza dei mercanti, consapevoli della loro appartenenza ad un ceto sociale privilegiato, dotato di competenze e linguaggi della ricchezza, in terra e mare. La rappresentazione stessa del commercio veneziano indica potere e grandi capitali e i mercanti, attivi all’estero, sotto la sacralità del gonfalone di S. Marco, ne vengono glorificati (6).
In questo contesto, seppur certo non unico, il tema della cittadinanza riveste un ruolo di rilievo notevole, considerato l’alto valore ottenuto dalla nozione di civis elaborata lungo il basso medioevo nella testualità giuridica e teologica. I cittadini, a Venezia, stanno a metà strada, tra la nobiltà e il popolo, e sono tutti quelli che partecipano al commercio locale e internazionale. E’ una condizione ambita, quella di cittadino a Venezia: rappresenta il conseguimento di una vittoria conquistata con fatica e costanza. Salvo casi particolari, come prima condizione, è necessario risiedere in città da ben venticinque anni.
È facilmente comprensibile, che ottenere la cittadinanza nella Serenissima, é tutt’altro che facile. I prerequisiti richiesti per ottenerne il privilegio, sono molto complessi, nonostante che la sopravvivenza della città sia legata proprio all’immigrazione, considerato anche che il tasso di mortalità è ben superiore a quello della natalità.
L’immigrato vanta solo i diritti commerciali che derivano dalla lex mercatoria, riconosciuta ai mercanti. Dopo essersi manifestate le condizioni necessarie, scatta la naturalizzazione e la persona diventa venetus factus privilegio attraverso una procedura de iure. Nell’eventualità della mancanza di tutti i requisiti, la risoluzione del problema poteva essere accelerata con una richiesta attraverso una procedura de gratia (7).
Se si tratta di una cittadinanza nobiliare, lo Stato veneziano poteva concedere il grande privilegio della cittadinanza ad honorem.
In ogni caso, le magistrature inquirenti controllano, con particolare circospezione, la credibilità dei futuri cittadini e la convalida dei requisiti è sempre molto ben ponderata, spesso seguita alla testimonianza di deposizioni giurate, che, se scoperte false, portano la conseguente punizione del richiedente con la perdita della cittadinanza a cui si aggiunge il pagamento di una multa. Nel complesso, sia l’iter con la formula de gratia come la cittadinanza ad honorem coinvolgono le magistrature dello Stato, dalla Quarantia al Maggior Consiglio e anche tutti quelli che vengono obbligati a formulazioni di impegno davanti a testimoni di amici o soci o di figure altrettanto influenti che, d’obbligo, devono prestare giuramento di fedeltà, fidelitas et devotio alla Repubblica e nel secondo caso, confermare, anche simbolicamente, la chiara fama del destinatario del privilegio (8).
In altre parole, i nuovi cittadini sono nominati grazie al favore di una rete di relazioni e conoscenze che legittimano l’esistenza di una comprovata fidelitas allo Stato.
Alla fine del XIII secolo, nel periodo di una prima riforma che riguarda il ceto cittadino, cioè il ceto subito sotto ai nobili di governo, pochissime sono state le richieste di cittadinanza esaudite. I nuovi cittadini, pur privi di diritti politici, risultava comunque superiori agli habitatores, nati a Venezia ma che non godeno di alcun vantaggio specifico (9).
Quindi, la cittadinanza nella città lagunare è un beneficio di grande valore, concesso con molta parsimonia sia in Patria che nel Levante. Qui, i burocrati veneziani indagano per avere prove certissime della cittadinanza fin tra gli avi più antichi, allo scopo di certificare la stessa appartenenza alla nobiltà, per esempio, nel caso di applicazione di sconti doganali. Essere civis a Venezia, infatti, indica la possibilità di esercitare l’arte del commercio in due modi diversi, secondo il tempo di residenza: dopo 15 anni, veniva concessa la possibilità di commercio locale, dopo 25, il commercio all’ingrosso via mare.
Dopo la peste del 1348, si promuovono una serie di incentivi per stimolare l’accesso di nuovi immigrati in città e le autorità diminuiscono drasticamente i periodi di attesa per la cittadinanza de intus. Immatricolarsi nelle corporazioni di mestiere è gratis e viene aumentata la franchigia della merce che i marinai sono autorizzati a portare con sé.
Le conseguenze dell’epidemia danno l’inizio a periodi di forte concorrenza con le altre città italiane con lo scopo di avere nuova popolazione attiva oltreché capitali e capacità imprenditoriali. Passato il pericolo, si tende a annullare privilegi e incentivi, soprattutto quando le autorità scoprono che tanti cittadini evitano di abitare a Venezia per non pagare le tasse. Il pagamento degli onera è fondamentale e ne segue il rilascio di un documento che ne certifica l’avvenuta messa in regola.
Le Magistrature cittadine oscillano tra propositi di accoglienza e di maggior controllo, consapevoli che vivere in una città spopolata porta alla perdita di prestigio e alla povertà.
Dopo la peste del 1400, basta il matrimonio con una veneziana per godere degli stessi diritti posseduti dagli altri cittadini.
Per quanto riguarda le città assoggettate, in Terraferma come in Dalmazia, si concedono solo cittadinanze de intus, che permettono di investire a Venezia, come il diritto d’acquisto di obbligazioni veneziane o di beni immobili. Sono chiari tutti i vantaggi che apporta, in questo contesto, un buon numero di naturalizzazioni: si traffica con i veneziani, si beneficia di sconti doganali, è più facile investire in titoli e comprare casa. Lo Stato, invece, guadagna in tasse, in contribuzioni forzose e insieme però. Gestisce, un attento controllo politico ed economico, badando a non avere in casa, concorrenza sleale o troppo agguerrita.
Questa nuova politica demografica esclude dalla cittadinanza i numerosi ebrei residenti perché infedeli ed estranei alla comunità cristiana. Le comunità ebraica sono molto spesso, indifese all’interno delle città dove detengono la gestione dei banchi di prestito e sono esposte ai toni alquanto virulenti delle prediche dei francescani che li incolpano di consuetudini esecrabili e di estrema perfidia. Diventano frequentemente vittime di ruberie se non di peggio, anche se, talvolta, godono di alcuni diritti assimilabili a quelli dei cittadini per tempi brevi, fissati dal periodo della condotta.
Il riconoscimento come forenses avrebbe comportato maggiori sicurezze: comunque, nel 1462, l’autorità dogale ordina, ai poteri pubblici di Treviso, la loro protezione.
E’ riconoscibile, quindi, come la concessione dell’ambito privilegio della cittadinanza va a favore del gruppo elitario, seppur ampio, di mercanti e imprenditori che, in tal modo, godonp anche della tutela dell’apparato amministrativo e giudiziario di Venezia. La protezione stessa indica, di per sé, una posizione privilegiata che connota positivamente il mercante internazionale e gli procura maggiori margini di profitto rispetto agli uomini d’affari di altre città.
Nella Pratica della mercatura, Francesco Balducci Pegolotti, ci informa, con le cifre, di un sistema di disparità e di restrizioni tra i mercanti di diversa condizione politica, notando come la piena cittadinanza contemplava benefici daziari di ampia discrepanza rispetto agli stranieri (10). Al di fuori dei confini della Repubblica, lo status di cittadino arreca vantaggi notevoli soprattutto in quei territori dove sono stati negoziati patti commerciali reciproci tra le varie città.
Va ricordato ancora, come Venezia difenda i privilegi dello status di civis senza fare distinzione giuridica tra i cittadini originari o gli immigrati facti cives de iure o de gratia.
Una distinzione molto complessa, è stata stabilita per i facti cives, cioè mercanti e uomini d’affari che si distinguono dai cittadini originari, ma non sono iscritti nei libri del fisco poiché non possedevano alcuna attività commerciale. Si tratta di persone nate a Venezia o in territorio assoggettato che dalla metà del Trecento sono stati connotati con il titolo di cives originarii.
La condizione di veridicità cittadina deve essere confermata dalla publica vox et fama: nel caso di dubbi e contestazioni, si procede alla verifica con la raccolta di testimonianze giurate di conoscenti stretti e di vicini di casa. Poter provare la propria condizione di cittadino è fondamentale, per beneficiare di specifici diritti sia in ambito civile che penale, anche se, in questo contesto, si tratta di persone di condizione economica povera.
Se nel caso di Firenze, gli immigrati naturalizzati rivendicano diritti politici, a Venezia, dopo la riforma del Maggior Consiglio, definitivamente consolidatasi nel 1323, si tratta di una condizione impensabile considerato che l’organizzazione politica è detenuta dal patriziato (11). I facti cives possono solo candidarsi a cariche pubbliche minori, anche se vi sono stati casi di passaggio al patriziato, di personaggi impegnati in teatro di guerra che si erano distinti in azioni decisive per la Repubblica, sia con sostanziosi impegni economici che militari. Di conseguenza, ottengono, come ricompensa, splendidi monumenti funebri e la condizione di nobiltà cittadina per i propri eredi.


Note
(1) Sull’intraprendenza dei mercanti genovesi si veda, per una prima lettura, Y. Renouard, Gli uomini d’affari italiani nel Medioevo, Milano, pp.135-51.

(2) Renouard, p. 251.

(3) Ancora Renouard, sulle compagnie fiorentine, i loro rappresentanti e succursali, pp. 165-212.

(4) S. Chojnacki, La formazione della nobiltà dopo la Serrata, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della Serenissima, vol. III; E.Muir, Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Il Veltro, Roma, 1984; R. C. Müller, Espressioni di status sociale dopo la “Serrata” del Maggior Consiglio, in Studi Veneti offerti a Gaetano Cozzi, a cura di G. Benzoni, M. Berengo, G. Ortalli, G. Scarabello, Venezia, 1992, pp. 53-60.

(5) Di grande importanza per la storia di Venezia e i suoi protagonisti sono le opere di F. C. Lane, Storia di Venezia, Torino, 1991; id., I mercanti di Venezia, Torino, 1996; id., Le navi di Venezia. Fra i secoli XIII e XVI, Torino, 1997.

(6) F. C. Lane, I mercanti di Venezia, p. 10.

(7) R. C. Müller, Immigrazione e cittadinanza nella Venezia medievale, Roma, 2010, pp. 32-42.

(8) Sull’importanza di essere cittadino e di poterlo provare, si leggano Gli statuti veneziani del doge Jacopo Tiepolo del 1242 e le loro glosse, a cura di R. Cessi, Venezia 1938; M. Casini, La cittadinanza originaria a Venezia tra i secoli XV e XVI: una linea interpretativa, Venezia, 1992.

(9) Müller, Immigrazione, p. 23.

(10) Müller, Immigrazione, p. 34.

(11) G. Trebbi, I diritti di cittadinanza nelle repubbliche italiane della prima Età Moderna: gli esempi di Venezia e Firenze, in Cittadinanza, a cura di G. Manganaro Favaretto, Trieste, 2001, pp.135-82; D. Calabi, P. Lanaro, La città italiana e i luoghi degli stranieri: XIV-XVIII secolo, Roma-Bari, 1998.

Documento inserito il: 22/12/2014
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