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Ribellarsi all'8 settembre. Seconda parte

di Maria Cipriano

L'8 settembre, con tutta la storia che lo incorona di stranezze a cominciare dalla poco credibile “fuga per paura dei tedeschi” che a parer mio non sta in piedi visto che i “fuggiaschi” tranquillamente li incontrarono durante tutta la strada dalla via Tiburtina in poi, pronunciando ogni volta una precisa parola d’ordine probabilmente concordata in precedenza con il generale tedesco Kesselring; con tutta la sbandierata vigliaccheria del Re e di Badoglio a fare da perno, con tutto il contorno e contornino di episodi improbabili se non inventati di sana pianta tipo le frasi impaurite che un tremebondo Badoglio avrebbe pronunciato “chissà a quale albero i tedeschi ci impiccheranno” e simili, ha sempre costituito il piedistallo inamovibile, la base imprescindibile opportunamente enfatizzata e caricaturata sulla quale il nuovo potere doveva reggersi. Infatti: affogare nel discredito e nella vergogna se non nel ridicolo, umiliandola, tutta la classe dirigente precedente a cominciare dal Re, era essenziale al fine di legittimare la nuova classe subentrante alla quale l'8 settembre con “l’infame codardia, incapacità e fellonia del Re, di Badoglio e di tutto lo Stato Maggiore dell'Esercito che fuggiva lasciando il Paese allo sbando”, faceva da insostituibile caposaldo.
In poche parole: senza la costruzione dell'8 settembre come avrebbero fatto i nuovi poteri a succedere in modo stabile e credibile a chi li aveva preceduti nella stanza dei bottoni? Non è difficile vedere che tutta l'impalcatura del cosiddetto armistizio non riuscì affatto utile né al Re nè a Badoglio, e tanto meno al Regio Esercito e alla flotta, bensì al contrario cagionò loro un enorme danno e con essi a tutta la nazione, mentre si rese indispensabile a chi l'aveva accuratamente premeditata e costruita.
L’annuncio del generale Eisenhower alle ore 18,30 ora italiana di mercoledì 8 settembre, continuamente ripetuto per ore in tutto il mondo dall’agenzia Reuters (la principale agenzia di stampa internazionale fondata nel lontano 1851 dal tedesco Paul Jiulius Reuter) piovve come un fulmine a ciel sereno su tutti coloro, militari e civili, che a stragrande maggioranza non ne sapevano nulla né tantomeno avevano tramato col nemico neanche col pensiero: tutti, tranne naturalmente coloro che invece l’avevano organizzato d’accordo con lui, e che potremmo chiamare “i congiurati”, i quali mai furono identificati, mai smascherati e tantomeno cercati, anzi una specifica disposizione inserita nella clausole della resa incondizionata (chiamiamola col suo nome) impediva di incriminarli anche nel caso in cui fossero stati individuati. Fu proprio l’effetto sorpresa, opportunamente calcolato, a scatenare il caos tra le file delle nostre Forze Armate ancora saldamente al loro posto nonostante la situazione critica, causandone lo sbando, la fuga, la cattura da parte dei tedeschi a meno che non accettassero di continuare a combattere e dunque disobbedissero al Re: insomma una confusione totale ove ognuno si trovò di punto in bianco a dover decidere per sé, nè era facile e scontata questa decisione così com’è sempre stata presentata. Fu questa la vera sconfitta: non quella sul campo di battaglia giacchè le guerre si vincono e si perdono, ma il pressochè totale scompaginamento delle nostre Forze Armate, che servì a toglierle di mezzo sgomberando provvidenzialmente la strada agli anglo-americani già sbarcati in Italia. Di conseguenza l’armistizio dell’8 settembre sotto questo punto di vista si rivelò un piano perfetto del nemico, o ex nemico che dir si voglia.
Ho già puntualizzato nella prima parte che il cosiddetto armistizio che imponeva la cessazione immediata delle ostilità contro gli anglo-americani, non fu affatto accolto nella lietezza unanime così come la propaganda l’ha sempre sbandierato, ma, al contrario, oltre ad essere piovuto sulle teste di tutti inaspettatamente, lasciò non solo nella confusione e nello sconcerto bensì anche nella costernazione soprattutto i nostri combattenti che ancora in grandissimo numero erano sparsi nei vari fronti di guerra: basti dire che soltanto nei Balcani se ne trovavano quasi 500.000. La versione semplicistica che conosciamo, però, vale a dire la banalizzazione di fatti che in realtà erano molto più complessi, non ha mai messo in luce i punti illogici o semplicemente controversi di tutta la vicenda, al punto che per l’immaginario collettivo le cose andarono precisamente come sono state raccontate, salvo poi dover spiegare perché anche le autorità tedesche stessero facendo la stessa cosa di quelle italiane, cioè lasciando Roma, chiedendo i lasciapassare per uscire dalla capitale e dirigersi in tutta fretta al nord. Se dunque le autorità italiane fuggivano per paura dei tedeschi, quelle tedesche fuggivano per paura degli italiani?
Avendo tutti naturalmente creduto alla versione ufficiale corroborata dalla voce di Badoglio udita dalla sede dell’Eiar appena un’ora dopo l’annuncio di Eisenhower, il fatto che nessuno dei diretti interessati, a cominciare proprio dal Re e da Badoglio, intervenisse mai a smentirla, la rinsaldò ulteriormente fino a farla diventare un dogma. In poche parole la tesi notoria è questa: il Re e tutto il suo seguito erano fuggiti da Roma per paura dei tedeschi dopo aver siglato di nascosto un armistizio il 3 settembre che il generale Eisenhower annunciò a sorpresa il giorno 8, guarda caso il giorno prima dell’”ultima battaglia” predisposta per il giorno 9, visto che all’alba del giorno 9 la flotta comandata dall’ammiraglio Carlo Bergamini doveva salpare da La Spezia per buttarsi addosso a quella angloamericana nel Tirreno, il che, indipendentemente dall’esito militare, avrebbe salvato la nostra reputazione proiettandola in alto, ai livelli del Piave di gloriosa memoria. Per cui è oltremodo strano che un governo che aveva concluso un armistizio con gli anglo-americani il 3 settembre avesse nel contempo organizzato contro gli stessi un’estrema battaglia navale nel Tirreno per il giorno 9.
La situazione dunque è tutt’altro che scontata nonostante le apparenze che talvolta ingannano, e nonostante ciò che da 80 anni si continua a ripetere.
Nel contesto caotico creato con l’8 settembre, e creato secondo un piano ben congegnato dal nemico e dai suoi accoliti, emblematiche furono per esempio le drammatiche vicissitudini patite da uno degli assi della nostra Aviazione, il piemontese Carlo Emanuele Buscaglia, il quale ben rappresenta lo stato d'animo prostrato dei militari italiani che la storiografia ufficiale ha invece fatto di tutto per mostrare felici e contenti dell'armistizio, tutti lieti di correre ai piedi del vincitore per offrirgli i propri servigi, tacciando quelli che non ne gioivano come un’esigua minoranza di fanatici e insensati devoti alla camicia nera e a Mussolini: nulla di più falso. Proprio su Buscaglia la storiografia ufficiale, pur nella contraddittorietà delle testimonianze, s'è industriata a presentarlo come un convinto cobelligerante dell’ex nemico, ansioso di prodigarsi per la nuova causa, quando a parer mio le cose andarono molto diversamente.
Creduto morto durante una delle leggendarie azioni aviatorie che gli avevano fruttato molteplici medaglie e riconoscimenti (lui solo aveva affondato 100.000 tonnellate di naviglio nemico), nella sua ultima spericolata missione del novembre 1942 era stato invece catturato dagli inglesi in Nord Africa assieme all’unico sopravvissuto dell’equipaggio, il siciliano Francesco Maiore, fotografo aviere, anche lui pluridecorato. Gravemente feriti e ustionati entrambi, vennero lasciati senza cure per quasi due giorni, tanto che Francesco Maiore morì fra atroci dolori, mentre il Buscaglia, persona famosa anche presso il nemico, beneficiò infine di un trattamento di favore e venne operato da un bravo medico britannico e salvato in extremis. Visto però che, contrariamente alle aspettative degli inglesi che puntavano a trarlo dalla loro parte, egli si rifiutava risolutamente di rispondere alle domande insidiose ripetutamente rivoltegli dai membri dell’Intelligence durante gli interrogatori, unite a esortazioni rivelatesi vane, corredate da allettamenti, di saltare il fosso, non tardarono a giudicarlo non collaborativo e infido, e pertanto venne spedito oltreoceano in un campo di concentramento negli USA, ove fu sottoposto a forti pressioni psicologiche e ricatti materiali che per i prigionieri italiani erano del tipo “se collabori mangi e sei trattato bene, sennò fai la fame e sei trattato male”. Si rassegnò dunque a esser trattato male, il che naturalmente infastidiva oltremodo il nemico, vieppiù essendo il Buscaglia un personaggio celebre la cui adesione al Regno del Sud avrebbe apportato gran lustro al nuovo mulino e attirato nuovi adepti.
Cos’accadde dunque dopo diversi mesi di quella dura prigionia? L’”illuminazione sulla via di Damasco”? Una conversione improvvisa e tardiva? Ritengo piuttosto che, dopo aver visto tanti compagni non collaboratori soffrire e morire, dopo aver visto che fine aveva fatto il generale Annibale Bergonzoli, chiuso in una cella imbottita dentro un ospedale psichiatrico di New York perché si rifiutava risolutamente di saltare il fosso, avendo capito che sarebbe senz’altro finito male anche lui a causa delle sue precarie condizioni fisiche che la prigionia non contribuiva certo a migliorare, si convinse infine o meglio finse d'essersi convinto a collaborare dopo aver resistito per oltre un anno in quella logorante cattività. Ce ne mise dunque parecchio per risolversi alla nuova causa, un po' troppo per uno che è ufficialmente presentato come colui che “scelse il regno del Sud”, tant’è che rientrò in Italia solo nel giugno 1944. Tornato in Patria, non tardò a toccare con mano la triste realtà venutasi a creare a seguito di quella che in tutto e per tutto era una resa incondizionata aggravata dal ribaltamento di fronte, fatta di umiliazioni e sottomissioni inaccettabili per lui, ove l'ex nemico, oltre a bombardare a tutto spiano causando rovinose devastazioni alcune perfettamente inutili come quella di Treviso e poi di Zara, dettava legge a destra e a manca e aveva occupato tutti gli spazi, civili e militari, primari e secondari, comandando a bacchetta tutti quanti, a cominciare dal Re e da Badoglio, costretti a fare buon viso a cattivo gioco. Sua Maestà si salvava perché, già di poche parole di suo per carattere, si era rinserrato in un indecifrabile e gelido mutismo che sbalordì anche il giurista Enrico De Nicola il quale, inviato dal CLN, per ore aveva cercato in un drammatico colloquio che in realtà era un monologo di convincerlo ad abdicare ricordandogli l’abdicazione di Re Carlo Alberto dopo la sconfitta di Novara nel lontano 1849. Il Buscaglia naturalmente non poteva conoscere le ambasce del Re, non ne sapeva nulla, anche se qualche sospetto pur doveva nascere nei confronti di questo Sovrano che stava sempre zitto, e dopo le umiliazioni e i disagi patiti per mesi a Brindisi, era stato spostato come un pacco a Ravello in provincia di Salerno nel febbraio 1944, relegato fra le vecchie mura del castello del duca di Sangro, un maniero senza riscaldamento e coi vetri rotti ove viveva come un sequestrato e gli giungevano le gozzoviglie notturne dei nuovi padroni. In poche parole, come già aveva intuito Carlo Fecia di Cossato di cui ho parlato nella prima parte, anche Buscaglia probabilmente subdorò che in tutta la farraginosa storia dell’8 settembre c’era qualcosa che non quadrava.
Di più, quasi tutti i suoi ex compagni di prodezze aviatorie a cominciare dal caro amico e collega toscano Carlo Faggioni, anche lui un asso dell’Aviazione con il quale a suo tempo aveva compiuto audaci missioni di guerra, erano passati al Nord con la Repubblica Sociale e là avevano intitolato a lui il ricostituito gruppo degli aerosiluranti, non solo perché lo credevano morto, ma anche perché non nutrivano dubbi sulla sua scelta. Difficilmente infatti il Buscaglia sarebbe rimasto insensibile ai bandi radiofonici di un altro famoso asso dell’Aviazione, il mitico Ernesto Botto, piemontese, il leggendario “gamba di ferro” com’era chiamato a causa di un arto artificiale impiantatogli dopo l’amputazione parziale della gamba destra per causa di guerra e che ciò nonostante aveva continuato eroicamente a pilotare, i quali proclami dopo l’armistizio incitavano gli sbandati della Regia Aeronautica a raccogliersi per combattere l’invasore anglo-americano, e contribuirono a radunare sotto le bandiere della RSI moltissimi aviatori che dopo l’annuncio dell’armistizio erano rimasti smarriti e indignati per la capitolazione al nemico, senza saper che fare, essendo tutt’altro che facile decidersi in un senso o nell’altro. Nessuno degli ex colleghi di Buscaglia pareva però nutrire dubbi su quali sarebbero state le sue decisioni, il Faggioni per primo. Ben prima dell’armistizio, infatti, precisamente fin dal 1942, i due cari colleghi e amici, insospettiti per l’inopinato malfunzionamento dei siluri nel corso dell’importante battaglia “di mezzo giugno” contro l’Inghilterra che pure si era risolta in un successo per l’Asse, avevano cominciato a paventare un sabotaggio in sede di costruzione, iniziando pertanto una serie di controlli sui siluri rimasti, e insistendo presso i Superiori affinchè si avviassero indagini opportune presso la ditta costruttrice. Pareva impossibile che ci fossero italiani che sabotavano la guerra, ma i due eroi avevano ragione, e infatti un caporeparto del Silurificio di Baia presso Napoli venne arrestato e deferito al Tribunale Militare perché manometteva gli apparecchi, mettendo irresponsabilmente a grave rischio non solo le missioni militari ma la vita stessa di chi vi partecipava. Checchè si stentasse a crederci, i sabotaggi furono una costante, non erano nient’affatto casi isolati e sporadici ma facevano parte di una rete cospirativa organizzata ed estesa, dunque continuarono a verificarsi con crescente frequenza, tanto che furono molteplici nel corso della guerra gli episodi sospetti in odor di sabotaggio, come il fallito attacco aereo contro la base inglese di Gibilterra nel giugno 1943, a cui lo stesso Faggioni aveva partecipato.
Perciò anche il Buscaglia, come già il Fecia di Cossato, una volta rientrato in Italia non impiegò molto tempo ad accorgersi dal vivo che il tanto decantato armistizio non era affatto quell’atto nobile e sincero presentato in vetrina, onestamente perseguito nell’interesse dell’Italia onde porre fine alla guerra siglando una pace onorevole, la stessa a cui anche il comandante Borghese aveva dichiarato che non si sarebbe mai sottratto nel caso fosse stata appunto onorevole, bensì era il coronamento finale di un tradimento che per mesi e mesi aveva agito sottotraccia il più delle volte impunemente, non a caso mettendo in allarme fin dal 1942 il capo del SIM (Servizio Informazioni militare) Cesare Amè, un ex combattente pluridecorato della Grande Guerra che ricoprì quel prezioso e delicato incarico dal 1 gennaio 1940 all’8 settembre 1943. Accortosi che i nostri convogli colavano a picco quando seguivano le rotte prefissate e arrivavano incolumi quando cambiavano rotta a sorpresa, Amè cominciò a sospettare che vi fossero talpe e traditori in seno alla Marina Militare che spifferavano al nemico le rotte. Si rivolse perciò direttamente a Mussolini per avviare un’indagine, ma questa si dimostrò tutt’altro che facile e non approdò a nulla, infatti il Duce non era affatto quel padreterno che pareva, lui stesso si lamentava di non essere obbedito, men che meno da quando le sorti militari dell’Asse avevano cominciato a declinare.
Perciò, com’era avvenuto per l’asso dei nostri sommergibili Carlo Fecia di Cossato, anche per l’asso della nostra Aviazione Carlo Emanuele Buscaglia certi sospetti dovettero diventare certezza. Lo stesso repentino cambio di rotta del Re consegnatosi agli anglo-americani in quel di Brindisi ov’era giunto nel primo pomeriggio del 10 settembre 1943, un arrivo che a molti parve obiettivamente strano, tradiva appunto un qualcosa che non tornava. In poche parole, al di là dei proclami di facciata, il Re si trovò forzato a quell’imbarco notturno a Ortona che l’avrebbe condotto a Brindisi? Agì insomma in stato di necessità?
Non sappiamo cosa ne dedusse il Buscaglia, e comunque quel che fece o tentò di fare dovrebbe chiarire agli occhi dello storico qual era il suo reale stato d’animo in quegli amari frangenti, contrariamente a chi ha insistito a presentarlo come un convinto cobelligerante dell’ex nemico, la cui entusiasta cobelligeranza durò peraltro soltanto due mesi: un po’ poco per essersi indiscutibilmente votato alla nuova causa. A questo proposito, non credo fosse farina del suo sacco l’Indirizzo del maggiore Emanuele Buscaglia agli aviatori repubblicani, un appello scritto in cui il Buscaglia avrebbe esortato, usando il linguaggio tipico della retorica antifascista che non poteva essergli così congeniale, i compagni che erano al Nord a disertare, fuggire al Sud, distruggere gli apparecchi, sabotare e recar danno in qualunque modo ai nazi-fascisti oppure darsi alla macchia unendosi ai patrioti (i partigiani), non solo per il contenuto radicalmente di parte, scontato e iterativo, debordante di frasi e termini tipici del linguaggio antifascista che non potevano essergli così congeniali, ma soprattutto perché tale appello non è né firmato né datato, il che già lo pone in forte sospetto di falsificazione: più probabile invece esso sia stato scritto dall’ex nemico che lo presentò al Buscaglia esortandolo a firmare, e, al rifiuto di quest’ultimo, non potè ovviamente divulgarlo, venendo così a mancare gli effetti di forte ridondanza che avrebbe suscitato. Ritengo infatti che il Buscaglia avesse altro per la testa che infliggere “lavate di capo” agli aviatori della Repubblica Sociale suoi cari ex colleghi. E’ chiaro dunque che il fantomatico appello non è firmato semplicemente perché il Buscaglia si rifiutò di firmare.
Abbattuto psicologicamente e fisicamente (aveva iniziato a bere), e sicuramente sorvegliato, guardato con diffidenza e preoccupazione dagli altri aviatori e da uno in particolare di cui non faccio il nome perché immagino siano in vita i suoi discendenti, il quale a suo tempo era stato come lui un valoroso pilota pluridecorato ma dopo l’8 settembre si era trasformato in un perfetto cavalier servente dell’ex nemico e fors’anche in una sorta di guardiano dei compagni di cui riferiva commenti non troppo lusinghieri e stati d’animo tutt’altro che lieti, un giorno, approfittando della pausa pranzo quando sulla pista dell'aeroporto non c'era nessuno, il Buscaglia s'infilò furtivamente dentro uno degli aerei americani Baltimore a disposizione e in bella vista nel campo d'aviazione provvisorio di Campo Vesuvio presso Ottaviano (Napoli) che sarebbero serviti soprattutto per dare man forte ai partigiani titini per bombardare l’Istria, Fiume e la Dalmazia, ma non fece a tempo a librarsi in volo, che vuoi per le sue condizioni psicofisiche non buone, vuoi perchè si trattava di aerei sui quali aveva da poco iniziato l'addestramento, vuoi perché quella pista di fortuna era assai pericolosa, perse il controllo, finì fuori strada e l'apparecchio, dopo aver violentemente sbattuto contro gli alberi, s'incendiò: morì il giorno dopo, il 24 agosto 1944, all'ospedale di Nola, con molta probabilità per le tremende ustioni riportate, o, come ha detto qualcuno, a causa delle fratture, visto che, nell’urto, era stato con veemenza sbalzato fuori dal velivolo.
Ebbene, questo fatto fu interpretato dai due opposti schieramenti -quello della Repubblica Sociale e quello del Regno del Sud- in modo diametralmente opposto: i suoi ex compagni che erano al Nord e tanto bene lo conoscevano, non ebbero dubbi nel giudicarlo come un disperato tentativo di fuga per raggiungerli, mentre la storiografia antifascista da subito lo presentò come un increscioso incidente causato dalla sfrontatezza orgogliosa di Buscaglia il quale, impaziente com’era di combattere per la giusta causa, voleva fare il fenomeno dimostrando a tutti che, nonostante il divieto dei superiori, lui sapeva pilotare gli aerei americani anche senza l’adeguato addestramento, aggiungendo che indossava la canottiera, i pantaloncini corti e le ciabatte, e pertanto, se avesse voluto fuggire, si sarebbe come minimo vestito adeguatamente. Può darsi. Ma non penso che il vestire in quei frangenti fosse la prima preoccupazione di un uomo abbattuto, che si sentiva offeso, umiliato, impossibilitato a reagire, e aveva visto sfumare al vento i sacrifici di una vita e la sua fede, mentre ritengo che una persona disperata che non aveva più niente da perdere e più nulla in cui credere, poteva arrischiarsi a fare questo ed altro. E, posto che era tutt'altro che facile fuggire al Nord ed eludere la sorveglianza, il mio parere personale è che egli fin dal suo ritorno in Italia studiasse il modo di raggiungere i suoi compagni al Nord, ma, proprio perchè la cosa era tutt'altro che fattibile, alla fine, spazientito, stanco ed esasperato, profittando della calma dell’ora dei pasti quando nessuno poteva fermarlo, con un gesto d’impeto sia salito su quell'aereo americano che non aveva mai guidato e con cui sarebbe dovuto andare tutto felice e contento a bombardare il nostro confine orientale al servizio di Tito, dicendo a sé stesso “o la va o la spacca!”. Senza escludere che poteva trattarsi anche di una consapevole volontà di farla finita, cioè di un lucido suicidio, il che, tenuto conto che era rientrato in Italia solo da due mesi, può risultare plausibile.
Come si vede, la vicenda di Buscaglia presenta inquietanti analogie con quella di Carlo Fecia di Cossato, il cui suicidio avvenne proprio pochi giorni dopo la tragica morte del primo. Entrambi personaggi scomodi che causavano problemi alla narrativa piana e liscia dell’8 settembre cui tutti dovevano pedissequamente assuefarsi in qualità di sottoposti, accettando senza fiatare di piegarsi a qualsiasi ordine anche se palesemente contrario agli interessi nazionali, entrambi uscirono provvidenzialmente di scena prima che potessero causare guai maggiori a causa della loro alta fama, mentre di altri militari non così famosi ben poco si sa e si è potuto sapere, se non che con molta più facilità e in sordina poterono essere incarcerati, minacciati, redarguiti e insomma messi a tacere, quando non spediti nel grande campo di concentramento di Padula in provincia di Salerno, un’antica abbazia certosina malridotta e dismessa che cominciò a funzionare alla grande all’indomani dell’armistizio come campo di detenzione non solo per fascisti, ma per dissidenti o presunti tali di qualunque specie, donne e ragazzini compresi, cioè per chiunque intralciasse la strada tracciata dall’8 settembre, fossero anche partigiani e perfino ebrei. E nell’Italia meridionale soprattutto, ove l’attaccamento al regime fascista era ancora piuttosto forte tanto che, dalla Sicilia alla Campania erano sorte cellule clandestine in contatto con la RSI, e dove migliaia di militari sbandati vagarono per giorni nelle campagne in preda alla costernazione e alla rabbia per la firma della resa incondizionata, il materiale umano per riempire la capiente Certosa di Padula ove molti morirono per le pessime condizioni detentive, freddo, fame e malattie, certo non mancava.
Vi finirono, fra i tanti, i coraggiosi principi Valerio e Maria Pignatelli cui ho accennato nella 1a parte, e nientemeno il nipote di Garibaldi, Ezio, figlio del figlio quartogenito dell’eroe, Ricciotti, e della sua moglie inglese Constance Hopcraft alla quale fu risparmiato quest’affronto, essendo morta nel 1941. Vi finì anche l’illustre professor Orazio Condorelli, insigne giurista autore di testi di studio e pubblicazioni a tutt’oggi note agli addetti ai lavori e rettore dell’Università di Catania, allora una delle più prestigiose d’Italia assieme a quella di Palermo. Rifiutatosi risolutamente di collaborare con gli occupanti e tantomeno di “giurare fedeltà al Re Giorgio VI” com’era richiesto altezzosamente dagli inglesi, venne arrestato nell’agosto 1943 immediatamente all’indomani dell’arrivo degli inglesi in una città che aveva eroicamente resistito sotto i più terribili bombardamenti sperando nella riscossa. Costretto a vedere il suo prestigioso Ateneo trasformato in un bordello, e forzato a spazzare la strada davanti ad esso tra gli insulti e le risate, venne anch’egli internato nella Certosa di Padula dove ne patì di tutti i colori assieme a migliaia e migliaia d’altri, in gran parte meridionali. Forse per questo e per il suo carattere integerrimo, venne comunque in seguito chiamato a far parte dell’Assemblea Costituente e godè sempre di rispetto e stima nonostante i suoi sentimenti monarchici e la sua convinta adesione al Fascismo al cui partito si era iscritto fin dal 1925.
Come si vede, i fondatori della nostra Repubblica, ivi compreso Togliatti, a un certo punto della delicata situazione in cui versava un Paese come l’Italia che aveva aderito quasi all’unanimità al regime fascista con entusiasmo e fede in quella Vittoria finale sempre promessa dal Duce fino al marzo 1945, dovettero realisticamente convenire che i frutti perversi della “resa dei conti” che rischiava di non risolversi mai e stava diventando un bagno di sangue, avrebbero aggravato la spaccatura degli italiani rischiando di rendere irrimediabile la divisione del Paese fino a ridurlo ingovernabile, una sorta di polveriera, il che naturalmente non si poteva permettere, e neanche gli anglo-americani e i sovietici volevano. Perciò si arrivò al punto che le violenze contro i fascisti non furono più tollerate dal nuovo ordine costituito e s’intese ristabilire la legalità anche nei confronti di molti processi affrettati e arbitrari quali si erano svolti dapprima davanti a improvvisati “tribunali partigiani”, e poi a centinaia davanti ai Tribunali straordinari e alle Corti d’assise straordinarie all’uopo costituite, basati su istruttorie non di rado sommarie e prive delle garanzia della difesa, quando non su testimonianze inaffidabili, dettate da semplice odio, fanatismo e dall’ira del momento, dunque al di fuori dei normali criteri di legge.
Il nuovo potere subentrante al Fascismo, perciò, dopo aver in un primo tempo lasciato correre tollerando arbitri e violenze di ogni genere, si pensi anche al campo di concentramento di Coltano in provincia di Pisa contro cui insorse l’Arcivescovo in persona rivolgendosi direttamente all’allora presidente del Consiglio Ferruccio Parri, dopo aver proclamato ai 4 venti che “l’esecrazione dei fascisti doveva andare oltre la tomba,” dopo aver minacciato mari e monti contro di essi ed annunciato che avrebbe istituito a Roma una mostra permanente sui loro crimini ad ammaestramento delle future generazioni, visti i disastri e i rischi che si profilavano lungo questa strada, maturò la saggia decisione che su quella china non si andava da nessuna parte e si rischiava anzi di precipitare, la Repubblica rischiava di precipitare, e perciò fece decisamente marcia indietro. Il cosiddetto “armadio della vergogna”, il cui ritrovamento nel 1994 tanto scalpore suscitò, fu una di queste conseguenze, così come quella d’inserire gli ex fascisti in un partito che si riconoscesse nella legalità parlamentare e nelle nuove istituzioni. Non furono dunque i fascisti a girare il fantomatico armadio contro il muro e chiuderlo a chiave, sotterrando le documentazioni ivi contenute relative a tutta quella serie di eccidi che vanno da Sant’Anna di Stazzema a Borgo Ticino, da Vallucciole a Sabbiuno, eccetera, intorno ai quali la Procura Militare aveva certamente indagato, ma fu il nuovo potere, addivenuto evidentemente alla realistica conclusione che ricominciare significava anche cercare di riunire piuttosto che dividere, gettare acqua sul fuoco, saper mettersi dietro le spalle il passato e voltare pagina. Ci sono riusciti solo in parte, ma sicuramente quella parte ha permesso all’Italia di rialzarsi, se pur acciaccata, e riprendere il cammino, pur portandosi dentro tanti carichi pendenti e nodi irrisolti.


Nell'immagine, l'asso della Regia Aeronautica, Carlo Emanuele Buscaglia.

Documento inserito il: 23/09/2024
  • TAG: 8 settembre 1943, armistizio, Regia Aeronautica, Carlo Emanuele Buscaglia, Pietro Badoglio, Vittorio Emanuele III

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