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Ribellarsi all'8 Settembre

di Maria Cipriano


Accadde l’8 settembre del 1943: fu il cosiddetto armistizio, il più importante quanto controverso spartiacque della nostra Storia recente. Tutto era fuorché un armistizio, ma l’eufemismo funzionò così bene che nell’immaginario collettivo esso è ancora percepito come una sorta di approdo di salvezza, una data positiva, quantomeno un male necessario per “far uscire l’Italia dalla guerra” così come promettevano i suoi zelanti promotori e fautori, molti in buona fede, i quali altresì assicuravano fantomatici trattamenti di favore da parte degli ex nemici. In realtà si trattava di una resa incondizionata con ribaltamento di fronte che fece continuare la guerra peggio di prima portandoci direttamente dentro casa i tedeschi incattiviti e la guerra campale, le violenze assommate insieme sia dei tedeschi come degli anglo-americani, moltiplicando i bombardamenti di questi ultimi sulle città, le distruzioni, la morte, le violente rappresaglie teutoniche, la disperazione, disillusione e smarrimento degli italiani. Infine ci portò le XI parti del Trattato di pace concluso a Parigi il 10 febbraio 1947, di fronte a cui Benedetto Croce, e non lui solo, stracciandosi le vesti in Parlamento, gridò che non bisognava firmarle dopo che si era fatto di tutto per arrivare a quella firma, a partire dalle 44 clausole dell’armistizio cosiddetto “lungo”, sottoscritto da Badoglio il 29 settembre 1943 a bordo della corazzata Nelson a Malta. Troppo tardi, dunque. Si racconta che Enrico De Nicola, che era stato eletto Capo provvisorio dello Stato il 28 giugno 1946, buttasse per aria i fogli che gli erano stati consegnati del trattato di pace, rifiutandosi di firmare. E però li dovette firmare lo stesso, anche se non di venerdì per scaramanzia (era napoletano), e comunque era troppo tardi.
Da sempre insegnato a scuola come una tiritera, una sorta di scorrevole filastrocca da ripetere quasi a memoria senza riflettere, il cosiddetto armistizio dell’8 settembre che non è altro che l’anticamera del trattato di pace di cui sopra, viene puntualmente somministrato in modo acritico e preconfezionato pur trattandosi di un evento costellato di stranezze e cose che non tornano, ma, presentato come un che di assolutamente scontato e intoccabile, non sviluppa né può sviluppare tantomeno nei giovani nessun impulso ad approfondire, nessuna valutazione autonoma, nessuna osservazione critica, e tantomeno i dubbi. La nostra Repubblica è precisamente figlia di questo 8 settembre, e si vede. Perciò esso è così sacro e inviolabile, inamovibile ed eterno, una sorta di assioma indiscutibile di cui vanno accettati senza batter ciglio tutti i passaggi e i dogmi così come ci sono stati scodellati e ripetuti con ossessiva pedanteria. Oramai però se ne parla sempre meno, il tempo è galantuomo, quei brutti tempi con le loro complicazioni che è meglio non rivangare si allontanano da noi come le galassie, c’è altro a cui pensare, e dunque l’ultima ricorrenza nel 2023 è passata sotto silenzio, e del resto avremmo sentito ripetere per l’ennesima volta la solita solfa: la fuga ignominiosa del Re e dei suoi (presentati regolarmente come felloni, incapaci, vigliacchi, bugiardi, atterriti dai tedeschi), l’armistizio “corto” firmato di nascosto il 3 settembre, l’annuncio a sorpresa di Eisenhower il giorno 8, quello di Badoglio ai microfoni dell’Eiar poco dopo, il mancato aviosbarco anglo-americano nei pressi di Roma per colpa dei nostri, le bugie ai tedeschi sciorinate a voce e per telefono dal generale Roatta e da Badoglio i quali negarono recisamente fosse stato concluso un armistizio o stesse per concludersi, l’arrivo a Brindisi il giorno 10 settembre dei pavidi fuggiaschi, la moglie dell’ammiraglio Rubartelli che riceve la regina in vestaglia con un buffo inchino assonnato perché svegliata dal sonnellino pomeridiano, il cambio di campo strombazzato con tanto di annunci e dichiarazione di guerra alla Germania: insomma lo “sporco affare”, come lo definì Eisenhower, sul reale significato della cui espressione i nostri storici avrebbero fatto meglio a soffermarsi. Siamo sicuri che fummo noi a “sporcare l’affare” e non invece loro? Si aveva infatti a che fare con un nemico abile e astuto la cui Intelligence lavorava a tempo pieno, non con un chi qualsiasi.
Forse i fatti non furono così semplicistici come ci sono stati raccontati per decenni. Forse andrebbero riveduti e corretti taluni passaggi indiscussi di questa narrazione data per inoppugnabile anche se inoppugnabile non è; e per inciso la signora Irma Rubartelli negò sempre di aver ricevuto la Regina in vestaglia, e tantomeno di averla ricevuta assonnata a causa del riposino pomeridiano: ma purtroppo le fandonie servono proprio a nascondere la verità, e se si mentì su di un particolare così secondario, perché non anche su cose più importanti? Senza dire che la Germania si rifiutò di accettare la dichiarazione di guerra e i funzionari a cui fu recapitata neanche vollero prendere in mano la busta che la conteneva.
Non tutti obbedirono all’armistizio correndo felici e contenti dagli Alleati come ha narrato a suo tempo di sé stesso, facendone motivo di gran merito, un alto funzionario dello Stato; e per quanto si possano e si debbano senz’altro ringraziare gli anglo-americani per aver vinto il nazismo nell’Europa occidentale con il sacrificio di tanti loro ragazzi e recuperato non so quante opere d’arte rubate dai nazisti ai musei di tutta Europa, senza dire delle amorevoli cure prestate ai sopravvissuti ai lager, ampiamente riferite da quei poveretti, ciò non toglie che, considerata la posizione tutta particolare in cui l’Italia fin dall’inizio si trovava, ben diversa da quella dei Paesi invasi dalla Germania, sia necessario chiarire alcuni punti sotto il profilo storico dati per buoni fin qui dalla vulgata corrente, la quale ha ristretto la disobbedienza a un manipolo di fascisti irriducibili che non volevano mollare e per questo seguirono fanaticamente Mussolini, mentre in realtà moltissimi italiani s’indignarono alla resa incondizionata, confidando nella ripresa del nostro esercito e incitando alla riscossa nazionale. Inizialmente, infatti, la Repubblica Sociale registrò una base popolare piuttosto ampia perfino in Emilia Romagna, e fu solo col passare dei mesi che la partecipazione via via calò fino a crollare del tutto di fronte al peggiorare della situazione e allo sgretolarsi definitivo della speranza nelle famose “armi segrete” di cui il Duce continuò inspiegabilmente a parlare fino al marzo 1945.
Ma guardiamo a coloro che invece obbedirono all’armistizio, dunque furono traghettati nel Regno del Sud ove gli Alleati dettavano legge, e il Re e Badoglio erano poco più che due controfigure: la maggior parte lo fece per obbedire al Re, semplicemente. Anzi, molti militari confessarono apertamente di non aver capito nulla di come si erano svolti i fatti, ma di aver semplicemente obbedito a Sua Maestà in quanto l’armistizio era stato presentato precisamente in tal modo ai militari, come un preciso ordine del Re per salvare il Paese, la Corona, la flotta, e quant’altro: diversamente, è chiaro che nessuno avrebbe obbedito, tantomeno i membri delle Forze Armate. Senonché qualcosa non quadrava in tutta la costruzione, e se l’ammiraglio Franco Garofalo a fine guerra presentò un questionario direttamente a Sua Maestà in cui gli chiedeva di chiarire i fatti (che in realtà non furono mai chiariti), ci fu chi reagì prima, intuendo che c’era qualcosa che non quadrava. Parlo del caso che fece più scalpore, quello di Carlo Alberto Fecia di Cossato, il “corsaro dell’Atlantico”, l’asso pluridecorato dei sommergibili (insignito anche di una croce di ferro di prima classe tedesca e due di seconda classe) al comando dei quali aveva affondato navi nemiche e abbattuto aerei giungendo fin sotto le coste americane. Romano di nascita, piemontese di origine, la sua posizione, la sua fama, il suo nome, la stima unanime di cui era circondato, fecero schizzare in primo piano la sua ribellione, che scatenò lì per lì un terremoto nella Marina militare, a quel tempo comandata, precisamente dal 25 luglio 1943 data della destituzione di Mussolini, dall’ammiraglio Raffaele De Courten, il quale a mio parere, proprio per i chiaroscuri che ne avvolgono la persona, è stato il vero esecutore se non la vera eminenza grigia dell’armistizio. Probabilmente la sua famiglia di tradizione decisamente anti-risorgimentale - il nonno svizzero era stato un nemico dell’Unità d’Italia e un sostenitore de iure et de facto del Papa - non c’entra nulla, ma viene naturale metterla a confronto con quella Risorgimentale garibaldina dell’ammiraglio Carlo Bergamini che dall’aprile 1943 comandava la nostra flotta navale da battaglia ancora pressoché intatta e perfettamente in grado di combattere, e aveva dichiarato che mai e poi mai si sarebbe arreso, preparandosi a dare battaglia nel Tirreno agli angloamericani nell’attacco previsto per il 9 settembre, la cosiddetta “ultima battaglia”: un attacco che non avvenne mai. Indipendentemente dal suo esito prettamente militare, infatti, questa ultima battaglia era importantissima in quanto avrebbe mutato per non dire ribaltato la posizione dell’Italia che sarebbe parsa coram populo nel pieno diritto di difendersi dall’invasore, e difendersi fino alla morte, emula dell’Italia del Piave e come allora unita attorno al Re, pertanto facendo crollare il superiore manto ideologico-politico di cui erano investiti gli invasori stessi. Precisamente questo era lo stato d’animo di Bergamini e dei suoi uomini: difendere la Patria dall’invasore. Il giorno 8 settembre tutto era pronto a La Spezia per la partenza, i marinai con lo spirito più alto, impazienti di combattere, quando, guarda caso sul più bello, venne annunciato l’armistizio alla radio.
Ma torniamo all’eroe Carlo Fecia di Cossato: se in un primo momento egli aveva obbedito, convinto e rassicurato come tutti che bisognava compiere questo sacrificio per salvare il Re, la Patria, l’Esercito e la flotta, e dunque cominciò lui pure a sparare a tutto spiano addosso agli ex camerati tedeschi, poi, passati alcuni mesi tormentati fra rimuginamenti, rimorsi e dubbi, mentre vedeva con sommo sconcerto gli angloamericani spadroneggiare a destra e a manca tra continue umiliazioni e imposizioni ai nostri, degrado verticale dei costumi e prostituzione galoppante, scritte in inglese talvolta anche ingiuriose disseminate qui e là, e quant’altro, non tardò ad accorgersi dell’inganno, specie quando la flotta fu consegnata placidamente al nemico, nonostante allo stesso ammiraglio Bergamini fossero state date dallo stesso De Courten assicurazioni contrarie: altro che salvarla. In quell’occasione, indignato, il di Cossato ordinò al suo reparto: “Se venisse confermato l’ordine di consegna, dovunque vi troviate lanciate tutti i vostri siluri e sparate tutti i colpi che avete a bordo contro le navi che vi stanno attorno, per rammentare agli anglo-americani che gli impegni vanno rispettati. Se alla fine siete ancora a galla, autoaffondatevi.” Ma oramai c’era ben poco da fare, e lo stesso comandante in capo della squadra sommergibili, il pluridecorato Antonio Legnani, anche lui ribellatosi da subito all’armistizio, era rimasto vittima di un incidente automobilistico assai sospetto che il figlio Emilio, lui pure nella Regia Marina e decorato di medaglia d’oro, imputò all’Intelligence nemica.
Ma la goccia che fece traboccare il vaso avvenne il 10 giugno 1944 quando in occasione della tradizionale festa della Marina, il serafico De Courten non nominò la persona del Re, mentre era giunta notizia che il nuovo governo antifascista presieduto da Bonomi si rifiutava di giurare fedeltà al Sovrano. Altro che salvare la monarchia. Indignato da tutto ciò e chieste invano spiegazioni ai superiori, il di Cossato, esasperato, si rifiutò decisamente di continuare a obbedire agli ordini, pertanto fu arrestato per “alta insubordinazione” e sbattuto dentro la fortezza di Taranto adibita a carcere militare. Quest’atto a dir poco imprudente del De Courten fece scatenare un ammutinamento tra i marinai, tanto che in una sola notte la città di Taranto venne tappezzata di scritte minacciose: “W il Re, abbasso De Courten”, mentre i marinai si rifiutavano in massa di uscire in mare. Bisognava pertanto liberarsi quanto prima di un ribelle pericoloso che già parlava ai 4 venti di tradimento e traditori. Forse temendo il peggio per lui, si fece provvidenzialmente avanti un caro amico del di Cossato, parimenti ufficiale di Marina, che si offrì di ospitarlo nella sua villa a Napoli per una lunga licenza “tranquillante”: Ettore Filo della Torre, di nobile famiglia partenopea. Ma anche a Napoli, com’era inevitabile, il ribelle di Cossato toccò con mano la situazione di una città ridotta ancor peggio di Taranto, fra loschi traffici, degrado, sporcizia, abbandono materiale e morale, dilagare della camorra, della prostituzione e del malaffare. Due città completamente abbrutite, irriconoscibili rispetto a pochi mesi prima, in una nazione smarrita, allo sbando e già tragicamente divisa.
Ebbene, ciò che sconcerta di più in tutta la vicenda è l’epilogo: il suicidio del Cossato avvenuto proprio in casa del caro amico, il quale raccontò che la sera del 27 agosto 1944, dopo cena, egli si alzò da tavola dicendo che non si sentiva bene, e, salito in camera, si sparò un colpo di rivoltella alla tempia dopo aver lasciato una lettera-confessione alla madre, scritta però diversi giorni prima, dunque si trattava di un suicidio premeditato. Certo fa specie che un tipo tenace e coraggioso come lui si desse così per vinto cedendo all’idea del suicidio che è di fatto una resa, e proprio in casa dell’ospitale amico, facendo saltar per aria dallo spavento tutti quanti pur se nella sua lettera si scusò per tale gesto. E poi come la pensava Ettore Filo della Torre sull’armistizio? La pensava anche lui allo stesso modo, o invece aveva tentato senza successo di dissuadere l’amico dall’insistere a porre in atto i suoi atteggiamenti di aperta opposizione e disobbedienza?
Ciò che si sa per certo è che il di Cossato, non dandosi pace, nei giorni precedenti aveva cercato a tutti i costi di fare qualcosa, chiedendo perfino un colloquio urgente con il principe Umberto, divenuto nel frattempo luogotenente del Regno, essendo il Re Vittorio Emanuele III relegato a villa Rosebery a Napoli da dove poteva uscire solo per andare a pescare, il quale principe ovviamente non poté riceverlo perché non era libero di muovere un dito senza l’avallo degli anglo-americani i quali, non fidandosi né di lui né di suo padre, sorvegliavano entrambi passo passo, anche se non è da escludere che Sua Altezza Reale il Principe, volendo, avrebbe potuto trovare un modo sotterraneo per conferire con il celebre personaggio, ben immaginando di cosa colui intendeva parlargli. Il di Cossato parimenti s’illuse di approcciare qualcuno della Marina con cui trovare un’eventuale comunanza di vedute, ma, presentatosi davanti al Circolo, gli fu interdetto malamente l’ingresso con scambio infelice di battute ostili a lui rivolte. La bella maschera dell’armistizio era caduta, e la cruda realtà del tradimento che proprio nella Marina aveva i suoi punti di forza, si scoperchiò del tutto a quell’eroe intemerato, il che fa pensare che, preso dalla disperazione e non vedendo via d’uscita al crollo di tutti i suoi ideali, decidesse per il gesto estremo del suicidio. Così infatti scrisse, tra l’altro, alla madre: “Siamo stati indegnamente traditi e abbiamo compiuto un gesto ignobile senza alcun risultato” “da mesi penso ai miei marinai che sono onorevolmente in fondo al mare e penso che il mio posto è con loro”.
Il principe Umberto, che non aveva potuto ricevere il di Cossato da vivo, lo ricevette invece da morto, curando personalmente in ogni minimo dettaglio il trasbordo della sua bara che doveva passare le linee trovandosi la sua famiglia a Bologna, cioè in territorio della Repubblica Sociale, il che il Principe poté eseguire in tutta tranquillità e senza disturbo, in quanto immaginiamo quale enorme sollievo l’uscita di scena di un personaggio così scomodo aveva cagionato ai fautori dell’armistizio dentro e fuori la Marina Militare, anche perché non era tutto così tranquillo come pareva: proprio a Napoli infatti, e non solo a Napoli, esistevano agguerrite cellule fasciste clandestine in contatto con la Repubblica Sociale, di cui se ne conosce principalmente una, giacché fu quella che l’Intelligence anglo-americana riuscì a sventare, smantellandola e arrestandone i capi, i principi Valerio e Maria Pignatelli, quest’ultima figlia di un ufficiale di Marina.
In effetti in molti si ribellarono o cercarono di ribellarsi all’8 settembre, né la Marina Militare, nel cui seno pur albergava l’idea del passaggio al nemico, poteva fare eccezione. Non credo che i marinai di ogni ordine e grado, pur nella gran confusione creatasi con l’annuncio dell’8 settembre che piovve come un fulmine a ciel sereno sulle teste di tutti, tranne di quei pochissimi che l’avevano orchestrato di concerto con il nemico, fossero tutti quanti d’accordo nell’obbedire a ordini inaccettabili come quello di consegnare la flotta con gli umilianti segnali di resa ben in vista così come ordinato da De Courten: alzare il pennello nero sugli alberi maestri e dipingere i cerchioni neri sulle prue. Una mortificazione del tutto ingiustificata e senza precedenti per una flotta che stava per prepararsi animosamente e con lo spirito più alto all’ultima battaglia, e fino a quel momento non era stata battuta né sconfitta da nessuno, tant’è che risultava ancora pressoché intatta. Pare impossibile dunque che non abbia ingenerato una sana ribellione quel contrordine piovuto come una doccia gelata sulle teste di chi con l’animo pronto e fremente si apprestava a misurarsi fino all’estremo sacrificio in quello che sarebbe stato un duello mortale con gli anglo-americani nel Mar Tirreno ove quelli stavano per effettuare lo sbarco a Salerno il 9 settembre. Un duello mortale, certo: ne era perfettamente consapevole quanto gli altri il capitano di vascello Adone del Cima, comandante della corazzata Roma, la nave ammiraglia della flotta, il quale l’8 settembre nella sua lettera alla madre aveva vergato l’estremo drammatico e fiero addio, di chi per l’appunto si appresta a morire per la Patria. Ma non ci fu nessun duello mortale: dopo il fatidico annuncio del cosiddetto armistizio, la flotta agli ordini di Bergamini salpò da La Spezia non si comprende ancora oggi con quali reali intenzioni, e si diresse non già verso Malta o altro porto similare dove secondo le clausole le nostre navi avrebbero dovuto recarsi per “riparare” presso un ex nemico presunto accogliente e benevolo, ma verso l’arcipelago della Maddalena, proprio laddove avrebbe dovuto invece recarsi il Re proprio quel giorno 9 settembre in previsione dell’ultima battaglia che avrebbe salvato la reputazione del Paese, ma sulla quale si sovrappose, prevenendola, l’annuncio dell’armistizio. Il mio modesto parere è che il Bergamini intendesse recarsi alla Maddalena proprio pensando ivi giungesse anche il Re com’era programmato, onde ricevere da lui direttamente gli ordini.
A questo punto i fatti s’ingarbugliano, comprese le testimonianze, e si perde il filo in minuziosi resoconti che non chiariscono ed anzi sviano dal problema di fondo, che è ciò che veramente importa e deve importare. A questo proposito si scontrano due teorie: quella del Regno del Sud secondo cui l’adamantino ammiraglio Bergamini, pur dopo le iniziali titubanze e rimostranze, si piegò infine agli ordini telefonici di De Courten di eseguire scrupolosamente le clausole armistiziali, convintosi finalmente che il placido veleggiare incontro all’ex nemico con cui si era aspramente combattuto per tre lunghi anni di guerra e che era ovviamente ansioso di farla pagare all’Italia, si traducesse in una effettiva salvezza della nostra flotta dalle grinfie dei tedeschi, e quella della Repubblica Sociale, secondo cui invece il prode ammiraglio, avendo intuito che non si trattava di un veleggiare verso la salvezza bensì di una consegna umiliante dell’intera flotta che infatti sarebbe poi remissivamente sfilata davanti ai marinai avversari trionfanti come se questi l’avessero sconfitta, e dipoi internata in parte ai Laghi Amari in nord Africa (mai nome fu più appropriato) e in parte usata con termine eufemistico come cobelligerante, e infine più o meno spartita fra i vincitori o comunque demolita, disobbedì o cercò disperatamente di farlo, ma purtroppo fu affondato in mezzo al mare nel nord-ovest della Sardegna dagli aerei tedeschi decollati da una vicina base francese che sganciarono bombe radiocomandate che causarono l’affondamento della corazzata Roma e la morte di oltre 1500 uomini, compreso l’ammiraglio Bergamini medesimo. I nostri ex alleati, già ossessionati dall’idea del tradimento ancor prima dell’8 settembre, evidentemente convinti che la nostra flotta fosse avviata su quella strada ancor prima di appurare che veramente lo fosse, imbevuti com’erano di diffidenze nei nostri riguardi, erano così sospettosi che avrebbero creduto senza esitazione a chiunque gli avesse anche solo sussurrato all’orecchio che Bergamini stava andando a consegnarsi al nemico.
Dopo tale disastro che fu secondo solo a quello ancor più tragico di Cefalonia, il comando della nostra flotta così proditoriamente colpita venne assunto dall’ammiraglio di divisione Romeo Oliva in quanto ufficiale superstite di grado più elevato, il quale, nonostante ulteriori proteste degli uomini che evidentemente erano riluttanti a obbedire all’armistizio il che rafforza la tesi che a maggior ragione lo fosse il defunto loro comandante Bergamini, finì volente o nolente per ottemperare agli ordini di Supermarina di fare rotta verso Bona in Tunisia incontro all’ex nemico, e così si chiuse il brutto cerchio che finì definitivamente di chiudersi con un sigillo ancor più brutto il 10 febbraio 1947, il giorno del Trattato di pace, che penalizzò in cima a tutti proprio la Regia Marina: quella che aveva compiuto l’amaro sacrificio di obbedire alle clausole dell’armistizio perché questo aveva ordinato il Re. Un Re a cui solo pochi mesi dopo sarebbe stato rifiutato dal nuovo governo il giuramento di fedeltà.
In ogni modo, comunque andarono le cose, alla domanda se tutti gli italiani, in particolare i marinai, furono d’accordo con l’armistizio, la risposta è NO, non lo furono, anche se non tutti si ribellarono apertamente, è ovvio, anche perché la ribellione, come abbiamo visto, in particolare per i militari si traduceva in un concreto e imminente rischio e pericolo che avrebbe compromesso anche il futuro oltreché il presente, e comunque non c’erano tante alternative: e nonostante ciò non pochi, invece di chinare la testa e rassegnarsi, si ribellarono o cercarono di farlo. E la vicenda di Carlo Fecia di Cossato lo dimostra.


Nell'immagine, il pluridecorato Carlo Fecia di Cossato, il Corsaro dell'Atlantico.

Documento inserito il: 16/02/2024
  • TAG: armistizio, 8 settembre 1943, Carlo Fecia di Cossato, Carlo Bergamini, Antonio Legnani, Seconda Guerra Mondiale, Regia Marina, Ammiraglio De Courten

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