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Eroe e criminale di guerra? Il tragico destino del generale Bellomo

di Francesco Caldari


L'11 settembre 1945, alle 6 e 40 del mattino il Generale Nicola Bellomo affrontò il plotone di esecuzione inglese. C’è chi ritiene che quella fucilazione fu un delitto di Stato, poiché il primo ufficiale italiano condannato a morte da una corte marziale alleata, avrebbe così pagato il suo impegno nel difendere il porto della città di Bari dalla occupazione nazista, smascherando l’ignavia dai vertici fuggiti da Roma dopo l’8 settembre ‘43.

Militare “vecchio stampo”, antifascista di solida fede monarchica, congedato per limiti di età nel 1936 dopo una carriera passata nell’Esercito (nel quale si era peraltro distinto da capitano nel corso del Primo conflitto), allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale Bellomo era stato richiamato in servizio per fornire il proprio contributo nell’ambito della “difesa territoriale”. Aveva assunto il 26 febbraio 1941 con il grado di generale di brigata il comando della XII Zona della Milizia e del Presidio Militare di Bari, proprio nella città in cui era nato il 2 febbraio 1881.

Il proclama armistiziale del generale Badoglio dell’8 settembre 1943 sorprese gli italiani, anche per una certa ambiguità sul comportamento da tenersi verso l’ormai ex alleato germanico (“… le forze italiane … [cessando la belligeranza verso gli anglo-americani] reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”). Le truppe tedesche stanziate in Italia attuarono la già pianificata “Operazione Asse”, con obiettivo principale il disarmo dell'esercito e l’acquisizione ed il controllo del territorio per impedire agli Alleati di avanzare verso nord. L'operazione – che per altro comportò a conclusione la deportazione e l’internamento in Germania di oltre seicentomila soldati italiani – prevedeva l'occupazione di città strategiche, porti e infrastrutture vitali in tutta la penisola: anche Bari fu naturalmente oggetto delle attenzioni delle truppe tedesche. L’ importante città sul Mar Adriatico era un obiettivo di straordinario valore logistico per la sua posizione chiave nella rete di traffico e comunicazioni. La mattina del 9 settembre 1943 un nucleo motorizzato tedesco, con il pretesto di recuperare materiale bellico, si diresse al porto per assumerne il controllo e con tutta probabilità renderlo inservibile in vista di un eventuale sbarco alleato. I nazisti affondarono due piroscafi e si impadronirono di due batterie contraeree, insediandosi anche nel centro storico. Le Autorità militari italiane – cui come abbiamo detto non erano giunti ordini chiari su come comportarsi nei confronti degli ora ex alleati - rimasero inerti. Fu però Bellomo, che evidentemente ben aveva compreso l’importanza di non concedere lo strategico scalo, a porsi alla testa di un'ottantina di ex camicie nere, 15 finanzieri e 6 marinai, armati alla bene e meglio. Organizzò una controffensiva, che prese il via nel primo pomeriggio. Allo sparuto drappello si unirono alcuni fanti, un modesto distaccamento del genio militare e decine di adolescenti. Lo scontro ebbe il suo apice nello scalo, primario obiettivo dei nazisti, sino a quando nel tardo pomeriggio questi si videro costretti alla resa. Gli italiani contarono 6 morti ed 87 feriti, tra cui lo stesso Bellomo. La “battaglia del porto” consentì alla città di presentarsi libera agli Alleati quando questi sbarcarono il 18 e il 22 settembre. Bari si liberò autonomamente dell'occupazione tedesca, sancì l'inizio della Resistenza e dimostrò che gli italiani ben avrebbero potuto opporsi alle truppe germaniche se sostenuti da limpide direttive che lo prevedessero.

Quattro mesi più tardi, gli inglesi arrestarono Bellomo.

Per approfondirne il motivo dobbiamo tornare indietro, alla notte dal 10 all’11 febbraio 1941, nelle campagne irpine nei dintorni di Calitri. I commandos inglesi, operando in guerra il primo lancio di paracadutisti “dietro le linee nemiche”, attuarono l’Operazione Colossus, il cui scopo era quello di sabotare, demolendo alcuni piloni di un viadotto sul torrente Tragino, il canale adduttore principale dell'Acquedotto Pugliese, che riforniva d'acqua la Puglia ed i suoi porti strategici di Taranto, Brindisi e Bari. Due aerei dovevano inoltre essere utilizzati per un bombardamento diversivo sulla vicina Foggia. I 36 uomini comandati dal Maggiore Trevor Pritchard, convenzionalmente denominati X Troop, una volta conclusa l’operazione si sarebbero dovuti recare verso la costa pugliese, per esfiltrare a mezzo del sommergibile HMS Triumph partito dalla base navale di Malta. Seppure i commandos riuscirono a minare e far saltare alcune strutture, provocando danni che sarebbero risultati modesti, presto i militari italiani ed i carabinieri del posto si misero sulle tracce dei sabotatori. Fu lo stesso Bellomo, giunto da Bari, a guidare le ricerche, che ebbero esito positivo: in tre giorni furono catturati tutti. Erano accompagnati da un cittadino italiano, Fortunato Picchi, un antifascista toscano emigrato in Gran Bretagna ed arruolato in quelle forze armate: reclutato per l’operazione segreta data la sua conoscenza della lingua, sarà poi processato dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, condannato alla fucilazione e giustiziato il 6 aprile 1941. Gli altri furono rinchiusi nel Campo per prigionieri di guerra n. 75 di Torre Tresca nei pressi di Bari, che pure ricadeva sotto la responsabilità di Bellomo, il quale – per inciso – tenne come “trofeo di guerra” la pistola Colt Pocket 1903 del maggiore Pritchard.

Campo di prigionia di Torre Tresca, 30 novembre 1941: due prigionieri di guerra britannici della “X Troop”, il capitano George Playne e il tenente Roy Rostron Cooke, tentarono la fuga. Furono catturati e di lì a breve accadde l’episodio che sarebbe costato caro a Bellomo. Il generale – arrivato sul posto - pretese di conoscere come i due fossero riusciti ad evadere. Secondo quanto ricostruito, sul luogo da dove verosimilmente i due avevano scavalcato o comunque eluso la recinzione, la tensione si impennò. Gli italiani erano piuttosto nervosi, i due britannici non comprendevano le loro intimazioni. Playne e Cooke, temendo forse di essere giustiziati, corsero verso gli alberi, ai margini del campo. Bellomo allora ritenne che stessero tentando un’altra fuga. Ordinò: «fuoco». Gli italiani spararono. Rimase mortalmente ferito Playne, colpito da due proiettili, uno all'orecchio e uno alla nuca, ed anche Cooke riportò lesioni da arma da fuoco. Bellomo, responsabile del campo e più elevato in grado, all’inizio del 1942 fu sottoposto ad indagine per l'incidente. Due inchieste separate, condotte dalle autorità italiane per mezzo di distinte commissioni, la prima guidata dal generale De Biase e dal generale Adami-Rossi e la seconda dal solo De Biase, lo scagionarono.

Come scopriremo a breve, l’evento fu decisivo nel futuro destino di Bellomo, giacché gli costò un successivo processo – per lui fatale - da parte degli inglesi una volta giunti a Bari ed avuta notizia di quanto accaduto a Torre Tresca. Fu il primo dei quaranta condotti dai britannici per crimini di guerra nei confronti di italiani, ed uno dei primi tenuti in Europa. In tali procedimenti otto italiani furono condannati a morte: due furono giustiziati, le condanne di quattro furono commutate in ergastolo, altri due videro le loro pene sostituite rispettivamente in sette e 15 anni di reclusione.

È evidente che la lettura delle carte delle inchieste italiane sarebbe stata fondamentale per meglio chiarire gli accadimenti e supportare giuridicamente l’operato di Bellomo. Non a caso questo aspetto cruciale fu approfondito dai suoi figli, che cercarono di ottenere quei fascicoli una prima volta, allorquando gli inglesi aprirono il “loro” processo, ma – sorprendentemente –le carte risultarono introvabili.

Sollecitati da un esposto anonimo, sul cui autore successivamente gli storici si sono arrovellati, i britannici prima arrestarono Bellomo e poi imbastirono il processo per la morte di Playne e il ferimento di Cooke. Così colui che aveva servito agli Alleati integro e su “un piatto d’argento” il porto di Bari, ora da quegli stessi era posto dietro le sbarre.

L’accusa per il generale era di aver commesso un crimine di guerra, in violazione delle norme del Diritto Internazionale Umanitario. Secondo la Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra del 1929, i pow (prisoners of war, come vengono definiti nel diritto internazionale) catturati dopo un tentativo di fuga potevano essere posti sotto regime di sorveglianza, giudicati, e “il tentativo, anche in caso di recidiva, non sarà considerato una circostanza aggravante nel caso in cui il prigioniero di guerra venga deferito al tribunale per crimini o delitti contro persone o cose commessi nel corso di questo tentativo”. La forza poteva certo essere usata per trattenerli, ma nella misura necessaria per catturare il fuggiasco. L'apertura del fuoco per uccidere era quindi da considerarsi una misura eccessiva e vietata, a dispetto di quanto avevano giudicato le commissioni italiane che si erano interessate alla vicenda, scagionando il nostro generale. L'accusa sostenne che Bellomo sparò personalmente al Capitano Playne con la sua pistola, forse addirittura utilizzando quella conservata come “trofeo” appartenuta al maggiore Pritchard, a suo tempo catturato nei pressi di Calitri con gli altri commandos inglesi prigionieri. L’accusa si basava principalmente sulla testimonianza del Tenente Cooke, che inizialmente aveva scagionato Bellomo ma poi, poco prima del processo, cambiò versione. Bellomo negò sempre di aver sparato personalmente (“avevo dimenticato di abbassare la sicura e la pistola non funzionò”). La sua difesa si basò sulla confusione del momento, sostenendo che i soldati di guardia aprirono il fuoco quando i due prigionieri corsero verso gli alberi. Bellomo affermò di aver avvertito i prigionieri che stava per fare uso delle armi, e – in maniera vaga - che tale disposizione proveniva “da Roma”, nel senso che era da intendersi come una direttiva. Il Codice Penale Militare di Guerra italiano, entrato in vigore nel 1941, prevedeva sì al Capo V norme sui prigionieri di guerra, ma nulla riguardo ad eventuali tentativi di fuga. Ogni deliberazione ulteriore a riguardo, da qualsiasi livello gerarchico emessa, sarebbe andata contro le disposizioni internazionali dettate dalla Convenzione ginevrina, che l’Italia aveva reso esecutiva con un decreto datato 30 ottobre 1930.

Secondo quanti si sono occupati della vicenda, il processo, iniziato a Bari il 23 luglio 1945, fu tutt’altro che equo. Abbiamo detto della sparizione delle carte (comprese le testimonianze e gli altri atti fondamentali) delle due inchieste italiane. In più, non fu concesso a Bellomo di avvalersi di un difensore di fiducia. La Corte inoltre sarebbe ricorsa solo ad alcuni dei testimoni disponibili, escludendo quanti avrebbero potuto scagionare l’imputato. Non fu chiarito se ai due prigionieri alleati erano state legate le mani dietro la schiena, il che avrebbe reso impossibile il secondo tentativo di fuga. Non fu neanche trovata la cartella clinica di uno dei due nell’ospedale militare in cui era stato ricoverato e mancava la testimonianza della suora che aveva assistito i due militari inglesi. Alcuni testi che avevano deposto sull’innocenza cambiarono versione. Il più rilevante di questi, come detto, fu il capitano Cooke (nel frattempo promosso) che, pur avendo fornito in precedenza un resoconto favorevole, ritrattò, ed un mese prima dell’apertura del processo presentò una denuncia contro Bellomo. Nel suo interrogatorio al Generale, l’accusa, sostenuta dal pubblico ministero (pm) Gunning pose all'imputato una serie di domande volte a chiarire le sue azioni e la sua conoscenza delle leggi di guerra. Gunning chiese a Bellomo quale fosse la sua impressione negli istanti che precedettero la sparatoria. Questi rispose che aveva avuto la sensazione che i due prigionieri non avessero intenzione di rivelare da dove fossero fuggiti. Gunning interrogò Bellomo sulla sua conoscenza del codice militare di guerra, e in particolare sul divieto di sparare contro i prigionieri. Bellomo affermò di conoscere il codice: "lo so [che è vietato sparare contro i prigionieri senza intimazione]. Ma le disposizioni di sparare venivano da Roma". Il pm accusò allora Bellomo di essersi reso complice di una disposizione illegale. Bellomo si difese affermando che l'ordine sarebbe stato illegale solo se i prigionieri non fossero stati avvertiti. Gunning contestò la versione, affermando che il generale aveva ordinato di sparare sapendo che i prigionieri non avrebbero tentato la fuga. Bellomo negò questa accusa, dichiarando di aver visto chiaramente Playne avanzare di corsa e Cooke seguirlo dopo un attimo di indecisione. Il generale affermò di aver gridato "Attenzione, i prigionieri scappano!" e poi "Fuoco! Fuoco!" Il pm chiese a Bellomo chi avesse sparato e come. Bellomo dichiarò che spararono tutti i soldati. Il pubblico ministero considerò le dichiarazioni dell’imputato come un'ammissione di colpevolezza. La difesa, al contrario, sostenne che la responsabilità non era stata provata e chiese l'assoluzione. Dopo cinque giorni dal suo avvio, il processo si chiuse con la condanna a morte.

Il Generale fu trasportato sull’isola di Nisida, nel golfo di Napoli, e l’11 settembre 1945 fu fucilato. Recentemente sul luogo è stata posta una lapide commemorativa. Il suo contegno risultò inappuntabile: rinunciò a chiedere la grazia ed un mese e mezzo prima della sua esecuzione, scrisse un testamento morale alla moglie Lina e ai suoi quattro figli, Andrea, Elisabetta, Antonio e Barbara. Esprimendo serenità e accettazione del suo destino, dichiarava di avere la coscienza tranquilla e di presentarsi a Dio con il suo fardello di errori, eccessi e meriti. Chiese alla sua famiglia di non serbare rancore contro nessuno e di ricordarlo solo per il suo grande amore per la patria e per il suo attaccamento al dovere e all'onore militare. Riconobbe di aver commesso degli errori, sottolineando che li aveva sempre fatti in buona fede, credendo di agire per il meglio. Incoraggiava la sua famiglia a trarre insegnamento dalle sue disavventure, ispirando ogni loro azione alla tolleranza e alla bontà. Affermò infine che la sua morte non era la fine, ma una forma di sopravvivenza. Chiedendo ai suoi cari di non indossare il lutto per la sua morte, espresse il desiderio di essere sepolto nella cappella di famiglia a Bari, perdonando tutti e chiedendo perdono a tutti.

Il desiderio di Bellomo di riposare nella sua città per molto tempo non trovò realizzazione. Venne sepolto inizialmente nel penitenziario borbonico di Nisida e le sue spoglie furono trasferite solo dopo oltre trent'anni dalla sua fucilazione. Nel 1976, dopo una lunga traversia patita dalla famiglia, furono infatti finalmente traslate a Bari e tumulate in un'urna di marmo rosso nel chiostro del Sacrario militare dei Caduti d’Oltremare, così che oggi egli riposa accanto al Maggiore generale Allegro Pavia (alessandrino bi-medagliato durante la Prima guerra mondiale) e al Contrammiraglio Luigi Mascherpa (genovese difensore dell’isola di Lero dalla conquista nazista post 8 settembre), circondati dalle spoglie di oltre 74.000 caduti. Non lontano da loro, nel Cimitero di Guerra di Bari, riposa il Capitano George C. M. Playne, morto all’età di 24 anni, da Minchinhampton, Gloucestershire, Inghilterra.

Come abbiamo accennato all’inizio il triste destino di Bellomo ha richiamato l’attenzione di numerosi studiosi, non solo italiani. Le loro critiche si concentrano su diversi aspetti, tra cui la mancanza di prove concrete a sostegno dell'accusa, l'omissione di elementi a suo favore, l'influenza di interessi politico-militari sulla sentenza e la disparità di trattamento tra Bellomo e altri ufficiali, italiani e tedeschi, pure accusati di crimini di guerra: le condanne a morte emesse dalle Corti Militari alleate nei confronti dei generali nazisti Kesselring, Maeltzer e Mackensen (responsabili di un gran numero di stragi di civili) furono commutate. Su questo punto la Relazione di minoranza della Commissione Parlamentare d’Inchiesta del Parlamento italiano sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, che si è occupata a margine del “caso Bellomo”, non esita a segnalare come se ne tragga “la sensazione che le uccisioni di prigionieri di guerra alleati fossero considerate senz’altro più gravi delle uccisioni anche in massa di civili estranei alle operazioni militari e cioè di persone che erano “solo” cittadini italiani”. Peter Tompkins (durante la guerra aveva diretto la sezione romana dell’Office of Strategic Services, il servizio di spionaggio americano dalle cui ceneri nacque la Cia), nel suo libro "Italy Betrayed" (1966) sostiene che la corte britannica fu tratta in inganno da Badoglio e da agenti monarchici che, in segreto, falsificarono prove per favorire la condanna di Bellomo, considerato una minaccia per il re e per Badoglio stesso, dopo l’8 settembre rifugiatisi a Brindisi, in quanto “combatté i tedeschi e mantenne la città di Bari fino all’arrivo degli Alleati, [e] rappresentava una minaccia per il re e per Badoglio, perché rivelava al mondo lo squallore del loro tradimento”. Gianni Di Giovanni, nel suo "Bellomo, un delitto di Stato" (1970), definisce il processo una farsa. Fiorella Bianco, a proposito delle difficoltà incontrate dai figli del Generale per ottenere i documenti che avrebbero potuto scagionare il padre, ne "Il caso Bellomo" (1995) descrive le ricerche. Nomi e cognomi, e relative ricompense per aver cambiato versione nel processo, sono riportati nel libro “Il generale Bellomo” di Federico Pirro del 2004. Non manca (Luca Marini, 2020) chi asserisce che “la testa” del generale Bellomo sia stata offerta agli Alleati allo scopo di evitare - come effettivamente accadde - una Norimberga nostrana.

Poiché la sentenza alleata non fu mai ratificata dalla magistratura militare italiana, Bellomo fu considerato un caduto in guerra. Il 21 aprile 1951 per la difesa del porto di Bari gli fu concessa la Medaglia d’Argento al Valor Militare, con la seguente motivazione: “Avuto sentore che nuclei nemici avevano con azione fulminea attaccato gli impianti portuali per tentarne la distruzione, alla testa di pochi ardimentosi si lanciava all’attacco dell’avversario riuscendo a sconcertarne i piani. Ferito, organizzava un nuovo attacco. Lasciava poi il terreno della lotta, a seguito di nuova ferita e dopo il sopraggiungere dei rinforzi”.

La sua città non lo ha dimenticato, così come non ha dimenticato quanti, militari e civili e semplici adolescenti, ponendosi ai suoi comandi, salvaguardarono il porto dalla distruzione nazista, contendendolo metro per metro in un furioso combattimento - da cui i baresi uscirono vincitori - agli aggressori.


BIBLIOGRAFIA

P. Tompkins, Italy betrayed, Simon and Schuster, 1966;
G. Di Giovanni, Bellomo. Un Delitto di Stato, Aldo Palazzi Editore, 1970;
F. Bianco, Il caso Bellomo. Un generale condannato a morte (11 settembre 1945), Ugo Mursia Editore, 1995;
A cura di J. Carey, W. Dunlap, and Pritchard, International Humanitarian Law: Origins, Chapter 2. The British War Crimes Trials Of Suspected Italian War Criminals, 1945-1947 (Autore: Jane L. Garwood-Cutler), Brill | Nijhoff, 2003;
F. Pirro, I crimini di guerra dopo l'8 settembre 1943. Il Generale Bellomo liberò Bari dai tedeschi fu fucilato dagli inglesi, Nuova Palomar, 2024.



Raiplay, Passato e Presente, Il Generale Nicola Bellomo.


Nell'immagine il Generale Nicola Bellomo.
Documento inserito il: 06/11/2024
  • TAG: 8 settembre 1943, Seconda Guerra Mondiale, Battaglia di Bari, Crimini di Guerra, Prigionieri di Guerra, Operazione Colossus

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