Cookie Consent by Free Privacy Policy website Tutto storia, medio evo: Teologia e riflessioni economiche in Europa tra XI e XV secolo
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Teologia e riflessioni economiche in Europa tra XI e XV secolo [ di Monica Furlani Umer ]

A partire dall’ XI e fino al XIII secolo, nella nuova fase di sviluppo, la crescita economica movimentata nell’Europa occidentale, richiede un cambiamento nel modo di ragionare, di contare e di valutare cose e persone. La popolazione, raddoppia in Italia e in Francia, triplica in Inghilterra e in Germania, anche se in maniera insufficiente alle effettive necessità legate all’espansione delle terre coltivate(1). Si ampliano gli investimenti agricoli e commerciali, e circolano monete di bronzo e di argento, come il denarius di Carlo Magno con i due multipli, soldi e lire. L’oro non è stato più coniato a partire dall’VIII secolo, in quanto le autorità politiche non ritenevano necessaria una moneta forte e in caso di bisogno si usavano la moneta araba o quella bizantina(2). I centri di potere, le assemblee cittadine, i vescovi e gli abati, grazie all’acquisizione di una sempre maggiore autorità, pensano in termini monetari e ragionano con consapevolezza su cose e persone in modo nuovo. Tra tutti coloro che possiedono cospicui beni materiali, è uso considerare il valore della ricchezza come un bene necessariamente incrementabile, connotato da una identità santa. Nei monasteri, le autorità religiose ammoniscono gli amministratori, scrivono sulla loro rettitudine come persone in grado di tenere bene i conti, capaci di espandere i patrimoni grazie ad attività redditizie, in grado di tenersi distanti da quegli agi che si rivelano essere per lo più futili e pericolosi. Un teorico del potere pontificio come potere assoluto, Bernardo di Clairvaux, nella prima metà del XII secolo, richiama i signori territoriali a guardare con cura i propri conti e ricorda come accumulare denaro, senza farlo fruttare, identifica non solo l’avidità di un individuo ma conduce sulla strada della rovina economica e morale. Negli stessi anni, è stato Goffredo di Vendȏme, circa verso il 1120, a paragonare l’ostia consacrata a una moneta di conio eccellente. Era questa che rappresentava un valore di Salvezza e richiamava alla moneta come oggetto in grado di rimandare ad un concetto di valore. Una convinzione che nell’Occidente cristiano, è stata attestata a partire dal pensiero di Agostino che parla del sacrificio di Cristo in termini economici. La sua azione suprema è identificata dal prezzo di un riscatto e Cristo stesso è descritto come «mercante celeste» che compera la salvezza degli uomini a prezzo del Suo Corpo. Il linguaggio economico dell’Europa medievale, fatto di valore, prezzi e monete è, quindi, individuabile all’interno della stessa fede cristiana, con una connotazione assolutamente positiva(3). Di fatto, già verso il 1050, Pier Damiani con autorevolezza, afferma che il valore di un vescovo è visibile nella buona amministrazione della sua diocesi e lo paragona al bravo mercante che si mostra buon amministratore dei propri averi. Le competenze amministrative dei signori territoriali indicano l’abilità, l’industria, che deve essere fatta fruttare attraverso l’uso corretto del tempo, delle modalità e della conoscenza delle persone a cui vendere, comprare o regalare beni. Si parla, per tal motivo, di una necessaria quanto fruttuosa competenza gestionale della ricchezza. Si realizza così, da parte di tutta la comunità, dai monaci agli ecclesiastici colti come i contadini e i mercanti, un nuovo modo di concepire l’appartenenza alla società dei cristiani, la famiglia del popolo di Dio. Va ricordato che le economie preindustriali, nell’ambito della circolazione monetaria, sono state definite come economie dalla moneta difficile(4). Talvolta, nelle varie fasi economiche, la mancanza di moneta sul mercato diventa un fenomeno molto preoccupante. Con l’aumento di investimenti e di scambi, una volta che il mercato da locale si proietta sempre più all’esterno, per diventare mondiale, l’autorità politica è costretta non solo a coniare valuta, ma ad integrare la circolazione monetaria con l’introduzione sul mercato dei titoli di credito. In questo modo senza coniare moneta, si movimentano risorse economiche altrimenti bloccate.
A partire dall’XII secolo, fare affari, commerciare, diventa una vera e propria attività organizzata, strutturata su azioni di scambio i cui protagonisti, da una condizione giuridica e sociale alquanto ambigua e oscura, passano a diventare un gruppo elitario depositario degli equilibri economici e politici delle città. I mercanti, un tempo, identificati dalla teologia e dalla giurisprudenza, come pauperes perturbanti, cioè appartenenti a quella massa ambigua senza origine e identità ben definita, passano a operare come gruppo sociale di altissimo livello, caratterizzato da relazioni personali interfamiliari basate sull’affetto e sulla fiducia reciproca cittadina(5). Protagonisti di una cultura tecnica via via sempre più raffinata, i mercanti sono accettati tra i potenti e amati dai rappresentanti degli Ordini Minori e nello specifico dai francescani che si presentano attivi nella storia come un gruppo religioso élitario itinerante, capace di elaborare ragionamenti sulla scelta della povertà volontaria, intesa come condizione di assoluta moralità che costruisce una dimensione virtuosa, orientata verso la capacità di riconoscimento del valore reale delle cose, della consapevolezza dei propri bisogni e della pericolosità delle azioni economiche legate all’abitudine di accumulare e immobilizzare i beni, intesa come depauperamento della ricchezza e del benessere collettivo. Intellettuali francescani della levatura di Pietro di Giovanni Olivi e di Bernardino da Siena, elaborano discorsi economici profondamente coerenti, e analizzano l’arte della mercatura iuxta propria principia(6).
In un periodo molto lungo, i pilastri del pensiero economico francescano, basati sui significati delle scelte di povertà, inserite nelle regole di Francesco, stabiliscono con precisione, l’equilibrio dei rapporti da mantenere tra ricchezza e povertà. Si tratta di riflessioni che valutano la capacità di una gestione oculata, letta in una prospettiva di giusti e opportuni rapporti sociali ed affettivi. La riflessione economica dei Minori è molto attenta alla distinzione tra superfluo e necessario. Consapevoli di quanto fosse impossibile valutare la misura delle necessità individuali, analizzano il senso di termini come «uso», «proprietà» e «possesso» e valutano il modo di utilizzare denaro, merci e relazioni secondo il forte messaggio carismatico di Francesco, aggregante la collettività cristiana.
L’accaparramento dei beni è legato, in concreto, a specifiche azioni economiche che negano il benessere collettivo. Quest’ultimo è interpretato come un’incessante attività ridistributiva delle ricchezze, identificate come un concorde e continuo scambio di doni, elemosine e favori tra «coloro che contano» nelle città e negli stati. I francescani concepiscono, nelle loro riflessioni, un contesto di relazioni particolarmente complesse, nel mondo dei ricchi, perlopiù mercanti e banchieri, che determina un’organizzazione sociale connotata da una dimensione etica attiva in una serie di azioni economiche scelte con consapevolezza. La capacità di definire il valore del giusto prezzo, identificativa della competenza del mercante onesto, viene valutata come un affare molto più fruttuoso, in termini etici ed economici, rispetto a quell’accumulo dei beni esagerato, che è connotato dall’avidità come male assoluto. Una condizione rovinosa e disgregante per la comunità dei fideles che devono, invece, distinguersi nella realizzazione del giusto profitto, in ambito comunitario cristiano. Dal V secolo, Agostino celebra, attraverso le parole dell’apostolo Paolo, la realtà dei cristiani come parte del Corpo di Cristo, confermato dalla tradizione posteriore che intende i comportamenti economici come la tesaurizzazione dei beni, il furto e l’avidità, azioni economiche che deturpano e corrompono questo corpo. I comportamenti economici caritativi e virtuosi, invece, proteggono la natura divina della collettività cristiana e onorano Cristo. Secondo l’interpretazione francescana, se i beni posseduti vengono fruiti solo da pochi, non può esistere la Chiesa, né una collettività cristiana identificata come Corpo mistico. Intorno a questa concezione di società perfetta, i maestri francescani come Bonaventura da Bagnoregio, ministro generale dell’Ordine, il suo fedele discepolo, Riccardo di Mediavilla, Pietro di Giovanni Olivi e nel XV secolo, Bernardino da Siena, tra gli altri, collegano i ragionamenti sulla produttività con il dovere etico di quella caritas e pietas che rappresentano la perseverante imitazione dell’amore divino da parte degli uomini, strumenti per moltiplicarne gli effetti sulla terra.
Ereditati dalla tradizione monastica, caritas e pietas si concretizzano come specifici comportamenti delle persone nei confronti del prossimo e del mondo cristiano. E’ doveroso essere capaci di investire talenti e denaro cristiani con lo scopo di moltiplicare la povertà e il potere di Cristo in terra. E’ il valore dell’uso corretto della ricchezza e nello stesso tempo, lo spregio per la stessa, a rendere manifesta la differenza fondamentale tra fideles e infideles. E’ il termine caritas a indicare tra i fedeli, la condizione perfetta dell’individuo attivo e ben inserito all’interno di un sistema virtuoso di rapporti solidali tra cristiani. E’ sempre caritas che rende duratura e stabile l’amicitia, l’affetto tra gli uomini, una condizione che altrimenti risulta essere mutevole e transitoria.
Dalla seconda metà del XIII secolo, i Minori rappresentano le relazioni tra i cristiani, come una trama di legami proficui, secondo la visione della Salvezza collettiva e secondo l’obiettivo del conseguimento solidale del bene comune. Si tratta di complicate interpretazioni spirituali ed economiche che trovano la massima visibilità nell’elaborazione della nozione di paupertas, che insieme ad amicitia e pietas, sono i termini essenziali indicanti i comportamenti e i sentimenti utili per il bonum commune.
Una dimensione da cui discende il significato sociale di usus.
L’uso dei beni e la valutazione dei bisogni soggettivi e oggettivi confermano la vera appartenenza alla collettività cristiana, che vede nel mercante di ottima reputazione, un costruttore della felicità cittadina. In funzione di questi argomenti e per la definizione del bene comune, Pietro di Giovanni Olivi, coltissimo francescano del XIII secolo, con il suo Trattato sulle compere e sulle vendite, esplora iuxta propria principia, la complessità delle azioni di compravendita, i contratti usurari e il problema della restituzione del denaro in caso di usura. La teologia individua l’usura come modello di profitto economico assolutamente opposto al bene comune. Sono gli usurarii manifesti, cosi definiti nel terzo Concilio lateranense del 1179, ad essere i fautori di un’economia pericolosa perché disgregante la comunità dei fedeli. L’avarus poiché è avido di arricchimento personale, deturpa la sacralità del corpo cristiano e lacerano la buona fama della città e dei suoi cittadini. Si tratta di una figura impudente, bestialis, priva di riguardi e oltretutto pericolosa perché attiva in stretta relazione con i luoghi di potere. Indifferente al bene comune, l’usuraio è un soggetto abietto che con il suo agire impedisce, un continuo e circolare flusso economico. La ragion d’essere di questa condanna così aspra, è data da motivazioni di carattere teologico e in spiegazioni teoriche espresse nella Scolastica. Nella stessa teoria del valore di Tommaso, tratta dall’elaborazione del pensiero aristotelico, la moneta è intesa solo come unità di conto e mezzo di scambio, dalla quale non è lecito trarre profitto. Va ricordato, però, che con la condanna dell’usura, non si vuole attaccare il profitto e l’interesse, ma l’uso errato e gli eccessi del denaro. Dopo il Decretum gratiani, gli sviluppi concettuali del pensiero economico, codificano due diverse realtà che riguardano la proprietà e l’amministrazione corretta delle proprietà ecclesiastiche e di quelle laiche. Nelle collezioni canoniche, la procedura economica è presentata come una delle connotazioni fondamentali delle identità professionali cristiane. Qui vengono fissati i confini della dottrina della ricchezza e della gestione patrimoniale come insegnamento di una vita virtuosa. Il linguaggio pertinente l’amministrazione dei beni ecclesiastici, sul modo di possedere e usare la ricchezza, diventa un criterio di analisi che definisce, poi, il corretto uso dei beni economici dei laici nella destinazione comunitaria della ricchezza, connotato dal termine largitio, cioè donazione, elargizione, elemosina(7). Insomma, si tratta dell’identificazione di un’economia redistributiva nell’ambito comunitario che tra XIV e XV secolo, vede nell’uomo d’affari il modello professionale caritativo per eccellenza nella comunità laica dei cristiani.
Il più illustre esponente dei francescani nel Quattrocento, coinvolto nel rinnovamento delle città secondo la visione pauperistica, è Bernardino da Siena. Studioso della Scolastica e delle sue teorie in merito a finanza e scambi, è tuttavia concentrato sulle riflessioni di quei maestri francescani che hanno unito la professione mercantile alle categorie linguistiche del bene comune, di caritas e fidelitas.
Attivo come predicatore sulle piazze italiane e conoscitore della vita politica dei fedeli, il Frate cattura l’attenzione dei governanti cittadini, e li coinvolge con proposte concrete per la vita politica ed economica delle città. Innalzando il trigramma dorato su campo azzurro nelle piazze, Bernardino esalta la carità come fondamento della dottrina cristiana dalla quale nasce l’agire onesto, fautore di ricchezze e amicizie fedeli. La parte precettistica del suo pensiero, tocca temi di etica economica che, partendo dal bene comune, concepito come la concretizzazione terrena di una perfetta cristianità, si amplia con la descrizione dei giusti comportamenti, necessari agli uomini d’affari cristiani. Onesti, fidati e capaci di valutare cose e persone, secondo il francescano, i mercanti sono legittimati al giusto profitto dalle Scritture stesse. Sono queste a confermare, nel primo libro di Esdra, che la natura del commercio non è illecita. Può però diventarlo, a causa dei comportamenti consapevolmente errati, ingannatori e manipolatori degli uomini d’affari che possiedono una personalità truffaldina e ambigua o che tali possono diventare all’interno della società cristiana a seguito di azioni usurarie. La responsabilità sociale di un mercante o di un banchiere, in quanto funzionale al benessere comunitario dei cristiani, supera quello di un comune uomo d’affari. Come fidelis è più vicino di altri, per la sua professione, a Cristo, primo vero marcante. Una condizione, quindi, esclusiva, definita da atteggiamenti etici ed economici giusti, concretizzati nelle equilibrate e oneste relazioni civiche, modulate da gesti, toni e parole oneste e amichevoli, prive di menzogne, spergiuri e adulazioni che hanno, per Bernardino, lo stesso impatto distruttivo di un’epidemia. Comportamenti caritativi, privi di avaritia, identificano, invece, il vero mercante cristiano, colui che non mente all’atto di compravendita delle merci, non usa il nome di Dio per acquisire fiducia, non abusa della fede con l’invio di segnali disonesti, attraverso atteggiamenti perturbanti, derivati da una furia insana, dominata dalla bramosia del possesso, cioè non adottano quei comportamenti che Bernardino qualifica come criminali nei confronti del prossimo. A inquietare maggiormente il Frate, è soprattutto l’inganno perpetrato tra i confratelli. La menzogna tra cristiani apporta consegue che deturpano la trama affettiva e amicale cittadina e smembra il tessuto economico e spirituale della civitas. Negli suoi scritti, si nota che il timore non sta tanto nell’avarizia, quanto nelle ferite e nelle tensioni profonde provocate nel tessuto cittadino dalla corruzione, dall’oppressione del debito pubblico, dall’amministrazione corrotta e dalla cattiva distribuzione della ricchezza(8). Per rendere chiare al pubblico che ascolta le sue prediche nelle piazze o per gli studiosi dotti, il Francescano, per chiarire le forme contrattuali e i loro protagonisti aggressivi nei confronti delle città e dei fideles, usa termini tratti dal linguaggio popolare, molto forti e talvolta violenti. Stochos, retrangole, stramzi e bistracti sono espressioni che indicano contratti usurai o comunque non leciti praticati, per esempio, da coloro che trafficano sul mercato e accumulano merci comprate a basso prezzo e rivendute ad un prezzo maggiorato. Per i francescani, i mercati delle città cristiani brulicano di mercanti truffatori, di approfittatori e di usurai, che vanno tenuti d’occhio e contrastati e cacciati anche con la forza dalle città.
Chi accumula beni e denaro, chi monopolizza una merce o un servizio o chiede l’elemosina, pur potendo esercitare un’attività, si rende un estraneo pericoloso in città e un falso cristiano. Il progetto politico di Bernardino da Siena, implica un’attenta gestione e controllo dell’economia e della socialità pubblica. Egli propone il modo per modificare i sistemi economici cittadini grazie al dialogo e alla collaborazione con i governi delle città, ai cui vertici stanno molto spesso quei ricchissimi mercanti e banchieri con tutte le loro competenze sui contratti, la formazione dei prezzi e le relazioni civiche, connotate, secondo il Frate, dalla forza della verità evangelica che vede nelle logiche comunitarie attive, il fondamento non solo del bene comune, ma anche via di Salvezza, l’ultimo profitto senza prezzo. Un pensiero che tiene in sé l’idea delle azioni eticamente produttive che rappresentano il grado di integrazione sociale dei cristiani, individuabili nei ragionamenti economici del dare e dell’avere. Pratiche economiche come la restituzione, sono pensate sia come riordinamento del sistema finanziario pubblico, sia come azioni di rinuncia di una parte di ricchezza per ricomporre quelle rotture di equilibri sociali ed economici negli spazi dei legami socialmente significativi delle città. Restituire il denaro ottenuto attraverso contratti usurari, tocca il delicato problema della circolazione della ricchezza tra fideles, al suo reinvestimento in forma etica, ossia di pubblica utilità. Anche l’etica della donazione verso istituzioni religiose, chiese, monasteri, ospedali rientra nella doverosa cessione di una parte del profitto, per esempio, delle aziende mercantili, che sui libri contabili erano segnate come bene intestato a «messere Domineddio». Attraverso l’economia del dono, la teologia riprende quella riflessione sulla concessione divina all’uomo di ogni cosa affinché la renda fruttuosa. Dio, in cambio, chiede all’uomo la restituzione di ciò che ha ottenuto, grazie alle potenzialità che Dio stesso ha donato agli individui. Questo rapporto di scambio tra il divino e l’umano, permette alla riflessione francescana, la costruzione di dinamiche entro le quali il fedele deve rendere produttiva e utile per tutti la propria vita. Parte costituente di quella fitta trama di relazioni civiche tra fedeli, il valore del dono è dato, secondo la testualità canonistica, dalle qualità morali e politiche di chi esegue questa pratica e dall’utilità che ne deriva. Il dono in sé non possiede un valore. Questo proviene dall’equilibrio e dalla concordia che si genera nelle città. E’ un valore morale che lenisce le sofferenze degli uomini e che deriva dalla presenza di caritas tra coloro che si riconoscono come fedeli, ossia cives di buona fama nelle città e negli stati. Un prolifico informatore della vita dei cristiani di buona fama come mercanti e banchieri, è stato Leon Battista Alberti che nei Libri della famiglia aveva affermato l’importanza di fare affari dopo aver distinto «e buoni da non buoni per molti segni, fra’ quali el nome e fama vulgata assai mi testifica e persuade quanto ciascuno sia degno d’essere amato»(9).


Note:

(1) A. Doren, Storia economica dell’Italia nel Medioevo, tra. It., ristampa fotomecc., Bologna, Forni 1965; G. Luzzatto, Storia economica d’Italia. Il Medioevo, ed. originale 1949, n. ed Firenze, Sansoni, 1963; A. Cortonesi, L. Palermo, La prima espansione economica europea. Secoli XI-XV, Roma, 2010; di grande rilievo, M. Bloch, I caratteri originali della storia rurale francese, Torino, 1973.

(2) C. M. Cipolla, Le avventure della lira, Bologna, 1975; J. Le Goff, Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo, Roma-Bari, 2010.

(3) G. Todeschini, Ricchezza francescana, Bologna, 2004.

(4) P. Malanima, Economia preindustriale. Mille anni: dal IX al XVIII secolo, Milano, 1995; G. Cantarella, I monaci di Cluny, Torino, 1993.

(5) G. Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Bologna, 2007; P. Evangelisti, I francescani e la costruzione di uno stato, Padova, 2006; P. Renouard, Gli uomini d’affari italiani del Medioevo, Milano, 1973.

(6) Pietro di Giovanni Olivi, Trattato sulle compere e sulle vendite, in Pietro di Giovanni Olivi, Usure, compere e vendite. La scienza economica del XIII secolo, a cura di A. Spicciani, P. Vian e G. Andenna; Bernardino da Siena, Prediche volgari sul campo di Siena, 1427, a cura di C. Delcorno, vol. I, II Milano, 1989; id., Sermones XXXII-XLV. De contractibus et usuris, in Bernardinus Senensis, Quadragesimale de evangelio aeterno (Opera, vol. IV), Firenze, Quaracchi, 1956.

(7) S. Piron, Le devoir de gratitude. Émergence et vogue de la notion d’antidora au XIII ͤ siècle, in Credito e usura tra teologia, diritto e amministrazione. Linguaggi a confronto (sec. XII-XVI), a cura di D. Quaglioni, G. Todeschini e G. M. Varanini, École française de Roma, 2005.

(8) P. Prodi, Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Bologna, 2009; N. Zemon Davis, Il dono. Vita familiare e relazioni pubbliche nella Francia del Cinquecento, Milano, 2002.

(9) Leon Battista Alberti, I libri della famiglia, a cura di R. Romano e A. Tenenti, Torino, 1969.

Documento inserito il: 22/12/2014
  • TAG: teologia, riflessioni economiche, europa XI XV secolo, commercio medievale, mercatura

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