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Il Santo Graal è davvero un mistero? [ di Fabio Calabrese ]

Ai primi di marzo è uscita una nuova collana da edicola, delle molte che sono diventate quasi una moda negli ultimi tempi, questa volta della Fratelli Fabbri e dedicata ad una serie di argomenti indubbiamente interessanti, i Grandi misteri. Il volume che inaugura la collana ci parla del Santo Graal, ed anche questo era prevedibile, dato che recentemente del Graal si è parlato parecchio in relazione al successo commerciale del best seller Il codice Da Vinci di Dan Brown.
Il libro in questione è opera di tre autori inglesi, Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln, che scopriamo subito essere tre giornalisti della BBC, e, sorpresa, si tratta a quanto pare proprio del testo, della versione del mito del Graal da cui è partito Dan Brown per redigere Il codice Da Vinci; non solo, infatti, è identica la teoria proposta: il Graal non sarebbe stato un oggetto reale ma una metafora per indicare il sang real (ossia la discendenza di Gesù Cristo, conservatasi attraverso i secoli e perpetuatasi nella stirpe merovingia) ed il segreto sarebbe passato attraverso i secoli a vari custodi del Graal, i Catari, i Templari, i Rosacroce, tutti strumenti di un unico e più elusivo ordine che avrebbe manovrato, manovrerebbe dietro le quinte della storia, il Priorato di Sion, ma sono identici i gradi e l’organizzazione di questo presunto Priorato, nonché l’elenco di coloro che si sarebbero succeduti nei secoli come Gran maestri dello stesso, un elenco che comprende, oltre a vari membri di famiglie aristocratiche vissuti nell’arco di diversi secoli, personaggi come Sandro Botticelli, Leonardo Da Vinci, Isaac Newton, Victor Hugo, Claude Debussy, Jean Cocteau.
La cosa non desta meraviglia, poiché questo libro che è disponibile adesso in lingua italiana, è uscito in lingua inglese nel 1982 (con il titolo The Holy Blood and the Holy Grail), e Dan Brown ha avuto tutto il tempo di leggerlo e di usarlo come base per il suo romanzo. A questo riguardo, occorre dire che un conto è scrivere un romanzo contenente delle ipotesi fantasiose e prive di base storica che si giustificano come invenzioni letterarie, ed un altro conto è presentare come fatti accertati delle illazioni o se vogliamo delle autentiche bufale, ed è sostanzialmente alla categoria delle bufale che il libro dei tre giornalisti della BBC va a mio modesto avviso ricondotto.
Tuttavia, vi sono diversi motivi che rendono consigliabile la lettura di questo testo (a parte il prezzo contenutissimo di 2,50 euro, meno di un pacchetto di sigarette, che è tipico delle offerte lancio), a cominciare dal fatto che proprio analizzare questa bufala ci può essere utile per capire il reale significato di un mito, quello del Santo Graal, che ha improntato di sé, ed è innegabile, tutta la cultura europea.
Sempre in quest’ottica, può essere utile una simile lettura per comprendere anche quanto all’ipotesi, dalla plausibilità molto incerta, dei tre giornalisti britannici, lo scrittore americano abbia aggiunto illazioni soltanto sue ed ancor meno fondate; inoltre il libro è ricco di particolari storici male interpretati che però, se visti nella giusta luce, possono aiutarci a comprendere aspetti importanti della storia e della mentalità medievali.
Una differenza non marginale tra questo libro ed il romanzo di Dan Brown nella quale ci imbattiamo ben presto, riguarda la differenza del significato da attribuire all’ipotesi che Gesù fosse sposato (con Maria Maddalena o forse con Maria di Betania, sorella di Lazzaro, sempre che le due non fossero in realtà la stessa persona); l’idea che ciò implicherebbe una rivalutazione del femminino sacro, del lato femminile della divinità, trascurato e negato dalla Chiesa cattolica, si rivela un’ossessione dello stesso Dan Brown, non condivisa da Baigent, Leigh e Lincoln per i quali questa circostanza implicherebbe semplicemente un’immagine di Cristo più umana di quella tramandataci dalla tradizione.
Il significato simbolico di Gesù è che egli è Dio esposto alla gamma dell’esperienza umana, esposto alla conoscenza diretta di ciò che significa essere un uomo. Ma Dio, incarnato in Gesù, poteva veramente affermare d’essere un uomo, abbracciare la gamma dell’esperienza umana, senza conoscere due degli aspetti più fondamentali ed elementari della condizione umana? Dio poteva affermare di conoscere totalmente l’esistenza umana senza affrontare due aspetti essenziali dell’umanità come la sessualità e la paternità? (pag. 441).
A mio parere, uno degli aspetti più interessanti della ricostruzione che questo libro propone delle vicende storiche, riguarda il movimento albigese o cataro che, affrontato dal punto di vista di una storiografia convenzionale, rappresenta un mistero insolubile. Come può essere, viene da chiedersi, che nella Provenza del XIII secolo sia ad un certo punto comparsa dal nulla non un’eresia, ma una vera e propria religione totalmente altra da quella cristiana, al punto da provocare una crociata che per l’ampiezza delle forze messe in campo e la ferocia con la quale fu condotta, non ebbe nulla da invidiare a quelle condotte in Terrasanta? Dal punto di vista di una storiografia convenzionale, il problema non ha soluzione.
Il libro, da questo punto di vista propone un’interpretazione illuminante:
Albigesi e Catari erano sostanzialmente nomi generici. In altre parole, non indicavano una chiesa unica, come quella di Roma, con un corpus dottrinale e teologico codificato e definitivo. Gli eretici in questione comprendevano una moltitudine di sette diverse, parecchie guidate da un capo indipendente, dal quale prendevano nome i seguaci. E sebbene sia possibile che queste sette avessero in comune certi principi, differivano radicalmente nei dettagli
(pag. 39). In maggioranza i Catari non erano eccessivamente fanatici per quanto riguardava il loro credo. Oggi è di moda, fra gli intellettuali, considerare i Catari come una congregazione di saggi, di mistici illuminati o di iniziati a una sapienza arcana, tutti a conoscenza di qualche grande segreto cosmico. In pratica, tuttavia, i Catari erano in maggioranza uomini e donne più o meno comuni che trovavano nel loro credo un rifugio contro l’assillante ortodossia del cattolicesimo, un’evasione dalle interminabili decime, penitenze, sottomissioni, rigori e imposizioni della Chiesa di Roma (pag. 41).
La situazione qui descritta vi ricorda nulla?
Provatevi ad immaginare che la nostra cultura, la cultura occidentale dell’inizio del XXI secolo: pluralista, sfaccettata, tollerante, non riducibile ad un’ortodossia di pensiero definita, non fosse estesa così come è praticamente a livello planetario, ma solo ad un’area ristretta. Come ci identificherebbero degli ipotetici altri? Probabilmente dal nome della religione maggiormente presente da noi e differente dall’ortodossia cristiana universalmente diffusa, probabilmente come new ager, anche quelli di noi che con la New Age non hanno in realtà nulla a che spartire; è probabile che il catarismo fra i provenzali del XIII secolo avesse una posizione analoga. Siamo in un’epoca nella quale i secoli bui dal V al X sono ormai alle spalle, nella quale la rinascita economica ha prodotto soprattutto in alcune regioni d’Europa, la Provenza, le Fiandre, l’Italia settentrionale, un esteso tessuto urbano ed un’ampia classe di mercanti, d’imprenditori a cui il tessuto politico – sociale del feudalesimo sta stretto, e che ha infranto il monopolio dell’alfabetismo e della cultura in passato detenuto dal clero.
Nelle epoche precedenti, il contadino analfabeta, il colono che sopravviveva a stento sul fondo del signore feudale o del monastero, accettava, o meglio subiva, il monopolio ideologico del clero e la tirannia congiunta del prete e del signore feudale perché non aveva altre prospettive, altri metri di paragone; il borghese che ora emerge, no; è un uomo in possesso di un minimo di cultura, dell’alfabetismo senza il quale gli sarebbe impossibile condurre i propri affari, viaggia, conosce luoghi e popoli diversi, e pensa; gli è per conseguenza sempre più difficile accettare il dominio parassitario dei signori feudali e degli ecclesiastici.
Un detto dell’epoca riassume bene il punto di vista della Chiesa al riguardo: Il Signore ha creato gli ecclesiastici, i nobili, i contadini, ma il diavolo ha creato i borghesi.
Il cardinale di Vitry è ancora più esplicito in proposito: Tanti borghesi, tanti eretici. Un altro elemento che dobbiamo considerare è questo: ciò che sappiamo del catarismo vero e proprio, delle concezioni degli Albigesi, quelli che erano effettivamente tali, è poco, ma questo poco indica chiaramente che le concezioni pre–cristiane ed ereticali della tarda antichità non devono essere state soppresse, ma per così dire coperte dall’ortodossia cattolica, e che ora, in un clima favorevole, tornavano alla luce. Il catarismo si lascia interpretare in maniera chiara come il risultato della confluenza di tre correnti di pensiero pagano – eretiche: il manicheismo, il neoplatonismo, lo gnosticismo; la concezione catara metteva insieme l’idea gnostica di una religione basata non sulla fede ma sull’illuminazione, l’esperienza personale e diretta dell’adepto, con la concezione manichea di un radicale dualismo fra bene e male, fra luce e tenebra visti come principi di forza equivalente, e l’idea neoplatonica secondo la quale non solo esisterebbe un dualismo fra spirito e materia, ma la materia, chora nella terminologia platonica sarebbe il principio del male che imprigiona lo spirito degli uomini (con l’ironico corollario che il Geova veterotestamentario creatore della realtà materiale sarebbe in effetti il dio malvagio opposto al vero Dio celeste).
A rafforzare l’idea che il catarismo non sarebbe stato la creazione di una religione ex novo, ma la ripresa di movimenti e correnti di pensiero da sempre presenti sotterraneamente nell’Europa superficialmente cristianizzata, c’è anche il legame – non del tutto chiaro – fra esso e la setta balcanica dei bogumili. I catari erano fra le altre cose sostenitori della concezione che sessualità non deve essere forzatamente finalizzata alla procreazione, posizione fortemente avversata dalla Chiesa cattolica, giudicata contro natura e perciò spesso confusa con l’omosessualità; ancora oggi fra le espressioni gergali francesi per indicare gli omosessuali c’è bougres, letteralmente bulgari.
Noi non dovremmo in ogni caso dimenticare che il concetto di paganesimo è stato creato polemicamente dai cristiani e non ha alcun rigore logico, scientifico, storico o altro; un grosso sacco nel quale vanno a finire tutte le religioni antiche ad esclusione del cristianesimo e dell’ebraismo; noi dovremmo distinguere fra le religioni europee: celtica, germanica, greco – romana e quelle religioni orientali – mediterranee che appartengono a quella temperie culturale affermatasi nella tarda antichità da cui è nato anche il cristianesimo, ed al cristianesimo queste ultime sono molto più vicine delle prime, anche se poi l’affermarsi della Chiesa cattolica ha intorbidato le acque mettendo nello stesso sacco le une e le altre.
Le radici del catarismo stanno in questo secondo gruppo, e talune concezioni, a cominciare dalla svalutazione della realtà materiale e dal dualismo materia – spirito ancora più radicale di quello cristiano, non possono trovare consonanza nella nostra visione del mondo. Non è difficile rintracciare l’origine di questa concezione di matrice neoplatonica, passata a Platone dai pitagorici ed arrivata a questi dall’orfismo e dai culti misterici.
I culti misterici – la cosa non è per nulla un mistero – erano nati in quello strato della popolazione mediterraneo – pre–indoeuropeo dell’antica Grecia che era stato sottomesso dagli Elleni indoeuropei, ed i loro adepti erano perlopiù di condizione servile; a questi ultimi, questo radicale dualismo offriva la speranza di una vita migliore in una dimensione ultraterrena. Nati probabilmente come centri di resistenza ai dominatori, questi culti avevano finito per assumere una funzione di stabilizzazione sociale ed erano tollerati e protetti dalle autorità greche.
Dall’orfismo, attraverso Pitagora, Platone e la scuola neoplatonica, l’idea del dualismo anima – corpo, dell’anima immortale, va a finire nel cristianesimo, ed in effetti, sebbene siamo abituati a considerarla una concezione cristiana, nell’ebraismo da cui il cristianesimo deriva, nell’Antico Testamento, non se ne trova traccia, e probabilmente eccedeva le capacità speculative degli ebrei dei tempi biblici, la cui inclinazione filosofica era rigorosamente uguale a zero.
Ad ogni modo, ciò non modifica il fatto che il fenomeno cataro ci testimonia con estrema chiarezza come l’Europa medievale fosse percorsa da tensioni spirituali che non trovavano risposta nel cristianesimo ortodosso, e ci permette di constatare con quali metodi brutali la Chiesa cattolica alleata con il potere, con la mano militare dei signori feudali, sia riuscita a mantenere per oltre un millennio il suo monopolio dottrinale sull’Europa.
Torniamo al nostro interrogativo: tutto ciò cosa ha a che vedere con il Santo Graal? Probabilmente nulla, proprio l’immagine che ci siamo potuti fare anche grazie a questo libro degli Albigesi, ci fa capire che per costoro Gesù Cristo poteva essere al massimo un profeta, un pensatore, un rivoluzionario, un saggio, ma non, in ogni caso, il figlio di Dio, e rende fortemente improbabile che, in un senso o nell’altro, costoro si facessero custodi del suo sangue.
Il secondo anello della catena che andiamo a considerare è, in effetti, ancora più debole. Stiamo parlando dei cavalieri templari che sarebbero stati custodi del Santo Graal dopo i catari.
La storia degli ordini monastico – cavallereschi nati all’epoca delle crociate come truppe d’élite delle armate della croce e per proteggere i pellegrini, è generalmente nota, come è nota la fine dei Templari che, dopo essersi creati un prestigio grandissimo ed essere divenuti una potenza economica di primissimo piano nell’Europa di quel tempo, furono spietatamente annientati dal pugno di ferro del re di Francia Filippo il Bello. Ciò che è controverso, invece, è se costoro deviassero o meno dal cattolicesimo ortodosso, se fossero a parte o meno di una conoscenza di tipo iniziatico.
Tutte le idee, tutte le suggestioni in questo senso, dipendono dai verbali dei processi ai Templari, dalle confessioni rilasciate dagli stessi agli inquisitori del re di Francia dopo che gli uomini del sovrano francese si erano impadroniti manu militari delle capitanie, delle fortezze dell’Ordine. Di per sè, queste confessioni estorte con la tortura, e sappiamo che con la tortura si può far confessare qualsiasi cosa, non sarebbero prese per buone in nessun tribunale moderno, ed allora poniamoci la domanda in questi termini: le motivazioni addotte dagli storici convenzionali (che non sempre hanno torto) sono sufficienti per spiegare il drammatico scioglimento dell’Ordine e la persecuzione di cui i cavalieri del tempio furono oggetto?
Al momento dell’espulsione dei crociati dalla Terrasanta, i templari avevano accumulato un’enorme ricchezza che non derivava solo dalle donazioni, ma da un’estesa attività finanziaria e bancaria; furono loro ad inventare la lettera di cambio, l’antenato dell’assegno: un pellegrino che si recasse in Terrasanta poteva versare qualunque importo volesse presso la capitania dell’Ordine più vicina, ricevendone una lettera di cambio con la quale poteva poi riscuotere l’importo versato con una modesta trattenuta una volta giunto oltremare o dovunque volesse, la lettera era un biglietto facile da ripiegare e nascondere, che non attirava l’attenzione di eventuali ladri o briganti, cosa non certo secondaria in un’epoca in cui i viaggi da luogo a luogo erano tutt’altro che sicuri.
Con la fine delle crociate, dunque, i Templari si trovarono privi di una ragion d’essere, di uno scopo, ed al contempo a disporre di una ricchezza e di una potenza che attirava l’invidia di molti, a cominciare dall’avido re francese; non avevano saputo riciclarsi, trovare un altro sbocco, come i cavalieri Teutonici che si trapiantarono sul Baltico, dove con una serie di conquiste militari si crearono un potente stato, facendo avanzare la cristianità ed il germanesimo ai danni degli slavi ancora pagani, sottomettendo e convertendo, o come gli Ospitalieri, o Giovanniti, antichi rivali dei Templari che si specializzarono nella lotta marittima alla pirateria saracena, divenendo prima i cavalieri di Rodi, poi di Malta.
Filippo il Bello, il re francese, aveva più di un motivo per volersi sbarazzare ad ogni costo dei Templari: egli mirava a realizzare quella che oggi definiremmo una monarchia assoluta, ed in effetti pose le fondamenta di quell’edificio di potere accentrato che doveva essere completato da Luigi XIV; dopo aver limitato drasticamente l’autonomia dei feudatari, si scontrò duramente con la Chiesa cattolica, arrivando addirittura nel 1303 a mandare i suoi emissari a catturare il papa (È il notissimo episodio dello schiaffo di Anagni, nel quale secondo la voce popolare, non soltanto gli emissari del re di Francia guidati dal nobile romano Sciarra Colonna presero prigioniero papa Bonifacio VIII in questa cittadina laziale, ma addirittura il Colonna avrebbe schiaffeggiato il pontefice, di sicuro, Bonifacio VIII, forse affranto dall’affronto subito, morì poco più tardi). Due anni più tardi, nel 1305, Filippo riuscì ad imporre sul trono pontificio un suo uomo di fiducia, il vescovo francese Bertrand De Got, che prese il nome di Clemente V e decise che era venuto il momento di sbarazzarsi dei Templari, che non solo costituivano un vero e proprio stato nello stato, ma erano anche suoi creditori per ingenti somme (lo stato assoluto che il sovrano francese cercava di edificare al posto del decentrato sistema feudale si era presto rivelato un’imponente macchina ingoia denaro).
L’arresto dei Templari fu un blitz meticolosamente preparato, che scattò improvviso e simultaneo in tutta la Francia il 13 ottobre 1307, dopo di che gli inquisitori regi si misero al lavoro formulando contro i cavalieri del Tempio le accuse più stravaganti che riuscirono ad escogitare: eresia, idolatria, sodomia, blasfemia e quant’altro passasse loro per la testa, ottenendo poi il riscontro delle confessioni dei cavalieri mediante la tortura.
Bisogna notare che, nonostante fosse legato a doppio filo al sovrano francese, papa Clemente V resistette per cinque anni alle sue pressioni per ottenere lo scioglimento dell’Ordine dei Templari, che avvenne soltanto nel 1312 e che il pontefice cercò in tutti i modi di evitare; un comportamento strano se le accuse nei loro confronti avessero avuto un qualche fondamento, e sono proprio queste accuse la base sulle quali i moderni esoteristi hanno fondato l’immagine del templarismo esoterico, con tutto quel che segue, compreso il supposto legame fra i cavalieri del Tempio ed il Graal.
Occorre dire poi che almeno i più avvertiti intellettuali dell’epoca non prestarono fede alla leggenda che Filippo il Bello aveva cercato di accreditare sui Templari, a differenza degli esoteristi moderni che sono caduti come pesciolini nella rete. Ad essa, Dante ad esempio dimostra di non dare credito alcuno, ed in uno dei passi più intensi del Purgatorio (XX canto) ha pronunciato una rovente invettiva contro il sovrano francese, mettendo insieme lo schiaffo di Anagni e la distruzione dell’ordine templare:

Veggio in Alagna intrar lo fiordaliso
e nel vicario suo Cristo essere catto.
Veggiolo un’altra volta esser deriso,
veggio rinnovellar l’aceto e ’l fele,
e tra vivi ladroni essere anciso.
Veggio il novo Pilato sì crudele
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
Porta nel Tempio le cupide vele
.

Un passo che meriterebbe di essere commentato parola per parola, facendo una parafrasi scolastica; ad ogni modo, senza arrivare a tanto, si può notare in primo luogo che se la passione di Cristo è rinnovata nella persecuzione subita dal suo vicario, la differenza fra l’evento antico e quello perpetrato dal novo Pilato è data dal fatto che in quest’ultimo i ladroni non sono i compagni di pena di Cristo sulla croce, sono vivi, sono gli stessi carnefici, mossi da null’altro che dall’avidità, e l’immagine seguente ci dà la rappresentazione di Filippo il Bello che porta nel Tempio, cioè nelle capitanie templari le cupide vele alla maniera di un vascello saraceno venuto per saccheggiare e rapinare, e si noti anche quel sanza decreto, che ha il significato di illegalmente, senza una ragione giuridicamente valida, od anche senza l’autorizzazione della Chiesa, che sarà estorta solo cinque anni più tardi, a distruggere un ordine monastico quali i Templari in effetti erano.
Dante non nutre dubbi in proposito, e non abbiamo tutto sommato motivo di nutrirne noi: i Templari non erano con ogni verosimiglianza altro da ciò che dovevano essere e da ciò che si riteneva che fossero: un ordine di monaci - guerrieri al servizio della fede cattolica, e le uniche testimonianze di un culto esoterico e di una conoscenza segreta per quanto li riguarda, si trovano nelle carte processuali degli inquisitori di Filippo il Bello.
Su tutta la questione dei poveri cavalieri di Cristo (era questa la denominazione ufficiale dell’Ordine templare) gli autori si dimostrano singolarmente disinformati, oppure operano un fraintendimento voluto, poiché mostrare fino in fondo l’infondatezza delle accuse mosse contro di loro significherebbe del pari sfatare l’immagine esoterica che è stata costruita sui cavalieri del Tempio.
Così, ad esempio, a pag. 62 leggiamo:
Ispirato da tanti successi, in Europa l’Ordine divenne sempre più ricco, potente e fiero dei propri successi. Non è sorprendente, forse che diventasse anche sempre più arrogante, brutale e corrotto. -Bere come un Templare- era una frase molto comune a quel tempo. Gli autori mostrano qui di prestare fede ad un inganno che gli storici convenzionali hanno da tempo dissipato; si veda ad esempio sull’argomento l’ottimo libro Il rogo dei Templari di Georges Bordonove:
Filippo il Bello era probabilmente una delle menti più astute della sua epoca e certamente teneva nel debito conto, in una misura perfino insolita per un sovrano dell’età medievale, dell’opinione pubblica, e sapeva benissimo che, prima che si mettessero in moto le sue macchinazioni, l’Ordine era circondato da un generale rispetto, dall’ammirazione per la vita ascetica dei suoi membri, per il coraggio che costoro avevano dimostrato in Terrasanta in tutte le battaglie delle crociate, per la sua severa spiritualità, e decise d’intaccare questa immagine, facendo disseminare per le taverne e le osterie di Francia agenti provocatori travestiti da templari, che avevano il compito di mostrarsi arroganti, licenziosi, brutali e dediti al bere. L’espressione bere come un templare risale appunto a ciò, e Baigent, Leigh e Lincoln dimostrano di essere caduti nell’inganno, volutamente o no, con entrambi i piedi.
Dopo di loro la pista, se mai c’è stata, svanisce, poiché il presunti eredi di catari e templari, i moderni custodi del Graal si rivelano inconsistenti e ridicoli, a cominciare dai sedicenti rosacroce per passare alla massoneria ed alle conventicole esoteriche dei nostri giorni, ma prima di procedere oltre nella ricerca, bisogna constatare che ancora non abbiamo abbozzato una risposta all’interrogativo fondamentale: che cosa era (o è) il Graal?
L’ipotesi più nota (ma, come vedremo, non è quella che seguono i tre autori inglesi), è che il Graal fosse (sia) un calice contenente il sangue di Cristo, e qui c’è la prima ambiguità: il sangue, il vino misticamente trasmutato dell’Ultima Cena, il sangue raccolto dalla croce o entrambe le cose?
Benché questa sia la versione più classica del mito del Graal, ci vuole poco ad accorgersi che non sta in piedi: se andiamo a vedere il racconto evangelico dell’Ultima Cena, ciò che veramente conta è l’atto con il quale Gesù avrebbe misticamente trasformato il pane ed il vino nella propria carne e nel proprio sangue; al contenitore del vino, bicchiere, coppa o calice che fosse, non viene dato nessuno speciale rilievo; si sarà probabilmente trattato di una comune stoviglia non dissimile da quelle degli altri commensali – non certo lo splendente calice ingioiellato di tanta iconografia – e dopo la sacra Cena sarà finita come le altre nell’acquaio.
L’altra versione è ancora più assurda. La narrazione evangelica ci dice che prima che fosse deposto dalla croce, Gesù sarebbe stato trafitto al costato da un legionario romano che voleva accertarsi che fosse veramente morto, e che dalla ferita uscirono acqua (probabilmente qualche umore) e sangue. Quanto sangue può uscire da un cadavere nel quale la circolazione sanguigna si è interrotta? Molto poco. Riusciamo ad immaginare Giuseppe d’Arimatea che, con incredibile tempismo si precipita fra le gambe dei soldati romani per raccogliere in un contenitore quelle poche gocce? Stiamo parlando del vangelo o di Asterix?
Giuseppe d’Arimatea, oltre tutto, è un personaggio che nei vangeli ha pochissima rilevanza, è semplicemente un uomo benestante seguace di Gesù che avrebbe messo a disposizione la tomba che si era fatto scavare per sé, per seppellire il corpo dello stesso Gesù.
I tre autori inglesi propendono per un’altra versione: Saint Graal significherebbe in realtà Sang real, il sangue di Cristo sarebbe in realtà la sua discendenza, egli sarebbe stato sposato con Maria Maddalena o forse con Maria di Betania sorella di Lazzaro (senza escludere che possa trattarsi della stessa persona) ed avrebbe avuto figli; gli autori non escludono neppure che lo stesso Gesù sia potuto sopravvivere alla crocifissione (io non sono un medico, ma, per quanto ne so, dubito fortemente che si possa sopravvivere ad un supplizio del genere).
A questo punto, la storia si complica ed assume una coloritura romanzesca, perchè i discendenti di Gesù si sarebbero trasferiti in occidente, in Europa, sbarcando non si sa bene se a Marsiglia nella Gallia mediterranea od a Gladstonbury in Britannia (un’insignificante imprecisione di qualche migliaio di chilometri, che volete che sia?), sarebbero diventati re dei Franchi costituendo la dinastia merovingia, sarebbero poi stati spodestati dagli usurpatori carolingi con la complicità della Chiesa cattolica per la quale, interpretando Gesù Cristo come una figura divina al disopra dell’umano, una discendenza terrena di Gesù era una presenza imbarazzante, oltre che una diretta concorrenza alle sue pretese di autorità sui cristiani, sarebbero stati costretti a rifugiarsi nell’ombra e nell’anonimato ed avrebbero trovato la protezione di un’associazione segreta che si chiamerebbe Priorato di Sion.
Lasciamo stare per il momento la presunta discendenza di Gesù e parliamo del Priorato di Sion, che nella vicenda del Graal come è stata ricostruita dai tre giornalisti della BBC assume un ruolo assolutamente centrale; anzi, gran parte di questa ricostruzione si basa su di una serie di presunti Documenti del Priorato che sarebbero stati rinvenuti, guarda un pò, nella Biblioteque Nationale di Parigi. Piccolo particolare: se questi documenti esistono realmente, potrebbero essere dei falsi od il frutto di una ricostruzione fantasiosa degli avvenimenti storici: il fatto che qualcuno ritrovi delle carte scritte da qualcun altro, non impone di prendere il contenuto di queste ultime per oro colato!
Il Priorato avrebbe manovrato nei secoli i catari, i Templari, i rosacroce, la massoneria, avrebbe ispirato i poemi cavallereschi e gran parte dell’esoterismo rinascimentale, influito sulla Riforma protestante e sulla rivoluzione francese; fra i Gran Maestri che avrebbero guidato il Priorato nel corso dei secoli, si conterebbero: Sandro Botticelli, Leonardo Da Vinci, Robert Boyle, Isaac Newton, Charles Nodier, Victor Hugo, Claude Debussy e Jean Cocteau, e credo che un simile elenco sia sufficiente di per sé a giustificare lo scetticismo; attribuire a grandi personaggi nella storia della cultura, delle arti, della scienza l’appartenenza a qualche società esoterica, in effetti, raggiunge un duplice obiettivo, da un lato nobilita l’associazione esoterica stessa, dall’altro induce a pensare che i risultati che costoro hanno conseguito nei loro campi siano dovuti non (o non tanto) ad un intelletto superiore, ma a qualche conoscenza iniziatica cui potrebbero aver attinto in conseguenza della loro presunta affiliazione esoterica. L’uomo comune che riceve questo genere di messaggi si sente riscattato nella sua mediocrità.
Il mondo delle società segrete è, per definizione, misterioso, non si può certo escludere che ne sia esistita una, o magari più di una, che si sia denominata Priorato di Sion, né che essa esista ancora al presente, ma da qui a credere che una simile società possa aver avuto nella storia l’influenza che gli autori prospettano ce ne corre; oltre tutto, cosa dovremmo pensare di una cospirazione di cui, dopo due millenni non si vedono ancora gli esiti?
Torniamo alla presunta discendenza di Gesù. Ricordiamo che le notizie storiche su Gesù sono piuttosto vaghe, anzi, escludendo i vangeli, inesistenti. Chi non è un credente nella religione che egli avrebbe fondato e lo considera un uomo come gli altri, non troverà nulla di sconvolgente o di scandaloso nell’idea che egli possa essere stato sposato ed aver avuto dei figli, ma per lo stesso motivo non potrà ritenere che questa ipotetica discendenza abbia attraversato i secoli recando con sé un carisma speciale.
Che la Maddalena (o Maria di Betania) incinta di Gesù o con i suoi figli, abbia lasciato la Palestina dopo la crocifissione per recarsi in occidente, non è molto verosimile, ma non è neppure impossibile: già prima della diaspora conseguente alla guerra giudaica del 68-74 d. C. vi erano comunità ebraiche sparse in tutto il Mediterraneo romano, anche se in larghissima parte concentrate fra l’Anatolia, la Siria e l’Egitto, ma per quale ragione una famiglia di Ebrei sefarditi sarebbe dovuta essere accolta come famiglia reale da una tribù di Germani, od in base a quale logica una dinastia di capotribù germanici doveva imparentarsi con essa?
La risposta di Baigent, Leigh e Lincoln a questa domanda imbarazzante ci introduce alla parte più fantasiosa di tutto il libro, quella che fa maggiormente a pugni con i fatti storici accertati: perché i Sicambri, la tribù franca da cui sarebbero discesi i re merovingi, erano già ebrei. Quest’affermazione incredibile passa per l’Arcadia ed incrocia un altro enigma storico, che è poi quello da cui la narrazione dei tre autori inglesi prende le mosse (anche se a me è sembrato più conveniente un ordine diverso nell’esposizione), quello di Rennes Le Chateau.
La tesi sostenuta dai tre autori inglesi è questa: in epoca biblica, una delle dodici tribù d’Israele, la tribù di Beniamino, dopo una guerra con le altre tribù ebraiche, sarebbe migrata dalla Palestina insediandosi in Grecia, precisamente in Arcadia, regione interna del Peloponneso, fondendosi poi con gli Spartani, ma almeno una parte di essa avrebbe poi risalito il Danubio e da qui sarebbe poi andata a fondersi con le popolazioni germaniche.
Molti Beniaminiti andarono in esilio. A quanto pare, si trasferirono in Grecia, nel Peloponneso centrale, in Arcadia dove si sarebbero imparentati con la locale famiglia regnante. Verso l’inizio dell’era cristiana, avrebbero risalito il Danubio e il Reno, imparentandosi per matrimonio con certe tribù teutoniche e generando i Franchi Sicambri: gli antenati dei Merovingi (pag. 292).
In appoggio a queste affermazioni, gli autori citano due passi biblici, Maccabei 1 e Maccabei 2. I due libri dei Maccabei nella Bibbia, sottolineano il legame tra gli Spartani e gli Ebrei.
Maccabei 2 parla di certi ebrei che si erano recati presso gli Spartani, nella speranza di trovarvi protezione in nome della comunanza di stirpe e Maccabei 1 afferma esplicitamente: Si è trovato in una scrittura riguardante gli Spartani e i Giudei, che sono fratelli e che discendono dalla stirpe di Abramo
.
Sorpresa! Se prendete in mano la bibbia per controllare, sarà assai difficile che troviate il libro dei Maccabei. Non esistono soltanto i vangeli apocrifi, ma anche gli apocrifi del Vecchio Testamento, libri che sono stati esclusi dal canone biblico perché contengono errori e fantasticherie evidenti, e Maccabei è uno di questi.
A parte ciò, sarebbe difficile trovare due popoli dell’antico mondo mediterraneo con un carattere, un tipo di cultura più distanti di Ebrei e Spartani. Gli Spartani erano di stirpe dorica, ed i Dori erano scesi in epoca relativamente tarda nella penisola ellenica, ponendo fine alla civiltà micenea ed iniziando quello che è stato chiamato il medioevo ellenico; fra costoro abbondavano le fisionomie nordiche ed un’impronta nordica si conserva ancora oggi presso la popolazione del Peloponneso (un pò come i siciliani di origine normanna). Posso dare una testimonianza personale al riguardo: durante gli anni dell’università ero diventato amico di un ragazzo altoatesino che era vissuto in Grecia per un certo periodo, un tipo dai capelli rossicci e la carnagione molto chiara, che mi raccontò che in Grecia veniva regolarmente scambiato per peloponnesiaco.
Tra l’Arcadia e il Graal esiste un legame talmente vago che non varrebbe la pena di menzionarlo se i nostri autori non v’insistessero sopra parecchio: esiste un quadro di Henry Poussin, datato 1640, Les Bergers d’Arcadie (I pastori d’Arcadia) dove si vedono alcuni pastori attorno ad una tomba che reca l’iscrizione: Et in Arcadia ego, e riprende un quadro di soggetto identico del Guercino; si tratta di un’allegoria ma di significato nulla affatto esoterico, si riferisce alla morte, simboleggiata dalla tomba, Anche in Arcadia io (sottinteso, sono presente). Nel seicento, non occorrerebbe nemmeno ricordarlo, la vita dei pastori, la vita agreste di cui l’Arcadia era considerata il prototipo, era vista del tutto falsamente come uno stile di vita idilliaco e sereno, ed attorno a questo concetto che presupponeva ovviamente il non avere la più pallida idea di come vivesse realmente la gente nelle campagne, era sorta una scuola poetica che si denominava appunto Arcadia; il significato dell’allegoria è dunque chiarissimo: anche nelle condizioni di vita apparentemente più serene, la morte è sempre in agguato, e rappresenta l’esito ultimo ed inevitabile: una riflessione sconsolata sulla condizione umana.
Anagrammando Et in Arcadia ego, si ottiene I, tego arcana Dei (Vattene, io custodisco i segreti di Dio). Prendendo per buono un simile procedimento, cosa conterrebbe la tomba raffigurata? Le spoglie della Maddalena o di qualche discendente di Cristo, la coppa dell’Ultima Cena o che altro? Si tratterebbe dell’oggetto che la tradizione ci ha abituati a chiamare santo Graal? Il fatto è che giocando con gli anagrammi si può arrivare dove si vuole! Alcuni hanno creduto di riconoscere il paesaggio raffigurato nel quadro di Poussin, si tratterebbe di una zona di campagna nei pressi di una località a proposito della quale sono stati versati fiumi d’inchiostro: Rennes le Chateau, a prescindere ovviamente dal fatto che, se considerati da una prospettiva ad hoc, i paesaggi di campagna si somigliano un pò tutti.
Rennes le Chateau si trova nei Pirenei orientali, non distante da Montsegur che nel XIII secolo fu l’ultimo bastione della resistenza catara.
Verso la fine del XIX secolo, il curato di Rennes Le Chateau, Berenger Sauniere intraprese dei lavori di restauro nella chiesa parrocchiale. Certamente trovò qualcosa sotto l’altare della chiesa, qualcosa che gli consentì da allora in poi, di mostrare una disponibilità di denaro sorprendente per un curato di campagna, le cui rendite dovevano essere molto modeste, forse un tesoro dei Catari, e la cosa non sorprenderebbe per nulla, data la vicinanza con Montsegur, ma da qui a sostenere che il Graal c’entri qualcosa! Analogamente, non si può escludere che sia proprio un tratto della campagna di quella zona a fare da sfondo al quadro di Poussin, ma anche questo, in definitiva, cosa dimostrerebbe?
Torniamo al nostro argomento principale: i re merovingi, abbiamo visto che l’attribuzione a questa dinastia di un’origine ebraica attraverso il legame con gli Arcadi e gli Spartani, un’origine ebraica che avrebbe reso loro possibile imparentarsi con la discendenza di Gesù (ammesso che quest’ultima sia mai esistita!) è del tutto fantasiosa e storicamente improponibile, ma a questo punto è utile chiarire meglio il quadro storico che può non essere familiare a tutti.
Storicamente, le dinastie che regnarono sui Franchi e poi sulla Francia furono tre: i Merovingi, i Carolingi, i Capetingi. Questi ultimi, attraverso i rami cadetti dei Valois e dei Borbone tennero il trono francese fino alla rivoluzione del 1789 e poi dopo la caduta di Napoleone, fino al 1848, occuparono molti altri troni e furono con ogni probabilità la più longeva e ramificata dinastia d’Europa.
I Merovingi sono la dinastia franca più antica, erano già sovrani dei Franchi prima della loro conversione al cristianesimo, e prima che questi passassero il Reno insediandosi nella Gallia romana che sarebbe divenuta l’attuale Francia, prendono il nome da uno dei sovrani noti più antichi di questa famiglia, Meroveo, ma le notizie che si hanno sul suo conto sono scarsissime, si limitano a poco più del nome, tuttavia il personaggio più importante è senza dubbio Clodoveo che regnò fra il 481 e il 511 e fu il vero fondatore del regno franco, e che si convertì al cristianesimo nel 496. (Dal nome di questo sovrano, Clodwig alla germanica, Clovis alla latina – francese, viene Louis, Luigi, che fu il nome più ricorrente fra i re di Francia).
Dopo Clodoveo, il regno merovingio fu più volte smembrato e paralizzato spesso dalle lotte dinastiche, e questo permise ai maestri di palazzo della casa carolingia di prendere nelle loro mani il potere effettivo. Nel 732 il maestro di palazzo Carlo Martello guidò i Franchi alla grande vittoria di Poitiers contro gli Arabi di Spagna che, valicati i Pirenei minacciavano di travolgere il regno franco e l’intera cristianità occidentale. Il prestigio così conseguito permise a Pipino il Breve figlio di Carlo Martello di deporre nel 751 l’ultimo re merovingio, Childerico III che fu rinchiuso in convento dove morì nel 754, e proclamarsi re dei Franchi. Il figlio di Pipino il Breve, Carlo Magno fu il sovrano più illustre di questa dinastia, il fondatore del Sacro Romano Impero, che estese il dominio franco alla Germania, all’Italia, a parte della penisola iberica. I carolingi (da Carolus, versione latinizzata di Karl, Carlo) prendono il nome da Carlo Martello e/o da Carlo Magno. Nell’887 l’ultimo sovrano carolingio, Carlo il Grosso, che si era dimostrato inetto nel difendere il regno dalle scorrerie normanne, fu deposto dalla feudalità, ed il Sacro Romano Impero fu smembrato nei tre regni di Francia, Germania ed Italia. I feudatari francesi assegnarono il regno al conte di Parigi, Ugo Capeto, che fu l’iniziatore della dinastia capetingia destinata a tenere il trono fino al 1848.
Nel 962 il re di Germania Ottone I di Sassonia conquistò l’Italia e ricostituì il Sacro Romano Impero in forma bi – nazionale, ed in questa forma esso sopravvisse, attraverso varie vicissitudini storiche, fino al 1806, ma la Francia rimase allora e fino ai nostri giorni una nazione indipendente.
Questo è il quadro storico, ed a questo punto poniamoci una domanda imbarazzante per la costruzione elaborata dai tre autori della BBC: se i Merovingi erano i discendenti di Cristo, come mai rimasero pagani fino al 496, fino a quasi cinque secoli dopo quella che per i credenti è l’incarnazione? Sono gli stessi autori del libro ad evidenziare questa contraddizione rispetto alla loro tesi, ricordando che san Remigio, vescovo di Reims, che battezzò Clodoveo, lo invitò non solo a bruciare ciò che fin allora aveva adorato (gli idoli pagani) ma anche ad adorare ciò che fin allora aveva bruciato (i simboli e le chiese cristiane), il che lascia intendere che prima della conversione del 496, conversione improvvisa e probabilmente non meno politica di quella di Enrico IV un millennio più tardi, l’atteggiamento del sovrano franco verso i cristiani non doveva essere stato esattamente tenero, il che è molto strano per un discendente di Cristo!
Al momento culminante della cerimonia [del battesimo], san Remigio pronunciò le famose parole:
Mitis depone colla, Sicamber, adora quod incendisti, incendi quod adorasti. (China umilmente la testa, o Sicambro, adora ciò che bruciavi, e brucia ciò che adoravi)
(pag. 261).
Un punto abbastanza sorprendente è che gli autori mostrano grande meraviglia per il fatto che con il battesimo di Clodoveo, la Chiesa cattolica sembra prendere un atteggiamento ambiguo a mezza strada fra la creazione di una nuova monarchia ed il riconoscimento di una situazione preesistente. In realtà, questo è assolutamente tipico dell’epoca a cui ci riferiamo, e non capirlo significa non comprendere né la mentalità medievale nè l’immensa arroganza della Chiesa del tempo.
È importante notare che il battesimo di Clodoveo non fu un’incoronazione, contrariamente a quanto talvolta sostengono gli storici. La Chiesa non nominò re Clodoveo. Clodoveo era già re, e la Chiesa non poteva far altro che riconoscerlo (Ibid.)
Dobbiamo considerare che la Chiesa cattolica si riteneva a tutti gli effetti la rappresentante esclusiva di Dio in Terra, ed in quanto tale rivendicava il diritto di amministrare, spiritualmente e materialmente ogni cosa esistente sulla Terra, che solo con il battesimo ed alla precisa condizione di mantenersi devoto seguace della Chiesa stessa, l’uomo riceveva personalità giuridica (un’espressione ancora oggi in uso come, i cristiani e le bestie, la dice lunga al riguardo), che per conseguenza, ciò che appartiene a un pagano è una res nullius di cui la Chiesa può liberamente disporre, e che perciò può dare in concessione (sempre revocabile) al momento del battesimo a chi l’ha fin allora sempre posseduta. Noi vediamo un’eco di questa concezione nell’atteggiamento degli storici che si occupano dell’alto Medio Evo: capita che quello che prima era un capotribù viene promosso a re al momento del battesimo, diventa addirittura il primo sovrano ed il fondatore della propria dinastia anche se era salito su un trono che i suoi antenati detenevano già da secoli. È successo con Clodoveo, è successo anche, ad esempio con Stefano I d’Ungheria, divenuto dopo essersi convertito, primo re di una nazione che i suoi antenati governavano da secoli.
Allo stesso modo, poiché ciò che appartiene a dei non cristiani è res nullius, la Chiesa si riteneva libera di farne dono a chi volesse, così ad esempio, fu fatto re di Sicilia il normanno Roberto il Guiscardo molto prima che questi togliesse l’isola ai saraceni, e la successiva conquista non fu affatto una conquista, un’usurpazione, una rapina: un uomo sarà pure libero di sbarazzarsi delle bestie che infestano la sua proprietà. È da notare che nello stesso modo furono date ai Normanni le terre dell’Italia meridionale che appartenevano agli eretici bizantini, dal che si arguisce che la condizione per essere ritenuto cristiano e quindi realmente uomo non è credere in Cristo, ma ubbidire al papa.
Assieme alla grazia del battesimo la Chiesa si riserva sempre il diritto di revocare la proprietà di un uomo su ciò che possiede, od almeno di sospenderla, ed è questo il motivo per il quale la scomunica (letteralmente esclusione dalla comunità dei credenti) o anatema (termine che ha lo stesso significato e viene dal greco ana – temno, tagliare via) era un’arma così potente nelle mani della Chiesa medievale, temuta in particolare dai sovrani, perché faceva venire meno il giuramento di fedeltà dei feudatari, che di solito non aspettavano di avere altro che il pretesto per ribellarsi, in modo da conseguire maggiore autonomia e potere.
Appunto in ragione delle scomuniche inflitte all’imperatore Federico II ed a suo figlio Manfredi, la Chiesa si ritenne in diritto di trasferire nel 1266 il regno di Sicilia dalla casa di Svevia a quella d’Angiò, ed è da notare il particolare che merita di essere ricordato ad imperitura vergogna di questi sedicenti rappresentanti terreni della divinità, che il corpo di Manfredi, caduto alla testa dei suoi uomini nella battaglia di Benevento, e sepolto dai suoi soldati, fu fatto disseppellire e buttare fra i rifiuti dalle autorità ecclesiastiche: una bestia non aveva il diritto alla sepoltura.
Torniamo ai nostri Merovingi: nel 679, il re Dagoberto II fu fatto uccidere a tradimento, e la sua famiglia fu fatta massacrare dal maestro di palazzo Pipino di Heristal, padre di Carlo Martello e bisnonno di Carlo Magno. Questa strage fu avallata, od almeno non fu troppo biasimata dalle autorità ecclesiastiche, poiché Dagoberto aveva mostrato un’eccessiva autonomia e non troppo rispetto per le prerogative della Chiesa. Non fu l’estinzione immediata della stirpe merovingia che continuò attraverso rami cadetti per altri tre quarti di secolo, fino a Childerico III, ma il declino era ormai totale: è il periodo di quelli che sono stati calunniati come re fannulloni, in realtà re impossibilitati ad agire, spesso troppo giovani per regnare realmente, fatti e disfatti a loro talento dai maestri di palazzo carolingi, che infine li soppiantarono anche di diritto.
Secondo i documenti del Priorato, ma solo secondo essi, senza nessun altro appiglio storico, uno dei figli di Dagoberto, Sigisberto, sarebbe sopravvissuto alla strage, ed attraverso lui la stirpe merovingia si sarebbe perpetuata fino ai nostri giorni; una storia che ricorda molto quella della sedicente Anastasia, presunta figlia dello zar Nicola II che sarebbe sopravvissuta al massacro di Ipatiev, e che oggi sappiamo per certo essere stata un’imbrogliona che in realtà nulla aveva a che spartire con la casa imperiale russa.
È noto che la fondazione del Sacro Romano Impero avvenne in maniera alquanto bizzarra: Carlo Magno, che fino a quel momento era semplicemente re dei Franchi, invitato a Roma per una messa solenne la notte di Natale dell’anno 800, fu incoronato a sorpresa dal papa imperatore romano, ed è anche noto che questo insolito regalo di Natale non fu per nulla gradito dal sovrano franco, che manifestò un vivo disappunto.
Sembra che Carlomagno [gli autori usano questa grafia, dal francese Charlemagne, personalmente ritengo che Carlo Magno sia più corretto e preferibile] fosse dolorosamente consapevole del tradimento implicito nella sua incoronazione. Secondo le cronache contemporanee, l’incoronazione fu un’accurata messa in scena, predisposta dal papa all’insaputa del monarca franco; e sembra che Carlomagno fosse sorpreso e profondamente imbarazzato. Era già stata preparata di nascosto una corona. Carlomagno era stato attirato a Roma e indotto ad assistere a una messa solenne. Quando prese posto in chiesa, il papa senza preavviso, gli posò sulla testa il diadema, mentre il popolo lo acclamava Carlo, Augusto, incoronato da Dio, grande e pacifico imperatore dei Romani. Per ripetere le parole di un cronista del tempo, Carlomagno disse chiaramente che non sarebbe entrato nella cattedrale quel giorno, sebbene fosse la più grande di tutte le festività della Chiesa, se avesse saputo in anticipo ciò che intendeva fare il papa (pag. 273).
Questo brano è tipico della maniera che hanno gli autori di travisare le cose a sostegno delle loro tesi; danno ad intendere che Carlo Magno fosse riluttante ad assumere quella corona che suo padre, Pipino il Breve aveva strappato ai Merovingi con un’usurpazione che sarebbe stata anche un sacrilegio, ammesso che questi ultimi fossero realmente la discendenza di Cristo, la famiglia del Graal.
La realtà dei fatti storici è ben diversa: Carlo Magno era divenuto re dei Franchi nel 768, aveva accettato quella corona usurpata ai Merovingi da suo padre 17 anni prima senza alcuna remora, non solo, ma nel 771 vi aveva aggiunto anche la parte spettata al fratello Carlomanno, approfittando della morte di quest’ultimo e privando i suoi nipoti della loro eredità. Il motivo per il quale l’incoronazione a imperatore romano provocò il suo disappunto, anche questo è noto, era completamente diverso, e non aveva nulla a che fare con i Merovingi: nel 476, dopo che Odoacre ebbe deposto Romolo Augustolo, l’ultimo, effimero imperatore romano d’occidente, egli spedì le insegne imperiali a Bisanzio. Il significato di ciò era chiaro: l’imperatore bizantino era l’unico e solo imperatore romano. Questo per Bisanzio non era un riconoscimento simbolico, l’impero bizantino aveva sempre mostrato di considerare l’insediamento dei regni barbarici nell’impero occidentale come un accidente temporaneo cui occorreva porre fine, tanto è vero che sotto Giustiniano, dal 533 al 554, Bisanzio aveva intrapreso una serie di campagne militari intese a riportare sotto il suo controllo i territori che avevano fatto parte dell’antico impero romano, strappando l’Africa del nord ai Vandali, l’Italia agli Ostrogoti, gran parte della Spagna ai Visigoti, solo il regno dei Franchi nella Gallia e parte della Spagna visigota erano rimasti fuori dalla riconquista.
Questa elevazione ad imperatore romano del sovrano franco non aggiungeva nulla al suo potere effettivo, e creava un incidente diplomatico con i Bizantini proprio nel momento in cui Carlo Magno cercava di arrivare ad un accordo con loro. In più, Carlo era un politico abbastanza scaltro e lungimirante da accorgersi che, arrogandosi il diritto di fare e disfare gli imperatori, la Chiesa metteva una pesante ipoteca sul regno dei suoi successori.
Spostiamoci in avanti di sette secoli. Tra il 1574 ed il 1589 la Francia attraversò una delle crisi più gravi della sua storia. In quel periodo sedeva sul trono francese Enrico III, ultimo della casa di Valois. Egli era succeduto al padre, Enrico II ed a due fratelli morti uno dopo l’altro in giovane età, e non c’erano altri Valois viventi; in più, si sapeva che egli, notoriamente omosessuale, non poteva avere discendenti; egli nominò erede testamentario il proprio parente più prossimo, il re di Navarra Enrico di Borbone, pure quest’ultimo appartenente ad un ramo cadetto dei Capetingi, ma c’era un grosso ma; non solo Enrico di Borbone era protestante ma addirittura il capo riconosciuto degli Ugonotti, i protestanti francesi, e ciò arrivava in un momento nel quale la lotta fra cattolici e protestanti, lotta armata estremamente sanguinosa era al culmine in Francia, era divenuta inarrestabile dal 1559, quando la morte prematura ed improvvisa di Enrico II, rimasto ucciso in un torneo, aveva lasciato la corona in una posizione di estrema debolezza.
Gli Ugonotti, i protestanti francesi, erano una minoranza, e la grande massa del popolo francese era rimasta cattolica, ma si trattava di una minoranza che reclutava i suoi adepti fra la nobiltà e l’alta borghesia imprenditoriale, una minoranza molto ben organizzata e che deteneva molte posizioni di potere.
I cattolici francesi insorsero, guidati dalla potente famiglia dei Guisa, ed il capo di questa casa – che per un bizzarro caso si chiamava anch’egli Enrico – fu considerato dai cattolici francesi l’erede legittimo al trono in ragione di un’ascendenza piuttosto vaga che i Guisa vantavano – o pretendevano di vantare – con i Carolingi.
La guerra civile che ne derivò, per questo motivo, è ricordata dagli storici come la guerra dei tre Enrichi.
La Spagna, la Spagna di Filippo II, che era allora lo stato più potente d’Europa, intervenne con le sue truppe a sostegno dei cattolici francesi e della casata di Guisa; all’ambizioso monarca spagnolo non dovette essere parso vero di avere l’occasione di attirare la Francia nella sua orbita. La situazione parve divenire ingovernabile quando, nel 1589, un fanatico cattolico uccise re Enrico III in un attentato.
A questo punto, però, Enrico di Borbone fece un’abile mossa che spiazzò tutti, si convertì al cattolicesimo.
Di colpo, quella che era iniziata come una guerra civile con motivazioni religiose, si trasformò in una lotta di liberazione dei Francesi contro gli invasori spagnoli, ed i Guisa si trovarono trasformati da pretendenti al trono, in una casa di traditori al servizio della Spagna, mentre Enrico di Borbone s’insediava trionfalmente sul trono francese come Enrico IV. Occorre dire che la casa di Guisa è una di quelle che, secondo Baigent, Leigh e Lincoln, i documenti del Priorato (posto che simili documenti esistano davvero) indicano come di ascendenza merovingia, quindi facente parte della famiglia del Graal, dei discendenti di Cristo. Se questo fosse vero, quello sarebbe stato il momento per i Guisa, per la famiglia del Graal di rivendicare apertamente la propria eredità, e per il Priorato di Sion, ammesso che tale associazione esistesse davvero e non sia un’invenzione moderna, di uscire allo scoperto, di farsi avanti.
Se tanto avesse una sia pur minima base storica, i Guisa avrebbero avuto ancora parecchie carte da giocare: un’ascendenza merovingia sarebbe stata un titolo di rivendicazione del trono francese molto più persuasivo di quella carolingia (se prescindiamo dalla figura eccezionale di Carlo Magno, i Carolingi non fanno una gran bella figura nella storia francese: guadagnarono il trono con l’omicidio – l’assassinio di Dagoberto II – e con l’usurpazione, e lo persero per inettitudine), tanto più se, in quanto merovingio, Enrico di Guisa avesse potuto, con l’aiuto del Priorato di Sion, provare di discendere addirittura da Gesù Cristo!
Che la conversione di Enrico di Borbone al cattolicesimo fosse tutta strumentale e politica, questo non sfuggiva a nessuno; l’aveva ammesso lo stesso interessato con la famosa frase: Parigi val bene una messa, ed erano in molti a reputarlo anche dopo di essa un pericolo per la fede cattolica, al punto che finì egli pure, come il suo predecessore, assassinato da un fanatico cattolico nel 1610 (non prima, però, di aver assicurato la continuità della dinastia nella persona di suo figlio Luigi XIII).
(I libelli sfornati all’epoca dalla pubblicistica cattolica per giustificare gli assassini di Enrico III e di Enrico IV e che arrivano a teorizzare senza tante perifrasi la liceità del regicidio, sono una lettura interessante ancora oggi, anche se si ha l’impressione di non riuscire più a distinguere la differenza fra la Chiesa cattolica e le Brigate Rosse).
Se tutto ciò non è avvenuto, una sola spiegazione è possibile: La casa di Guisa non discendeva dai Merovingi che si sono con ogni verosimiglianza estinti con la morte di Childerico III nell’anno 754, e nulla prova che fossero discendenti di Gesù Cristo, e non vi sono indizi che il fondatore della religione cristiana abbia lasciato discendenti, che il Priorato di Sion, o non è mai esistito o si tratta di un’invenzione moderna, che i documenti del Priorato, se esistono, sono una ricostruzione fantasiosa di certi avvenimenti storici, o, per usare un termine più tecnico, una bufala.
La pista del Graal cristiano finisce nel nulla, tuttavia vi è un senso che ha questo mito così centrale nella cultura europea, che gli autori hanno evitato, si direbbe in maniera deliberata, di esplorare. Suppongo che ve ne siate già accorti anche voi: non è perlomeno strana una trattazione del Graal opera di autori inglesi nella quale si evitano di menzionare le Isole Britanniche ed il ciclo arturiano, le storie della Tavola Rotonda?
In realtà la cosa non è per nulla così strana, se si vuole presentare una lettura del mito del Graal in chiave esclusivamente cristiana, poiché non è possibile collocare questo mito nel contesto del ciclo arturiano senza che ne balzino agli occhi le origini celtiche, pre–cristiane e pagane. Stranamente, gli autori, mentre si dimostrano fin troppo creduli, per non dire sensazionalistici circa tutti gli altri aspetti del mistero del Graal, avallando anche versioni contraddittorie, a cominciare dai documenti del Priorato che nulla prova non siano il lavoro di qualche arguto burlone, riguardo alle origini britanniche della leggenda, manifestano un sorprendente scetticismo:
Ormai incominciavamo a chiederci se la preminenza assegnata alla Britannia dai commentatori dei romanzi del Graal non fosse frutto di un errore (pag. 327).
Ed aggiungono in una nota a pag. 336 che ciò Può essere un’eco del fatto che re Dagoberto trascorse la fanciullezza in Bretagna. Bretagna che, si noti, non significa la penisola bretone, bensì le Isole Britanniche, infatti, Dagoberto:
Crebbe nel monastero irlandese di Slane, non lontano da Dublino; e nella scuola annessa al chiostro ricevette un’istruzione di gran lunga superiore a quella che avrebbe potuto ricevere nella Francia di quei tempi. Sembra che durante questo periodo frequentasse la corte del Sommo re di Tara. Inoltre fece amicizia con tre principi di Northumbria che studiavano anch’essi a Slane. Nel 666, probabilmente quando viveva ancora in Irlanda, Dagoberto sposò Matilde, una principessa di stirpe celtica. Poco tempo dopo si trasferì dall’Irlanda in Inghilterra e si stabilì a York, nel regno di Northumbria. Qui si legò di stretta amicizia con san Wilfrid, vescovo di York, che divenne il suo mentore(pag. 264).
Tutto ciò può essere, ma non si vede in che modo possa aver dato origine al Ciclo Bretone. Re Artù è nominato solo di sfuggita, per proporre una discutibile etimologia del suo nome, che si ricollegherebbe al greco artos, orso, messo in relazione con il fatto che l’orso era l’animale totemico sacro dei Sicambri (che strano che dei discendenti della tribù ebraica di Beniamino e poi addirittura di Gesù venerassero un animale totemico!), ma forse il massimo dell’umorismo involontario gli autori lo raggiungono quando ci spiegano che Perceval le Galois non vorrebbe dire il gallese, ma sarebbe una deformazione di Valois, il Vallese, e per conseguenza dovremmo forse tradurre Perceval lo svizzero.
C’è insomma un chiaro lavoro di coverage, di depistaggio. Il mito del Graal non può avere origini celtiche – britanniche perché non deve avere scaturigini e significati pagani. Più ci si attiene a questi singolari criteri interpretativi, più le bizzarrie aumentano; si veda a pag. 304:
Le fondamenta pagane dei romanzi del Graal sono state esplorate in modo esauriente da molti studiosi, da Sir James Frazer nel Ramo d’oro fino ai nostri giorni. Ma nella seconda metà del secolo XII la base originariamente pagana dei romanzi del Graal subì una trasformazione curiosa e di straordinaria importanza. In un modo oscuro che finora ha eluso le indagini dei ricercatori, il Graal fu associato esclusivamente e specificatamente al cristianesimo, anzi, a una forma di cristianesimo non molto ortodossa. Con un enigmatico processo di fusione, il Graal venne collegato inestricabilmente a Gesù. E sembra che non si trattasse soltanto di un facile e disinvolto innesto di tradizioni pagane e cristiane.
Bizzarro è il meno che si può dire: dunque, un mutamento nell’interpretazione letteraria di un simbolo, avrebbe avuto il potere di cambiare la storia precedente, alterando l’universo reale e creando la stirpe dei discendenti di Gesù? Strano, molto strano: se gli autori dei romanzi cavallereschi avessero avuto un tale potere, sarebbero stati infinitamente più magici dei loro personaggi!
Separare il Graal dal Ciclo bretone e dal mondo celtico, è però meno facile di quel che sembrerebbe, ed una chiara dimostrazione visiva involontaria di ciò è data proprio dalla copertina di questo libro (almeno nell’edizione italiana): tra i vari calici e coppe che si potevano impiegare per impersonare il Graal, cosa va a riportare la copertina del libro? Ma si, proprio il calice di Ardagh, capolavoro dell’oreficeria celtica medievale irlandese!
Io credo, a differenza dei tre giornalisti inglesi, che per comprendere quale sia il reale significato del mito del Graal sia necessario in primo luogo rifarsi al contesto nel quale esso è nato, cioè esattamente il luogo e l’epoca, la Britannia del V secolo, proprio come se, per fare un esempio, se non vogliamo perdere del tutto di vista il significato di del mito di Atlantide, è al testo di Platone che dobbiamo rifarci, non cercarla a Santorini, in Antartide o magari nel giardino di casa.
La Britannia del V secolo, sgombrata dalle legioni romane e che si apprestava a sostenere l’urto dei barbari anglosassoni; quella arturiana è la storia di un’epopea militare, ma è anche qualcosa di più.
Solo in tempi piuttosto recenti gli storici hanno iniziato a rendersi conto che il mondo romano antico non ha mai costituito, nemmeno nel momento del suo massimo fulgore, una realtà totalmente unificata, e che di fatto la conquista romana e poi la cristianizzazione si sovrapponevano come un lieve sostrato su di una serie di culture indigene nelle quali il livello di profondità cui era giunta l’assimilazione di elementi culturali romani, e poi del cristianesimo, variava considerevolmente da luogo a luogo.
Il ritirarsi progressivo dell’amministrazione romana al seguito delle legioni con le quali era venuta (gli imperatori della decadenza cercavano di salvare il nucleo dell’impero abbandonando al loro destino le regioni periferiche) ed il retrocedere, in molti casi, della stessa evangelizzazione compiuta dai preti cristiani, lasciarono spazio al risorgere delle culture indigene.
Erano Britanni non molto diversi da quelli vissuti prima della conquista romana, quelli cui toccò far fronte all’invasione anglosassone, sui quali, benché si dichiarassero cristiani, il cristianesimo aveva agito in maniera molto superficiale; ed il ciclo arturiano non è altro che l’epopea, trasfigurata secondo il linguaggio del mito, della loro resistenza.
Forse della rinascita delle culture indigene, proprio il Ciclo Bretone e l’epopea di Artù sono gli esempi più noti, ed allora una cosa è evidente: questa cultura è ancora pagana – druidica sotto una crosta di cristianizzazione superficiale. Artù è il re sacrale, re – guerriero incarnazione di Lug, Merlino ha tutte le caratteristiche del druido; egli tuttavia ad un certo punto è ferito o malato, ha una piaga che non si risana, conseguenza di una caduta morale, dell’incesto con Morgana, anche se egli è stato attratto con l’inganno in questo insano rapporto.
Bisogna notare anche che Artù è molto più di un semplice governante, è un re sacrale, pontifex secondo la concezione antica, ossia colui che è chiamato a fare da ponte fra la terra e il cielo, fra l’ordine umano e l’ordine divino, ad incanalare sulla terra le energie cosmiche che la fanno vivere, per cui la sua condizione produce l’inaridimento della terra.
Cosa è il Graal che i suoi cavalieri debbono ritrovare per ridargli la salute e la forza, il potere di governare?
Coppe o calderoni magici erano impiegati nelle cerimonie di consacrazione dei sovrani celtici, e con ogni evidenza Artù, per recuperare il suo ruolo regale ed i poteri mistici necessitava di essere riconsacrato probabilmente con la stessa coppa impiegata alla sua incoronazione. Che poi per una popolazione che aveva preso a professarsi superficialmente cristiana, con un tipico processo sincretistico un simile oggetto si confondesse con la coppa impiegata dai preti nell’eucaristia, è proprio l’ultima cosa che possa stupire.
L’idea stessa di una regalità sacrale è un’idea non cristiana. Il sovrano che è pontifex, ponte fra l’ordine umano e la dimensione trascendente, come Artù è, è una concezione inaccettabile per il cristianesimo, è il prototipo del re pagano. La Chiesa ha sempre insistito su questo punto: Dopo Cristo, nessun uomo può essere re e sacerdote, e non a caso, perché un potere politico interamente desacralizzato non è in grado di dare quei valori morali senza i quali la convivenza umana diventa impossibile, ed è costretto a cercarli altrove, a richiederli alla Chiesa stessa. Ricordate le parole di Massimo Cacciari che ho riportato nel mio scritto Verso una nuova rivoluzione spirituale dell’uomo europeo?:
Il cristiano è necessariamente sovversivo verso qualsiasi potere politico che si pretenda autonomo.
Attraverso il simbolismo del Graal riemerge una concezione che non solo non è cristiana, ma con il cristianesimo è incompatibile, e se abbiamo capito questo, abbiamo portato a termine positivamente la nostra ricerca del Graal, indipendentemente dalla sopravvivenza o dal ritrovamento del Graal inteso come oggetto materiale.
Il Graal è un potente simbolo, un archetipo che attraversa tutta la cultura europea e la ricollega alle sue origini pagane.
In questa prospettiva, anche i Catari ed i Templari trovano una collocazione, indipendentemente da quella che può essere una connessione diretta: i Catari come espressione di una religiosità autoctona dell’Europa, di una spiritualità indipendente da quel fondo mediorientale, semitico non – europeo da cui il cristianesimo è emerso, e che si porta dietro come marchio indelebile e perenne conflitto con l’anima profonda dell’Europa, una spiritualità che la Chiesa cattolica è riuscita a sopraffare (od a sopraffarne la manifestazione esteriore più evidente) soltanto con il ricorso alla violenza più feroce. I Templari come modello di una religiosità virile ed eroica in realtà profondamente estranea al cristianesimo, che la Chiesa ha dovuto suscitare durante l’epoca delle crociate, per poi allontanare da sé e cancellare, ancora una volta, nella maniera più brutale. A conclusione della nostra pista del Graal, quel che noi troviamo non è, come pensano i tre giornalisti inglesi, un cristianesimo alternativo, ma un’alternativa al cristianesimo.


Nell'immagine, Sir Galaad, il più puro dei cavalieri della Tavola Rotonda e, secondo la leggenda, l'unico che riuscì a trovare il Sacro Graal.

Documento inserito il: 22/12/2014
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