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Le scienze nell’Occidente latino medievale da Gerberto di Aurillac alla Scuola di Chartres

di Davide Arecco


Il primo papa francese della storia e la rinascita dell’anno Mille

Nella storia tanto della Chiesa quanto della scienza una figura chiave, nota solo a specialisti di settore, ma importantissima, da più punti di vista, fu quella di Gerberto di Aurillac (940-103), Papa, con il nome di Silvestro II, dal 999. Nato in Alvernia, il pontefice dell’anno Mille fu uno studioso e un religioso molto prolifico. Entrò, infatti, in contatto con la cultura arabo-islamica e la investigò, in diversi aspetti, introducendone in Europa occidentale le conoscenze aritmetiche ed astronomiche. In possesso di una mente curiosa e di uno spirito versatile, aduso tanto alle scienze applicate, quanto al sapere teologico tradizionale, Gerberto di Aurillac impressionò papi ed imperatori, per la profonda e vastissima cultura che lo contraddistingueva, praticando l’insegnamento e raggiungendo quindi i più alti vertici ecclesiastici nell’arcivescovado di Reims e, poi, a Ravenna, prima di diventare nel 999 la guida della cristianità. Una guida talora controversa e discussa, complice la leggenda nera che di lui accompagnò per un certo tempo la figura e di cui a breve si dirà.
Guida e principale educatore del giovane Imperatore Ottone III, Gerberto cercò, assieme a lui, di restaurare l’ordine tanto politico, quanto religioso europeo del saeculum obscurum, promuovendo la Renovatio Imperii. Il suo pontificato, per quanto breve, fu inoltre estremamente attivo, dal punto di vista missionario, nelle disposizioni canoniche relative alla morale religiosa, e nella difesa della cristianità, in generale. La riscoperta, in termini positivi, di Gerberto fu effettuata da Cesare Baronio negli Annales ecclesiastici, consentendo agli studiosi e al clero di scoprire l’alto valore intellettuale e istituzionale dei progetti di riforma dei quali il papa si fece attivo portavoce.
Venuto al mondo in una famiglia dell’Alvernia, di umili origini (stando al Liber pontificalis), Gerberto crebbe nelle terre del Ducato di Aquitania e entrò tredicenne nel Monastero benedettino di Aurillac, lì allevato, ed istruito nelle sette arti liberali. In principio, la sua giovanile predilezione si manifestò soprattutto per retorica, grammatica e studio degli autori antichi. La vera svolta avvenne, per lui, con il soggiorno in Spagna, nel 967, ospite, in Catalogna, del potente feudatario Borrell II di Barcellona. Gerberto portò quindi avanti gli studi, verso i quali mostrava marcata attitudine, sotto la guida del vescovo di Vic, che lo introdusse alle matematiche. Negli anni successivi, il francese fu a contatto con il mondo musulmano, ed in particolare con la cultura scientifica araba, all’epoca al suo apogeo. Nel medesimo periodo, Gerberto fece la conoscenza del canonico Sunifred Lobet, autore di una dissertazione De astrologia, intrisa di riferimenti alla scienza islamica di allora. Inoltre, presso l’abbazia catalana di Santa Maria di Ripoll, poté leggere codici manoscritti di Boezio e di Isidoro di Siviglia, numerosi trattati sulla musica (una delle arti del quadrivio), e sulla magia naturale, classici scientifici greci e latini. Acquisì pertanto in un tempo relativamente breve un bagaglio culturale e un sistema di conoscenze che lo posero all’avanguardia, per l’epoca. Proprio le sue competenze in ogni ramo del sapere sarebbero state all’origine del mito del papa mago, diffuso a seguito della sua morte e durato sino al Rinascimento e a inizio Seicento almeno.
Nel 970, Gerberto giunse in pellegrinaggio a Roma, ove poté conoscere il Papa Giovanni XIII e l’Imperatore Ottone I. Protetto papale e nelle grazie poi anche di Ottone II, Gerberto ottenne – per mezzo del vescovo Adalberone – la docenza presso la Scuola cattedrale di Reims, Qui, impiegò per le lezioni, oltre ai commenti boeziani ad Aristotele e Cicerone, anche fonti pagane – una novità, per l’epoca – tra cui Terenzio, Virgilio, Orazio, Lucano, Stazio, Persio e Giovenale. Non solo i cristiani, pertanto, erano presi in considerazione dall’insegnamento enciclopedico dell’erudito francese. Tra i suoi allievi, il dotto transalpino ebbe Gerardo di Cambrai, Leuterico di Sens, Bruno di Langres ed infine Roberto di Francia. Una vera scuola, tesa a valorizzare i classici del passato, non importava a quale fede fossero appartenuti, il che conferma l’atteggiamento didattico di Gerberto, spregiudicato e disinvolto, incurante di differenze confessionali o barriere culturali. Il sapere era per lui uno solo, un diamante a più facce, a prescindere dalla latitudine di provenienza, e come tale egli lo insegnava a lezione ai suoi studenti. Di loro formò la mente, avviandone diversi a una brillante carriera.
Gerberto venne nominato a quel punto abate dei Monaci Colombiani di Bobbio, sede religiosa il cui prestigio culturale era al tempo altissimo e il cui scriptorium un vero scrigno di conoscenze. A Bobbio, Gerberto poté consultare con frutto, fra i diversi altri, il Codex Arcerianus (VI-VII secolo), contenente frammenti latini di autori romani e greci, e di cui si servì, insieme al De arte arithmetica di Boezio, per la stesura tra 981 e 983 del suo trattato De geometria. Con la morte però di Ottone II, si aprì una stagione di torbidi politici con protagonisti Ugo Capeto, Lotario IV, Luigi V ed i vescovi franco-tedeschi. La discendenza carolingia si estinse e lo scenario restò quanto mai incerto. Tra 991 e 996, Gerberto lottò a lungo per ottenere l’arcivescovado di Reims, appoggiato da Carlo di Lorena, ma la questione si trascinò lungamente e la stessa elezione del dotto e prelato francese fu contestata, da Roma, nella persona di Gregorio V. Ad ogni modo, Gerberto proseguì per la propria strada, ogni giorno più desideroso – lo pervadeva, in effetti, un afflato quasi messianico – di riscattarsi e di porre finalmente in atto il suo programma di Renovatio Imperii. Al servizio di quest’ultimo progetto, fece missioni politico-religiose alla corte ottoniana di Magdeburgo, dove divenne amico di Adalberto di Praga, vescovo dell’Europa orientale e figura di grande rilevanza della corte imperiale germanica di allora, del quale negli anni tardi abbozzò un profilo biografico rimasto incompiuto.
Nell’aprile del 998, Gerberto fu nominato arcivescovo di Ravenna, e rimise in ordine il clero, secolare e regolare, di Rimini e Pesaro. Divenuto pontefice, l’anno dopo, con il nome di Silvestro II, Gerberto avviò un vasto e ambizioso programma: il Papa e l’Imperatore avrebbero governato Roma, in collaborazione, in modo quindi diretto ed armonico, secondo le linee di una combinazione attiva fra potere regale e potere religioso. L’azione di Silvestro II si svolse infatti a fianco di Ottone III, di cui era stato anni prima precettore. Nel suo governo di Roma il pontefice voleva adoperarsi affinché i popoli si avviassero verso la salvezza cristiana, in un clima di pace. Conseguentemente, nei primi tempi, il governo di Roma fu in mano al tedesco Ottone III, il quale si pose come nuovo Imperatore romano, attualizzando ed aggiornando i modelli tardo-antichi di regalitas sacerdotale. Nel governo, invece, della Chiesa, Silvestro II colse la grande importanza della cristianizzazione delle terre slave, nella fattispecie polacche e ungheresi, che stavano crescendo di importanza, a est del regno tedesco, promuovendo la creazione di nuove chiese nazionali. In collaborazione con l’Imperatore, fondò così l’arcidiocesi di Gniezno, avamposto politico-religioso da cui si irradiò la cultura cristiano-romana in tutta l'area. In Ungheria, tramite il legato magiaro Astarico, il Papa concesse la corona reale al Duca Stefano di Arpad, fresco di conversione alla fede cristiana, costituendo in tale maniera, nel 1001, un Regno ungherese devoto a Roma, con capitale a Budapest.
Nel corso del suo pur breve pontificato, Silvestro II si diede molto da fare anche per appianare le dispute vescovili tra Magonza e Hildesheim. Inoltre, fondamentale fu il suo patrocinio accordato alla riforma cluniacense, strumento, anche, per contrastare nicolaismo, simonia e altri abusi. Quanto poi ai provvedimenti liturgici, con Silvestro II vi fu un incremento dei canti sacri, durante la liturgia in onore di angeli e Spirito Santo, nonché vari e potenti incentivi, dati in tutti i territori della Chiesa, alla commemorazione dei defunti. Il suo desiderio infine di proteggere cristiani e pellegrini, in Terra Santa, ha fatto parlare alcuni interpreti di uno spirito crociato avant la lettre, tuttavia il parallelo è di certo da non esagerare. Del resto le letture teleologiche alla ricerca di presunti precursori in storia di rado funzionano. Anzi, in verità mai. Semmai, anche e soprattutto sul piano scientifico-intellettuale, oltre che su quello strettamente religioso e istituzionale, Gerberto di Aurillac fu il profeta e paladino della così detta Rinascita dell’anno Mille: la promosse e ne incarnò i valori, favorendo un risveglio culturale destinato a fruttificare, lasciando segni, indelebili, pure nei due secoli successivi. Anche il pontificato gerbertiano, per quanto breve, fu al riguardo della massima importanza: un’importanza – religiosa, politica, scientifica – che nessuno dei suoi immediati successori sul soglio papale poté mai negare o ignorare.
Gerberto fu infatti il maggiore esponente sul versante intellettuale del X secolo, vera e propria figura di collegamento – e di svolta, per la fioritura, da lui promossa, nelle scienze e nella cultura – tra Alto e Basso Medioevo. Per un verso si rifece rivitalizzandola alla rinascita carolingia dei secoli precedenti, per un altro inaugurò tempi nuovi. Profondo e poliedrico conoscitore delle arti di trivio e quadrivio, interessato dopo il viaggio spagnolo sempre più alle seconde, Gerberto introdusse infatti, valendosi dei rapporti con il fronte più sviluppato della cultura araba di allora, l’uso dell’orologio e di una sirena, funzionante con il vapore acqueo. Pienamente consapevole di quanto fossero rilevanti macchine, congegni e strumenti – e di quanto in generale dal mondo delle tecniche potesse giungere a quello delle scienze – Gerberto fu l’inventore di complessi strumenti, musicali e astronomici, tra i quali l’organo a vapore, la clessidra ad acqua e sabbia e l’orologio notturno (il notturlabio). Durante il periodo trascorso a Reims, tali invenzioni vennero, da lui, già usate per le sue lezioni nella Scuola cattedrale: un’innovazione didattica che rompeva con il tradizionale schema della lectio ex cathedra e rappresentava un deciso sguardo rivolto al futuro. Anche da macchine e strumenti posti al servizio del sapere, oltre che dell’uso pratico, poteva per lui – un autentico pioniere, anche in questo – venire conoscenza. Una conoscenza nuova, applicata e rivolta a penetrare i meccanismi del mondo, sempre più incline a valorizzare marcatamente le scienze del quadrivio rispetto a quelle del trivio (predilette poi queste ultime dalla successiva scolastica aristotelica, sino alle soglie della prima modernità).
Gli strumenti erano per lui ostensivi: configuravano materialmente la meccanica della natura, più e meglio di tante parole e di tanti discorsi, a cui si rivolgevano ancora, invece, i cultori di logica, grammatica e retorica. Gerberto mise a punto un complicato sistema di sfere celesti, per calcolare le distanze inter-planetarie. Interessatissimo all’astronomia e alle tecniche di rilevamento celeste, nel 984 chiese per lettera all’iberico Lupito di Barcellona la traduzione di un trattato arabo dedicato alle meccaniche del cielo, le Sententiae astrolabii. Negli anni di Reims, fece inoltre costruire un organo idraulico, nettamente superiore a tutti gli strumenti musicali sino ad allora conosciuti e impiegati, in cui l’aria veniva immessa e pompata per via manuale. L’organo sarebbe stato nel XVI secolo ancora visibile a Ravenna.
In ambito matematico, Gerberto contribuì ad introdurre nell’Occidente latino l’uso dei numeri indo-arabi. Li aveva appresi alla scuola di Hatto, a Vich. Egli donò, poi, all’Europa due strumenti di valore e importanza storica incalcolabili, il cui uso fu lui a fare conoscere: l’astrolabio (perfezionato a Bobbio in forma sferica) e l’abaco, scoperto in Spagna a contatto con i dotti e uomini di scienza di fede islamica. Quella di Gerberto fu quindi una intelligenza eminentemente pratica e concreta. A lui non bastava leggere e commentare gli autori antichi. A partire da loro si doveva per lui procedere in nuove direzioni, scoprendo e allargando i campi del sapere. Le conoscenze di Gerberto erano molto profonde, la sua cultura quasi incomparabile per l’epoca: aperta e cosmopolita, nemica dei confini e di tutto sinceramente curiosa. Fu davvero un uomo universale, La sua attività scientifica si rivolse a matematiche ed astronomia, in particolare, dal punto di vista più pratico-applicativo che teorico. Per lui, come già per Boezio, i numeri costituivano, tra di loro, un movimento armonico dall’estensione cosmica: principio pitagorico poi alla base del mito moderno legato all’armonia musicale delle sfere celesti e planetarie: un mito che, si sa, passa per Keplero arrivando sino al XVIII secolo.
Anche quando si rivolse ad Aristotele per i corsi di dialettica, Gerberto lo fece recuperando ed introducendo a Reims, dello Stagirita, le Categorie, sino a quel momento note in maniera alquanto limitata nell’Europa medievale latina, lette e commentate invece nella loro interezza dai dotti arabi, nonché conservate nelle zone ellenizzate del nostro Mezzogiorno. Gerberto, suggestionato dall’uso delle Categorie fatto allora dalla cultura scientifica islamica, entrò probabilmente in possesso giusto in quel periodo dei codici manoscritti greci, contenenti appunto le opere logiche aristoteliche, recati con sé in Occidente da Giovanni di Gorze, monaco lorenese scomparso nel 976.
Anche fonti indirette ci confermano la levatura dell’aquinate. Dalla disputa tenuta, infatti, con Otrico da Ravenna, alla corte imperiale, il giorno di Natale del 981, si evince quanto Gerberto fosse a conoscenza – una conoscenza approfondita, va sottolineato – pure dell’opera agostiniana e quindi, implicitamente, della cultura neoplatonica antica e tardo-antica, destinata di lì a un secolo a rivivere nella scuola cattedrale di Chartres, per essere poi, molto più tardi, utilizzata anche da Galileo, nella sua gran polemica anti-peripatetica. Anche gli occhi di Gerberto, Aristotele andava sì conosciuto e studiato, ma per superarlo e senza dunque fermarsi rigidamente al suo insegnamento. La ragione era un dono di Dio da impiegarsi agostinianamente: come già aveva affermato l’ipponate nel De ordine, «namque illud quod in nobis est rationale, id est quod ratione utitur». Confidando nella ragione, una ragione usata tanto nello studio teologico quanto nella ricerca scientifica, Gerberto divise le diverse sostanze in soprasensibili, incorruttibili ed eterne, sensibili (soggette queste ultime a una corruzione che si insinua pure nell’animo umano).
Significativamente, delle diverse opere che Gerberto scrisse, la parte maggiore attiene alle arti del quadrivio: il contrario di quanto solitamente accadeva allora per un prelato. La filosofia naturale – ossia la scienza dei fenomeni – era al vertice delle sue attenzioni. Se in ambito ecclesiastico stese un Sermo de informatione episcoporum, un trattato eucaristico De corpore et sanguine Domini, e un compendio di atti conciliari, molto più numerose furono le sue opere di argomento scientifico, nello specifico gli scritti matematici. Oltre alla geometria – a metà strada fra Euclide, Eudosso e Pitagora, per contenuti e disposizione delle materie esaminate – Gerberto compose un Libellus de numerorum divisione, una dissertazione astronomico-geometrica De sphaerae constructione, una fondamentale Regula de abaco computi e un Liber abaci che principiarono la tradizione scientifico-matematica in seguito culminata nella produzione duecentesca di Leonardo da Pisa e continuata, in età mercantile, fra Toscana ed aree venete, sino a metà Quattrocento circa, un Libellus de rationali et ratione uti, il De commensuralitate fistularum et monocordi cur non conveniant e varie Epistolae, indirizzate, fra gli altri, a Re Stefano I d’Ungheria. In esse, l’aquinate passava ecletticamente da temi ecclesiastici e politici ad altri di carattere più propriamente scientifico e tecnico, mostrando al solito la sua ottima e non comune preparazione. Questa attingeva non poco, si diceva prima, alla sapienza araba. Infatti, da essa Gerberto derivò, altresì, la fascinazione verso la pratica alchemica – tecniche distillatorie e manipolazione di sostanze – il che gli costò post mortem la nomea di papa mago, di negromante e di stregone in possesso d’arcani e diabolici segreti. E’ l’immagine fabbricata e trasmessa alla memoria dei posteri, nel secolo XI, da Benone. Quest’ultimo, seguace di Enrico IV di Svevia e dell’anti-papa Clemente III, scrisse i Gesta Romanae Ecclesiae, allo scopo di individuare i maestri diabolici della cristianità europea, risalendo, attraverso Gregorio VI e Benedetto IX, sino a Silvestro II, visto come appunto il capostipite dei pontefici devoti alla magia e dotati di poteri occulti: è l’immagine che, di Gerberto, dominò largamente dal Basso Evo fino alla Riforma, sottoscritta e rafforzata, dopo l’anno Mille, da più autori e teologi europei.
Verso la fine del XII secolo, Ugo di Savigny vide pure lui in Gerberto un negromante, cultore di arti magiche. La medesima cosa sostennero, anche, i suoi contemporanei Sigebert di Gembloux e Vincenzo di Beauvais. Da parte sua, pure Guglielmo di Malmesbury, cronachista anglo-britannico del secolo XII, ed autore delle Gesta regum anglorum, rincarò la dose, tratteggiando l’immagine del papa mago guidato da un golem. Nel corso, poi, del Quattrocento le cose non mutarono, anzi, dietro l’incalzare di critiche aspre ed analoghe portate avanti da Martino Polono e dal Platina (questi nelle sue Vite de’ Papi). Tale libellistica tardo-medievale confluì, quindi, nelle Centurie di Magdeburgo, una elaborata summa storica, curata dal luterano Mattia Illirico. Anche lo scrittore protestante diede corpo e vigore alla leggenda, nera, di un pontefice figlio della notte, quando in realtà Silvestro II era stato semmai – nella politica ecclesiastica e nella promozione del sapere – un figlio della luce.
Una piena rivalutazione della figura di Gerberto di Aurillac si ebbe, finalmente, soltanto in età umanistico-rinascimentale, grazie alle ricerche filologiche ed erudite del cardinale Cesare Baronio, i cui Annali ecclesiastici – ristampati successivamente a cura di Enrico Noris e grazie a lui circolanti, fra Seicento e Settecento, specie nelle cerchie dei cattolici illuminati italiani – vennero composti in opposizione proprio alle Centurie. La figura, complessa ed affascinante, di Silvestro II fu restituita, così, al suo tempo, ritrovando la propria importanza storico-culturale ed il ruolo primario – in effetti – avuto nel traghettare e la Chiesa e l’Occidente cristiano medievale nel nuovo millennio. Rinacque, in tale modo, l’interesse per la figura e l’opera gerbertiane, non solo in campo religioso, ma, altresì, nella sua Aurillac. Qui, nel corso del XIX secolo, si dedicarono a Gerberto – sino a quel momento, quasi rimosso dalla memoria storica locale, nelle terre d’Aquitania – e piazze e statue, finanziate dal punto di vista della realizzazione da autorità cittadine e clero francese insieme.


La Scuola Cattedrale di Chartres e la riscoperta di Platone tra IX e X secolo

Se durante il pur breve pontificato di Silvestro II furono seminate e fatte germogliare le piante del risveglio culturale e scientifico europeo, la rinascita dell’anno Mille contrassegnò almeno anche il secolo seguente. Un’istituzione che promosse la fioritura intellettuale, e ne fu dimora importante, indubbiamente, rimane la scuola cattedrale di Chartres, sorta alla fine del secolo IX per promuovere una prosecuzione ed un rinnovamento degli studi religiosi e filosofici. Nata per iniziativa vescovile di Fulberto, la scuola di Chartres ebbe una ragguardevole influenza, pure nel secolo seguente. Il suo programma prevedeva il recupero del platonismo ed il suo innesto nel corpo della teologia cristiana, secondo le linee di un preciso sistema educativo, in parte soltanto riconducibile al filone medievale della scolastica. Oltre a Fulberto, fondatore della scuola, a Chartres insegnarono e studiarono molte delle personalità salienti dell’epoca, da Gilberto Porretano al fisico Giovanni di Salisbury, da Ivo di Chartres ai bretoni Bernardo e Teodorico di Chartres, senza dimenticare il normanno Guglielmo di Conches. Quest’ultimo identificò lo Spirito Santo della tradizione cristiana con l’anima mundi della rinascente filosofia neoplatonica, intesa alla stregua di una divina e benigna armonia, sia celeste, sia terrestre. Guglielmo scrisse glosse al Timeo di Platone in cui un moderato razionalismo ebbe grande influenza sulla cultura del tempo. Da lui, l’azione dello spirito presente in natura veniva riaccordata con la dottrina dei quattro elementi (terra, aria, acqua e fuoco). Una visione che architettonicamente i dotti di Chartres cercarono di trasporre e rappresentare in forma simbolico-figurata nelle immagini della stessa Cattedrale francese, tra i maggiori capolavori gotici della storia europea.
A differenza dell’aristotelismo cristiano che avrebbe contraddistinto (e condizionato) sapere e cultura dal Basso Evo sino al XVI secolo, i teologi di Chartres pertanto riscoprirono ed assimilarono un rinnovato neoplatonismo, con il medium agostiniano a fare da collante. Un altro loro autore era – come già nel corso dell’Alto Medioevo – Severino Boezio, fondamentale per gli studi di geometria, aritmetica e musica. Per gli eruditi e i docenti impegnati a Chartres, il mondo era stato creato da Dio Padre, signore di un cosmo per studiare il quale essi si rifacevano al commento di Calcidio al Timeo ed alla ripresa delle idee di Abelardo. La natura costituiva, per loro, un volto immanente del divino, secondo le linee di una visione tradizionalmente cristiana del creato, pieno di virtutes partecipative, risalenti all’infinita onnipotenza del Sommo artefice, e sorta di ipostasi della sua grandezza. Grande fu l’incentivo dato a Chartres alle scienze: esse dovevano rappresentare in chiave fisico-matematica, segnatamente geometrica, l’ordine divino, che alberga e si riflette nel regno dei fenomeni, naturali e celesti (a quel tempo, astronomia ed astrologia andavano ancora a braccetto, ed erano quasi la stessa cosa, a loro volta alleate della medicina, allo scopo di individuare in congiunzioni e in disgiunzioni le cause ultime delle malattie).
Nelle loro lezioni, i maestri di Chartres impiegarono – sovente in traduzioni parziali – oltre al commento di Calcidio, anche quello di Macrobio (altro illustre neoplatonico, di età tardo-antica) al Somnium ciceroniano, nonché la nona rima del III libro del De consolatione philosophiae di Boezio, l’autorità di riferimento, ai loro occhi imprescindibile. Nell’Eptatheucon di Teodorico di Chartres – un’opera ricchissima di rimandi mitologici ed ermetico-esoterici – troviamo descritto il matrimonio allegorico di Mercurio e Filologia, ossia di astrologia e cultura. Nozze dalla marcata valenza mistica e occulta, espressione dei due principali strumenti del sapere. I dotti dovevano, infatti, saper riunire, in maniera accorta ed approfondita, l’interpretazione corretta dei testi antichi e l’intelligenza nelle ricerche sui fenomeni terrestri, prove dell’esistenza di Dio. Come in seguito – tra il XVII e il XVIII secolo, con le medesime intenzioni e significato – Newton avrebbe detto di se stesso, anche i teologi di Chartres procedevano negli studi camminando ‘sulle spalle dei giganti’ (l’espressione appartiene a Bernardo di Chartres), in quanto il loro cammino nei regni dello scibile non poteva prescindere da contributi precedenti, che dovevano servire quale ulteriore punto di partenza. La frase è veramente emblematica e rappresentativa del programma messo in atto tra le mura della Scuola di Chartres, un programma tutto proteso a appoggiarsi intellettualmente sulle fondamenta del sapere classico greco-romano, per poi oltrepassarlo con rispetto nella ricerca della verità ultima.
La Scuola di Chartres divenne presto un faro, per gli studi portati avanti nell’Occidente latino medievale. La riscoperta del platonismo – per quanto oscurata dai successi dell’aristotelismo, fra il XIII e il XIV secolo – fu molto importante, dato che, anche tornando a Platone (alla sua matematica e all’idea di un universo disposto dal Creatore secondo numeri e figure, in base a precisi rapporti di ordine geometrico), sarebbe sorta, poi, la scienza moderna, tra XVI e XVII secolo. Famosissima, sin dal suo sorgere, la Scuola di Chartres attrasse magistri e uomini di cultura da tutta Europa. Tra loro, vi fu lo scrittore e vescovo inglese Giovanni di Salisbury (1115-1180), che a, Chartres, compose il Metalogicon. Dopo avere studiato a Parigi, e ad Exeter – dedicandosi, disinvoltamente e con uguale energia, a meccanica terrestre e astrologia divinatoria, cristallomanzia ed arti magiche – Giovanni di Salisbury si votò ai nuovi programmi, del trivio e del quadrivio, con una manifesta predilezione per le discipline di quest’ultimo, in particolare matematiche ed astronomia. Allievo in Francia di Pietro Abelardo, negli studi teologici, a Chartres l’inglese poté seguire le lezioni di Guglielmo di Conches, convertendosi, così, al rinato platonismo e scoprendone la gamma di orizzonti e possibilità. Sotto la guida di Teodorico di Chartres fece studi di retorica, e con Gilberto Porretano di dialettica. Scrisse il Metalogicon influenzato da quest’ultimo soprattutto, appena prima di tornare in Inghilterra, e porsi, come chierico, al servizio di Canterbury. In seguitò, Giovanni di Salisbury fu di nuovo nell’Europa continentale, nel 1149 a Roma, in missione diplomatica, continuando a perfezionare il Metalogicon, terminato in versione definitiva poco dopo il 1157. Rientrato in patria, fu testimone dello scontro fra Thomas Becket e Enrico II. Esule, nel 1164 fu nuovamente in Francia, a Reims e quindi a Chartres: un ritorno graditissimo alla Scuola cattedrale in cui si era formato, culminato nell’assegnazione del vescovato, nonché con la nomina a delegato pontificio. A Chartres, Giovanni di Salisbury raccolse, infine, una ricchissima biblioteca con codici manoscritti rari quanto preziosi di teologia, astronomia, meccanica, geometria, aritmetica, musica e logica. Una collezione libraria manoscritta, imponente, lasciata in eredità alla Scuola cattedrale alla sua morte.


Nell'immagine, La geometria manoscritta di Gerberto di Aurillac (copia bavarese del XII secolo).


Fonti primarie

Nella Patrologia latina pubblicata a cura di Jean-Paul Migne (CXXXIX, 1880), si ritrovano tutti gli scritti di Gerberto – ed anche certe sue pagine ermetiche – nonché numerosi altri documenti e materiali, utilissimi, per inquadrarne e coglierne in modo completo e da vicino figura ed azione storico-culturale. Tra questi, abbiamo le Gregorii V epistulae et constitutiones e in particolare gli Historiarum Libri Quatuor di Richerio di Reims.


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Documento inserito il: 22/01/2025
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