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A ciscuna il suo galateo

di Angela Valenti Durazzo

Regole di comportamento per giovinette, donne fidanzate, sposate o nubili di fine secolo ed inizi del ‘900, alle soglie di una nuova concezione femminile, e di grandi conquiste come il suffragio universale.

L’educazione, la padronanza di sé, la distinzione dei modi, i ruoli che le donne della buona società a seconda dell’età e dello stato di nubili o ammogliate devono ricoprire.
E’ ampia, com’è noto, la codificazione di comportamenti e consuetudini care, alla fine del diciannovesimo secolo ed al debutto del ventesimo, ad una nobiltà che assiste alla crescita dei ceti emergenti e ad un universo femminile giunto alle porte di importanti cambiamenti, come attesteranno di lì a breve le manifestazioni delle suffragette e la conquista nel 1946 del voto femminile (ma già nel 1877 una nobildonna e giornalista, Anna Maria Mozzoni, aveva presentato al Parlamento la prima petizione sul voto alle donne).

Ma facendo un passo indietro, dopo l’Unità d’Italia vennero pubblicati nel nostro Paese “un centinaio di galatei, scritti per lo più da donne”, sintesi di tradizioni antiche ed abitudini nuove.
E’ infatti interessante, per avere uno spaccato della mentalità dell’epoca (senza nulla togliere a testi rivolti a tutti o considerati pietre miliari come il Galateo di Monsignor Della Casa del 1558) rileggere i decaloghi che a cavallo fra Otto e Novecento venivano destinati al gentil sesso.
Infatti “i galatei ottocenteschi in larga misura indirizzati alle donne (Gabriella Turnatori, “Gente per bene. Cent’anni di buone maniere”, SugarCo edizioni, Milano 1988) prescrivevano con molto puntiglio i vari ruoli che esse dovevano di volta in volta rappresentare. Così si scrivevano galatei esclusivamente per fanciulle e signorine che avevano bisogno di una dose più forte di ammaestramenti al saper vivere in una società che a loro veniva rappresentata come una giungla di tentazioni, corruzioni e soprattutto maldicenze. E galatei per signore dove, invece, si trovano indicazioni e regole per la signora maritata da poco, per quella già ben inserita in società, per la vedova, per la signora anziana, per quella con la casa al mare e quella con la villa in campagna”.


IL BON TON DELLE “ZITELLE”
“Conosco molte signorine – scrive la marchesa Colombi (“La gente per bene: leggi di convenienza sociale” Il Giornale delle donne, Milano 1877 e successive edizioni) – che discorrono con moderazione soltanto delle cose di cui sanno di poter parlare: d’arte, di letteratura, di balli, di nuove delle città. Questo non vuol dire che una signorina possa intavolare lei un discorso dove ci sono delle signore per farlo. Se però fra le visitatrici vi sono altre fanciulle, o qualche signora giovane di sua confidenza, potrà benissimo la signorina di casa prendere l’iniziativa di un discorso”.
La marchesa Colombi – pseudonimo letterario di Maria Antonietta Torriani, nata nel 1840 e sposata (poi separata) con Eugenio Torelli Viollier, fondatore e primo direttore del Corriere della Sera – è donna molto legata alla propria indipendenza, e autrice di romanzi ispirati al verismo in cui dipinge anche le condizioni del lavoro femminile.
Il suo libro, una sorta di “galateo moderno” pubblicato nel 1877 ha raggiunto in 15 anni le oltre venti edizioni, ed è suddiviso in diverse parti, che seguono le fasi della vita di una donna dell’epoca, e spesso descrivono le regole ad essa destinate con una vena di ironia: dalla “bambina”, alla “signorina”, alla “signora” alla “vecchia”, con una serie di capitoli su: la “sposa” la “mamma”, la “fidanzata”, la “zitellona”, ecc. Nella sua pubblicazione “oltre agli stereotipi narrativi dei galatei di tutti i tempi; vi sono annotati i cambiamenti avvenuti nella borghesia italiana, arrivando così a trasformarsi in una vera e propria analisi della società ottocentesca di fine secolo”.
Un’altra distinzione, e altre regole di comportamento, i galatei ottocenteschi le destinavano alle donne non sposate. “L’essere sposata, l’esser moglie – spiega ancora Gabriella Turnaturi in “Gente per bene. Cent’anni di buone maniere” – era infatti nell’ottocento l’unica identità sociale riconosciuta e riconoscibile, fuori da questo ruolo la donna non aveva più alcuna parte per lei prevista nella rappresentazione sociale…”.
Di storie di rinunce al femminile ed amori impossibili ne è d’altronde piena la letteratura del tempo. A causare spesso, nelle categorie più elevate, la rinuncia al matrimonio di una donna, incidevano com’è noto questioni di divieti familiari e di doti più o meno adeguate al censo.
“La questione della scelta da un lato è letta alla luce del valore attribuito all’amore e, dall’altro, alla luce delle relazioni di potere, dei rapporti di dipendenza fra le generazioni e dell’influenza che i padri, ma anche le madri, potevano esercitare su figli e figlie (S. Seidel Menchi, A. Jacobson Schutte, Th. Kuehn “Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo ed età moderna”, Il Mulino, Bologna 1999)”.Vi erano poi le necessità di accudire i parenti malati ed, in alcuni casi, un innato senso dell’autonomia che rendeva la fanciulla da maritare poco propensa al vincolo nuziale.
In ogni caso una signorina passati appena i venticinque anni, conferma Camilla Buffoni Zappa (“Come si vive nella buona società: brevi norme del ben vivere” Trevisini, 1895) “deve lasciare le toelette che si addicono alle signorine più giovani. Può vestire come una giovane signora, ma meno riccamente, intervenire ai balli coll’abito scollato, far da madrina di battesimo, presenziare alle nozze”. E le regole non riguardano solo l’abbigliamento: la “signorina” infatti “deve evitare di mostrare il suo dispetto per non essere ancora maritata, e raddoppiare di grazia e di amabilità con tutti”.
La condizione della cosiddetta zitellona subentra, secondo alcune autrici, a trent’anni. A quel punto la signorina “può uscire sola, può ricevere qualsiasi persona ed interessarsi agli affari di famiglia, e nelle riunioni serali può offrire il té anche ai giovinotti”. Se inoltre, scrive la marchesa Colombi nel suo galateo “vi sono persone a pranzo, si collocherà in modo da non darsi nessuna importanza, senza affettare tuttavia di prendere l’ultimo posto né atteggiarsi da vittima”.
E se “in Francia si usa chiamare mademoiselle una signorina fino all’ultima vecchiaia. Noi abbiamo la fortuna di poter evitare il ridicolo di quell’appellativo comune con le giovinette. Una signora nubile si fa chiamare “signora” dalla gente di servizio e tutte le persone di tatto eviteranno sempre di chiamarla signorina”.


COME SI RIFIUTA UN PRETENDENTE
Ed un certo coraggio ci voleva, anche, nei secoli scorsi per affrontare la trafila del fidanzamento. Alla fatidica domanda del padre alla figlia se accettava la mano di un certo gentiluomo che l’aveva chiesta in sposa (dopo un “casuale” incontro al teatro alla presenza del padre e degli stretti familiari) le alternative secondo la Colombi/Torrian erano tre: “Il signore può piacere, può dispiacere, o può essere indifferente. La signorina deve esprimere francamente in quale di questi tre casi si trova. E se le piace deve dirlo senza enfasi. E, se le dispiace, senza disprezzo, e soprattutto senza fare mai la caricatura d’un suo difetto o della sua professione. Uscendo dallo studio del babbo, dopo aver rifiutato una domanda di matrimonio, deve fare come se la memoria di quel fatto non avesse passata con lei la soglia dello studio, e non deve tenerne parola con anima viva, neppure con la più intima amica. Incontrandosi con quel signore dovrà trattarlo come qualunque altro che le sia stato presentato e non attribuirgli la menoma umiliazione pel rifiuto patito…Se invece il partito proposto riesce simpatico, la risposta è favorevole; e si fissa un giorno per presentare il pretendente. Quello è il momento più difficile della vita di una fanciulla. Non sa che viso fare, né che contegno tenere. Il mostrarsi allegra e contenta è sconveniente. Il mostrarsi dolente è assurdo, perché è lei che l’ha voluto. Il mostrarsi indifferente è scortese…Molte volte invece di essere simpatico, lo sposo è indifferente. E tuttavia per qualche considerazione, che qui non è il caso di discutere, viene accettato. Questa sfumatura di sentimento però non cambia nulla al seguito delle cose. E dopo il consenso della signorina i due fidanzati, che ieri non si conoscevano affatto, sono obbligati a vedersi o scriversi periodicamente con intimità”.
Ma sposata o no “cosa fa una vera signora per distinguersi? Cerca di imitare la regina Margherita – sentenzia nel suo libro Gabriella Turnaturi – la maggior parte dei galatei esclusi i più spigliati ed i più borghesi non ha dubbi nell’indicare l’augusta sovrana come modello perfetto di signorilità. Il suo semplice abbigliamento, i suoi scarsi gioielli e le sue amatissime perle sono da imitare per tutte quelle signore che vogliono distinguersi e non lasciar dubbio sulla loro posizione sociale. Dalla regina Margherita le signore impareranno ad andare in bicicletta senza perdere in pudore ed in signorilità…e impareranno anche a non piangere ai matrimoni”.
Voltando decisamente pagina, ma restando nel campo delle fanciulle, ben diverso è il tema dell’educazione ai valori ed “alla padronanza di sé basata sulla fede”.
Di questo aspetto parla, fra le altre, nel 1913, Janet Erskine Stuart, Superiora Generale della Società del Sacro Cuore, ne “L’educazione delle giovinette cattoliche” con prefazione del Cardinale Francesco Bourne, Arcivescovo di Westminster (edita dalla libreria Pontificia Federico Pustet). Ed anche qui, seppure con un’ottica ben meno frivola di quella destinata alla vita nei salotti, e rivolta alla coltivazione di una dimensione interiore, alla formazione della volontà e del carattere, si spiegano alcuni precetti a cui debba ispirarsi una “giovinetta cattolica” e per bene.
“La Chiesa cattolica – spiega l’autrice – in questo come in ogni altro paese ha in sua custodia secoli interi di tradizione educativa, la sua brama più ardente è quella di porla generosamente al servizio del bene pubblico e di prendere il suo posto in ogni movimento, che mira al reale vantaggio di queste fanciulle, da cui dipende l’avvenire della società”.
“Vari sono i trattati sull’educazione che in questi ultimi anni vennero pubblicati – sottolinea nella prefazione l’Arcivescovo di Westminster – vari sono i regolamenti emanati dal Governo, enormi le forme di denaro che sono state versate annualmente da fonte pubblica e privata per il progresso e lo sviluppo dell’educazione stessa; tuttavia i risultati ottenuti sono in qualche modo corrispondenti a tutti questi ripetuti sforzi?”


L’EDUCAZIONE DELLE GIOVINETTE CATTOLICHE E LA MODA DELLE TERME DI MARE
Anche la religiosa Janet Erskine Stuart, limitandoci a citare solo qualche passo del suo testo educativo, prende come modello di stile e comportamento una regina, nel suo caso “la defunta regina Vittoria che – riporta l’autrice – aveva un sentimento profondo dell’importanza delle maniere e di certe convenzionalità ed il dono singolare del buon senso, che tanto valeva in lei…”. “Le convenzionalità – spiega successivamente la superiora – rappresentano nella stima generale un codice artificiale e vuoto, dalla cui noia tutti, e soprattutto la gioventù dovrebbero essere liberati”. Anche se, aggiunge: “non si può fare a meno di un codice di convenzioni, che sia di qualche difesa contro gli istinti dell’egoismo”.
E l’influsso della Chiesa sulle buone maniere e la nobiltà di spirito è cosa antica e radicata. “Dominò infatti ancora nel tempo della cavalleria quando religione e maniere erano riconosciute inseparabili, e la Chiesa maneggiava il rude vigore de’ suoi figli per formare in loro la gentilezza dei cavalieri”.
Le maniere, infatti “rappresentano molto di più che semplici convenienze sociali; esse stanno quale espressione estrinseca di alcune delle sorgenti più profonde della condotta, rivelano altruismo, cultura, libertà e buona socievolezza di democrazia” e “l’educazione delle maniere non è un corso di studi breve, ma lungo, un lavoro di pazienza da ambo le parti…pochissime sono le nature squisite nelle quali la grazia delle maniere sembra innata; queste hanno poco vigore, poca robustezza fisica, la stessa loro sensibilità compie quasi l’ufficio di un precettore privato…hanno un gran dono ma ne pagano il tributo col soffrire per gli altri, come per se stesse, più della loro porzione…”.
Un’altra osservazione, fra le molte, contenute nel testo di matrice cattolica è dedicata alla volgarità e agli stereotipi che l’accompagnano. Essa infatti non è “come spesso si crede, caratteristica di classe, ma in se stessa è un prodotto della insincerità, è lo sforzo di apparire o di essere quel che non si è. Quindi la sincerità dei modi dà distinzione e dignità in tutte le classi sociali. Perché la sincerità dà quella semplicità de’ modi che è una delle grazie speciali della regalità…”.
Tralasciando i precetti educativi destinati alla giovinette a scuola, ci soffermiamo infine sugli imperativi della moda, specchio a loro volta dell’evoluzione e delle trasformazioni in corso nella società a cavallo fra i due secoli.
Ed anche qui la modernità e la tradizione si scontrano. In un articolo del 1895 del giornale “La Donna e la Famiglia” intitolato “Donne di fine secolo” (Viviana Troncatti “Dalla Culla all’altare: Scene di vita femminile della Belle Époque”, De Ferrari, Genova 2008) si definisce la donna “moderna” come “prodotto della borghesia arricchita, condannata a godere soltanto della considerazione dei suoi bottegai”.
Nel giornale inoltre vengono criticate “quelle signore e signorine che si potevano incontrare a tutti gli spettacoli, che figuravano sulle spiagge marine, che frequentavano i “Casini” (luoghi di ritrovo della nobiltà e dell’alta società) e percorrevano le strade ferrate…per esse l’inverno è rappresentato dalle feste da ballo, dal ‘patinage’, dalle mascherate carnevalesche; l’estate è la stagione delle acque termali e dei bagni di mare (molto in voga a Monte Carlo che in quella stessa epoca, grazie alla fama del Casinò, dell’Hôtel de Paris e degli stabilimenti termali e di bagni di mare era meta privilegiata delle classi elevate ed aristocratiche europee n.d.r.); l’autunno è il tempo della villeggiatura e della caccia”.
Malgrado i toni intransigenti anche la rivista prende atto delle trasformazioni sociali in corso affrontando in altri numeri tematiche come “il Divorzio” (1892), “La donna e la politica” (1896); “La Donna e la questione sociale” (1901).
Decisamente più d’avanguardia ed attenta alla figura femminile che si affaccia al Novecento è “La Moda Genovese”, la quale impartisce indicazioni che supportano “lo stile di vita attivo delle donne di fine secolo”. Il giornale, infatti, “non solo illustra spesso signore in costumi da “biciclettista”, ma anche da spiaggia, per il tennis ed il cricket, oltre naturalmente a vesti da viaggio, da caccia, per le visite, la villeggiatura ed il passeggio”.
Dettami e regole di una società che mostra sprazzi di cambiamento e di apertura, destinati ad una generazione di signore e signorine, come spiega Loredana Pessa, conservatrice del Museo di Palazzo Bianco di Genova, nella prefazione di “Dalla culla all’altare”, che vivono “sulla soglia di un cambiamento drastico che, in concomitanza con la Grande Guerra, avrebbe coinvolto tutte le donne europee”.
Documento inserito il: 27/05/2017

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