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L'ideologia della violenza

La violenza è connaturata all'essere umano, atavica, un residuo animalesco dell'evoluzione. Essa è presente fin dagli albori della specie, sotto forma di guerre, saccheggi, battaglie, rivoluzioni e quant'altro. Nell'ultimo secolo e mezzo, in particolare nel XX, la violenza ha però fatto un salto (per così dire) di qualità: è diventata Idea, ideologia, potenza catartica e rivoluzione in fieri. Ha acquistato, o almeno vi è stato il tentativo, una autonomia concettuale e una soggettività sconosciuta perlopiù ai periodi precedenti. Certamente episodi di concettualizzazione e centralità di un certo tipo di violenza non mancarono ai secoli precedenti il XX, basti pensare al terrore giacobino durante la rivoluzione francese. Ma mai essa era stata sistematicamente al centro del pensiero e dell'agire. Cerchiamo allora di analizzare brevemente l'evoluzione di questa nuova forma concettuale.

Per capire i vari filoni di pensiero e tendenze "sulla violenza" del '900, è doveroso guardare soprattutto agli sviluppi filosofici,economici e internazionali della seconda metà del secolo XIX. Primo fattore di grande importanza è lo sviluppo del mondo operaio e dei movimenti ad esso collegati, dovuto alla grande espansione economica e commerciale della seconda metà dell''800 (malgrado qualche battuta d'arresto, continua fino allo scoppio del primo conflitto mondiale). Intorno e all'interno del mondo operaio nacquero numerosi filoni di pensiero, tra i quali si impose per completezza di sistema(?) e per (preteso) rigore e metodo scientifico il pensiero di Karl Marx e Friedrich Engels. Essi pubblicarono tra il 1847 e il 1848 il "Manifesto del Partito Comunista", nel quale esponevano la tesi secondo la quale la storia altro non era che lotta di classe (materialismo storico) e lo Stato strumento di dominio della classe vincitrice dello scontro (e quindi dominatrice). Partendo da questo presupposto, il proletariato avrebbe dovuto abbattere la classe borghese e il suo modo di produzione. Nel 1852, nella lettera a Weydemeyer, Marx teorizzò una fase intermedia tra la rivoluzione e la nuova società:la "dittatura del proletariato". Irrompeva così nel panorama del pensiero un'idea guida di rivolgimento violento dell'ordine costituito, che se da un lato riprendeva idee di matrice giacobina, dall'altra ne ribaltava i termini e i protagonisti. Sempre collegato a un certo tipo di mondo operaio e in parte studentesco, grande sviluppo ebbe l'anarchismo, movimento violento e destabilizzatore per eccellenza, che sarebbe in parte confluito nel secolo XX nel sindacalismo rivoluzionario e nel socialismo rivoluzionario russo (insieme con i narodniki/populisti). Esso nacque ufficialmente come dottrina con Proudhon, nel libro "Cos'è la Proprietà", nel 1840,per poi svilupparsi con Bakunin negli anni '70. L'anarchismo ha come obiettivo principale l'abbattimento dello Stato in toto. Tale obiettivo deve essere perseguito con l'azione diretta, anche e soprattutto individuale. L'idea/concetto di violenza diventa quindi centrale per l'azione stessa degli anarchici, i quali difatti provocheranno con i loro attentati numerose vittime, più o meno celebri( Umberto I di Savoia e la Principessa Sissi, solo per citarne due illustri).

Terzo elemento di non minore importanza per capire i successivi sviluppi novecenteschi, è la febbre imperiale dominante le Nazioni europee negli ultimi decenni del secolo XIX. La corsa alle colonie e al "posto al sole",per usare una citazione storicamente posteriore, portarono allo sviluppo di teorie e dottrine razziste e, successivamente, nazionaliste, nonché ad una politica di potenza (machtpolitik). Intimamente collegato alla politica di potenza e all'atmosfera del tempo , a livello individuale, il filone superomista, introdotto da Nietzsche nel "Così parlò Zarathustra". Il Superuomo o Oltreuomo deve abbandonare i controlli apollinei e affermare sé stesso e le proprie convinzioni, riconoscendo impavidamente che non esistono valori assoluti né uno scopo nella vita. Il superomismo non comporta necessariamente la violenza, ma pone una base sulla quale essa può innestarsi, eliminando ogni controllo etico-morale e predicando la volontà di potenza, declinabile in vari modi.

Questo è approssimativamente il quadro di fine secolo. Il concetto di violenza, se non ancora esplicitamente affermatosi come valore in sé e per sé, permea buona parte del panorama politico-culturale europeo. E infatti non tarda a estrinsecarsi a inizio secolo, seguendo fondamentalmente i tre filoni principali testè accennati: il marxismo evolve in Russia nel bolscevismo, l'anarchismo si declina in sindacalismo rivoluzionario, l'imperialismo in nazionalismo (e in un secondo tempo, con una ulteriore mutazione, in fascismo). Lenin, in un libello del 1902 dal titolo "Che fare?" teorizzò un partito rivoluzionario composto da rivoluzionari professionisti: la violenza rivoluzionaria diventava professione ed élite. Ma il più significativo mutamento del principio di violenza si esplicitò con il filosofo Sorel, nel libro "Considerazioni sulla Violenza". L'azione diretta tramite il sindacato svincolato dai partiti e dallo Stato diventa "mito sociale" e lo sciopero si tramuta in palestra rivoluzionaria, culminando nello sciopero generale che abbatterà lo Stato. In Italia le teorie sindacaliste rivoluzionarie ebbero una larga eco e influiranno in maniera decisiva sull'interventismo e in parte sul sindacalismo fascista. La violenza acquisì quindi definitivamente una propria esistenza autonoma, tanto mezzo quanto fine dell'azione rivoluzionaria.

Nello stesso periodo sorgevano un po' in tutta Europa movimenti nazionalisti, in parte contaminati (come d'altronde il sindacalismo rivoluzionario) dal vitalismo di matrice nietzeschiana e dal mito della gioventù. Tali movimenti si ponevano in prospettiva antiparlamentare e antidemocratica, non però predicando un nuovo assetto sociale o la scomparsa dello Stato, ma invocando l'azione e la già accennata politica di potenza:lo Stato borghese marcescente doveva essere sostituito da un nuovo Stato giovane, aggressivo e guerriero (si notino i numerosi temi che confluiranno nei movimenti fascisti). La violenza diventava sinonimo di vitalità e forza, in contrasto con il lassismo piccolo-borghese. In Italia tali concezioni confluirono anche nel movimento futurista, il quale arrivò a considerare la guerra come unica "igiene del mondo"(Marinetti).

La guerra da una parte assuefò alla violenza e dall'altra creò il fenomeno del reducismo, il quale portò nuova acqua al mulino della violenza legittima,rivoluzionaria o reazionaria che fosse. In Italia e nei paesi usciti sconfitti, gli sconvolgimenti socioeconomici provocati dalla guerra, crearono situazioni esplosive, terreno fertile per la nascita di movimenti di rottura o reazione, che convogliarono su di essi buona parte della retorica interventista e vitalistica del periodo prebellico. In Italia il fascismo agrario fu l'espressione più emblematica della violenza ormai assurta a sistema. La violenza come tensione rivoluzionaria, vitalità e dinamismo giovanile diventò ideologia e mito nel fascismo, il quale raccolse nel proprio ventre idee e principi rivoluzionari, nazionalisti, sindacalrivoluzionari senza soluzione di continuità. L'ideologia della violenza raggiunse la sua acme col nazismo, il quale costruì una originale e brutale versione dell'imperialismo e del razzismo fin de siecle. La seconda guerra mondiale rappresentò l'orgia della violenza-sistema di condotta, ma anche l'inizio della decadenza delle teorie incentrate su di essa, sostituite, almeno in Europa occidentale, dai principi di integrazione e collaborazione.

di Alessio Chiaramonti


Si ringrazia Alessio Chiaramonti per l'invio ed il permesso alla pubblicazione di questo articolo.
Documento inserito il: 29/12/2014
  • TAG: ideologia violenza, terrore giacobino, manifesto partito comunista, engels, marx, dottrine razziste, nazionalismo, violenza rivoluzionaria, fascismo, comunismo, regimi totalitari

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