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Il movimento del Sessantotto [ di Giuseppe Gagliano ]

Il movimento del Sessantotto nelle interpretazioni di Nicola Chiaromonte, Nicola Matteucci, Renzo De Felice, Panfilo Gentile e Rosario Romeo

Introduzione

Come si potrà agevolmente evincere dall’attenta disamina delle riflessioni degli autori considerati, la valutazione data del ’68 e del ’77 è analoga, e diremo speculare, a quella di Raymond Aron che abbiamo avuto modo già di trattare e diametralmente opposta, per esempio, a quella posta in essere dagli intellettuali antagonisti e, fra questi in modo particolare, da Sartre, Foucault, Deleuze, Guattari e Onfray.
Numerosi sono naturalmente gli elementi che accomunano la lucida diagnosi svolta dagli intellettuali italiani presi in considerazione: in primo luogo le istituzioni formative furono trasformate durante il ’68 in enclave ideologiche, in vere e proprie basi ideologiche e politiche nelle quali l’indottrinamento sistematico e capillare dei giovani si coniugava alla intolleranza, al fanatismo ideologico e alla sopraffazione verbale e fisica nei confronti del dissenso.
In secondo luogo determinati partiti e determinati sindacati contribuirono a smantellare la credibilità sia delle istituzioni formative sia delle istituzioni statali – in stretta collaborazione con docenti, presidi e soprattutto intellettuali – assumendo un atteggiamento di stretta collaborazione – quando non di connivenze e complicità – con i gruppi dell’estrema sinistra.
In terzo luogo emerge, soprattutto dalle riflessioni di Gentile e Romeo, la scarsa o nulla credibilità dei titoli conseguiti in un contesto formativo come fu quello degli anni ’60 e ’70 sia in Italia,in Francia e in Germania.
In quarto luogo, le tecniche di guerra psicologica e di conflittualità non convenzionale messe in atto all’interno delle istituzioni formative – la disinformazione sistematica, l’intossicazione informativa, la visione manichea della realtà storica, l’agitazione sovversiva e l’uso della guerriglia urbana unitamente a un apparato ideologico antiamericano, anticapitalistico, antimilitarista, antiisraeliano e terzomondista – costituiranno la premessa per i movimenti no global degli anni ’80 e ’90, continuità ideologica questa riconosciuta da alcuni dei più noti esponenti della cultura antagonista attuale e, fra questi, da Piero Bernocchi, Antonio Negri e in particolar modo dai maggiori esponenti della sociologia dei movimenti sociali.


Nicola Chiaromonte

L’autore ebbe modo di stabilire un raffronto tra la libertà che stava gradualmente emergendo nell’est europeo e quella che veniva rivendicata in Occidente.
Proprio nel gennaio del 1968 ebbe modo di affermare come gli intellettuali europei invece di contribuire a collaborare con i giovani russi per occidentalizzare la Russia allo scopo di superare il comunismo di Stato, fossero più interessati a farsi portavoce in modo contraddittorio della guerriglia e del pacifismo, della droga e dell’erotismo invece che delle reali condizioni di oppressione nelle quali vivevano i loro coetanei nei paesi dell’est.
In altri termini, l’autore rilevava come i giovani americani ed europei non si rendessero conto di cosa fosse veramente la libertà e di come ne avessero travisato completamente il contenuto e i valori.
In relazione alle riflessioni sul potere studentesco espresse da Guido Viale, il giudizio di Chiaromonte fu assai critico poiché ebbe modo di rilevare come l’eguaglianza fra docenti e discenti proclamata da Viale fosse ridicola oltre che illusoria: nel contesto educativo è infatti pienamente legittimo che ci sia chi sa, chi comunichi il proprio sapere e chi dall’altra parte non sapendolo lo riceva.
In questa prospettiva, i contro corsi e gli esami per acclamazione fatti all’interno di un’assemblea, non erano che una farsa.
Quanto poi al rifiuto della meritocrazia da parte del movimento studentesco a Chiaromonte appariva inaccettabile oltre che destabilizzante rispetto all’ordine democratico.
In merito al maggio del ’68 – allo scopo di demistificarne il valore – l’autore ebbe modo di raffrontare la rivolta parigina con il dissenso polacco anticomunista osservando come la ribellione dei giovani francesi fosse semplicemente priva di autentici valori ideali al contrario di quella espressa da giovani polacchi contro la dittatura comunista.
A proposito poi della presunta contrapposizione tra autorità e libertà, assai diffusa nella sinistra extraparlamentare, l’autore ebbe modo di osservare come non esistesse alcuna antitesi tra autorità e libertà ma come, al contrario proprio nel ’68, l’autorità morale fosse ormai al tramonto minacciando necessariamente la libertà.


Nicola Matteucci

Osservando l’evolversi del movimento studentesco, l’autore ebbe modo di individuare al suo interno due tendenze profondamente diverse: da un lato una tendenza volta a cambiare in modo profondo l’università e dall’altro lato una tendenza da parte del movimento studentesco a portare in essere una vera e propria rivoluzione politica. Tuttavia Matteucci ebbe modo di osservare, in modo disincantato ed insieme ironico, come il partito comunista non avesse alcuna intenzione di attuare alcuna rivoluzione né politica né sociale.
L’unico scopo realmente perseguito era quello strumentale: il partito comunista si servì della protesta studentesca allo scopo di conseguire un sostanziale rafforzamento elettorale.
Quanto poi alle proposte di riforma universitaria, formulate dal partito comunista italiano, queste apparivano all’autore inconciliabili e reciprocamente contraddittorie: un’università critica e aperta allo sviluppo scientifico mal si conciliava con un’università di massa.
Il potere studentesco dunque non era nient’altro che un modello di tipo romantico o al massimo una concezione priva di qualunque aggancio con la realtà.
Sotto il profilo squisitamente storico la crisi del ’68 era analoga a quella ottocentesca quando il marxismo fu in grado di diventare una organica visione del mondo alternativa rispetto al positivismo.
Tuttavia, al di là di questi raffronti di natura complessiva, il movimento del ’68 presentava per l’autore un vero e proprio irrazionalismo di massa soprattutto un irrazionalismo presente all’interno delle masse studentesche e in secondo luogo, sotto il profilo strettamente culturale, si faceva portavoce di un marxismo volgare che si traduceva nell’esaltazione della violenza fine a se stessa, in una vera e propria furia iconoclastica, in un velleitarismo utopistico.
Dietro il volto dei giovani antagonisti, Matteucci vedeva il signorino soddisfatto, il bimbo viziato che voleva essere soddisfatto in tutti i suoi desideri.
Insomma anche per Matteucci, come per Chiaromonte, libertà e autorità non solo non erano incompatibili ma erano complementari.
Allo scopo di meglio caratterizzare le modalità operative del movimento sessantottino, a partire dalla 1970, l’autore si servì di un’espressione pregnante vale a dire quella di insorgenza populistica intendendo un insieme di idee semplici ed insieme elementari in radicale opposizione alla tradizione politica e culturale, insorgenza caratterizzata da un profondo anti-intellettualismo che si manifestava in un vero e proprio disprezzo verso la ragione critica, verso lo specialista in nome di passioni grossolanamente primitive ed elementari strumentalizzate da determinati partiti e sindacati.
Inoltre, l’insorgenza populistica, aveva determinato il nascere di una vera e propria zona grigia tra cultura cattolica e comunista che ebbe modo di manifestarsi rispettivamente nella mistica del povero e nella mistica dell’operaio, le quali – coesistendo e manifestandosi in modo sinergico -conducevano rispettivamente da un lato fuori dal marxismo verso il sindacalismo rivoluzionario e dall’altro lato verso un travisamento radicale del cristianesimo la cui finalità non era la trasformazione della società ma la salvezza dell’anima.
In altri termini, l’insorgenza populista era sostanzialmente antistoricista, di matrice volontaristica e aveva come finalità ultima il collasso della democrazia costituzionale.


Renzo De Felice

Lo storico De Felice ebbe modo di interpretare la contestazione attraverso un innovativo ed interessante raffronto con la sinistra nazista: il movimento, e in generale i gruppi extraparlamentari degli anni 70, potevano essere meglio compresi ed interpretati alla luce di alcuni concetti chiave ampiamente presenti nella sinistra nazista: il rifiuto delle élite, la ricerca di una democrazia plebiscitaria e populistica, l’ostilità verso la cultura e la tradizione educativa borghese, che portava alla negazione stessa della storia e all’irrazionalismo.
Al di là dei contenuti di cui i movimenti si facevano portavoce, la loro ideologia fu protetta ed insieme strumentalizzata dai partiti della sinistra storica determinando da un lato la convinzione da parte degli studenti di essere una forza rivoluzionaria e dall’altra parte, l’incapacità di controllarli da parte del Pci e del Psiup, determinò la deriva terroristica.
Quanto poi alle presunte innovazioni di natura pedagogica proposte negli anni sessanta e settanta queste non erano altro che una vera e propria forma di imbonimento cioè di indottrinamento ideologico sistematico e capillare attraverso il quale veniva insegnato solo quel punto di vista negando a priori validità a qualsiasi altro punto di vista, finendo dunque per squalificare il diverso fino a irriderlo manifestando in questo modo una cultura manichea, portatrice di odio e di intolleranza.
Di fronte a tutto ciò lo Stato ebbe modo di dimostrare tutta la sua intrinseca debolezza.
Infatti, lo Stato considerò le università zone franche d’abbandonarsi alla furia dei giovani.
Questa debolezza era determinata da un legame assai stretto tra la sinistra storica e i gruppi extraparlamentari.
Inoltre, lo stretto legame che si era andato consolidando tra sinistra storica e gruppi extraparlamentari, era in fondo finalizzato a consentire al Pci di surrogare i carenti poteri dello Stato.
In merito poi alla diffusione del terrorismo nel nostro paese, come in Germania e in Giappone, lo storico italiano osservava come il suo affermarsi fosse determinato da una vera e propria frustrazione e come questo alimentasse una cultura del complotto che prefigurava organismi sovranazionali in grado di determinare sempre in negativo i destini della società; in merito poi alla cultura che si manifestava nelle università questa era volta alla demolizione sistematica dello Stato e alla negazione di tutti i valori del riformismo.
Non a caso i nemici del terrorismo – osservò De Felice – erano principalmente i riformisti.


Panfilo Gentile

Uno dei primi elementi osservati dall’autore nel contesto storico del sessantotto fu certamente il diffondersi della cultura di sinistra all’interno del mondo cattolico e, in modo particolare all’interno delle Acli e del sindacato Cisl, organizzazioni che finiranno per essere sempre più influenzate dalla propaganda comunista e dalla quale, secondo l’autore, mutuarono modi di pensare e linguaggio.
D’altronde, all’interno delle gerarchie ecclesiastiche e in modo particolare all’interno della enciclica di Paolo VI Populorum progressio, l’autore individuava sia la presenza e la diffusione della cultura marxista – e lo dimostrava la condanna sia morale che giuridica del sistema capitalistico che in modo particolare aveva determinato il sottosviluppo del terzo mondo - sia del pacifismo irenico che era volto a disarmare lo spirito di difesa dell’Occidente.
In altri termini secondo l’autore nel giro di poco tempo la dottrina sociale della Chiesa era stata influenzata in modo nefasto dalla cultura marxista.
La sua diffusione e la sua influenza ebbero modo di manifestarsi anche all’interno della borghesia e delle strutture dello Stato che dimostrano di essere sempre più deboli rispetto ai sindacati, sindacati che proprio negli anni ’60 e ’70 finiranno per rivendicare un ruolo illegittimo – secondo l’autore – a livello politico, un ruolo politico che consisteva nell’imporre veri e propri diktat alle funzioni parlamentari attraverso scioperi e mobilitazione di piazza.
Lo Stato insomma, secondo l’autore, era ormai assediato dalla ideologia giacobina, dalle dottrine populistiche ed egualitarie che avevano condotto alla demonizzazione dell’economia di mercato, all’affermarsi di una mentalità ideologica, all’indebolimento dello Stato a vantaggio di partiti e sindacati.
Di particolare significato l’osservazione dell’autore in merito al ruolo degli intellettuali la cui incompetenza in materia storica, giuridica ed economica era assolutamente evidente, incompetenza nei confronti della realtà che li indusse ad atteggiarsi a profeti, a sacerdoti il cui scopo era quello di illuminare il popolo.
Non senza ironia l’autore osserva come queste loro capacità visionaria fossero tuttavia molto limitate: vedevano infatti con estrema lucidità i pericoli provenienti dagli Stati Uniti, dal capitalismo, dal colonialismo e dalla Nato mentre erano completamente ciechi di fronte a minacce provenienti dal comunismo.
Una delle conseguenze di questi fermenti rivoluzionari fu la riforma dell’università e degli studi nel loro complesso: la libertà di pensiero, all’interno del contesto universitario, doveva e poteva manifestarsi come confutazione ma non come dibattito o comizio politico.
Al contrario, la realtà universitaria dell’Italia, era popolata da guardie rosse, da comitati di occupazione, da leader studenteschi che intimidivano docenti e rettori universitari giocando dunque alla rivoluzione secondo un modello di matrice maoista e cubano.
Quanto al ricorso da parte di questi giovani rivoluzionari alle occupazioni, alle violenze verbali e fisiche, queste modalità di azione erano fin troppo analoghe a quelle del fascismo squadrista ed erano quindi volte in modo sistematico a fare collassare la democrazia rappresentativa.
Di fronte al manifestarsi di questa vera propria eversione sia nell’ambito sociale che nell’ambito universitario, anche l’autore, come Matteucci e De Felice, osservava la intrinseca debolezza dello Stato che si era inginocchiato di fronte agli studenti portando ad un vero e proprio disfacimento dell’autorità dando quindi il via libera a tutte le forze disgregatrici della società.
A tale proposito, l’autore rilevava come gli studenti avessero occupato, devastato, bivaccato ed insudiciato gli atenei universitari impedendo esami e lezioni, impedendo qualunque forma di dissenso legittimo.
All’interno delle università insomma, come d’altra parte delle scuole pubbliche, vi era un vero proprio clima di eversione istituzionalizzata.
Ebbene, una delle conseguenze più nefaste di questa cultura dell’antagonismo e dell’eversione, fu certamente la diffusione del lassismo pedagogico frutto di un connubio tra il freudismo, l’esistenzialismo e il pensiero di Marcuse.
Di particolare significato per l’autore fu la diffusione del maoismo negli anni 70, ideologia questa capace di mobilitare l’immaginazione degli studenti fino a costituire una sorta di vera e propria nuova alba del comunismo.
Altrettanto nefasta fu l’influenza di Marcuse: la critica posta in essere dal filosofo tedesco è una critica manichea che aveva trasformato la società capitalistica e industriale nella incarnazione del male eclissando tutti i vantaggi e i meriti che la società capitalistica e industriale aveva portato e aveva.
Quanto al nuovo soggetto rivoluzionario individuato dal filosofo tedesco, e cioè i movimenti di liberazione nazionale del terzo mondo, Gentile osservava come i paesi del terzo mondo fossero tutt’altro che autonomi e fossero in realtà finanziati e mantenuti da potenze coloniali.
In merito poi alla tesi marcusiana, secondo la quale il sistema capitalistico si costruiva sull’avidità di profitto, questa tesi era il risultato di vecchi e logori schemi del socialismo dell’ottocento.


Rosario Romeo

Anche questo autore ebbe modo di sottolineare la progressiva ed inesorabile decadenza della cultura cattolica negli anni ’60 e ’70.
Lo storico italiano evidenziava infatti come l’ideologia cattolica avesse fatto propria una visione della storia d’Italia mutuata da Gramsci e come avesse avallato l’interpretazione comunista della Resistenza determinando nefaste conseguenze sul piano della legittimità delle istituzioni politiche.
In particolare, rilevava come l’aggressione intellettuale posta in essere dal marxismo si fosse concretizzata nel propagandare una determinata visione della storia dell’Italia moderna e, in modo particolare, del Risorgimento e della Resistenza, interpretazioni queste che rispondevano a un preciso obiettivo di autogiustificazione politica e culturale.
In relazione alla sottocultura, emersa durante gli anni 60 in Italia, Romeo non risparmiò considerazioni durissime.
In primo luogo, sottolineò come gran parte degli intellettuali favorevoli al ’68 si fossero fatti portavoce di una pseudocultura psicopedagogica costruita su basi scientifiche pressoché inesistenti, di una cultura che contribuì a diffondere la convinzione della legittimità della cultura della droga, degli hippies in funzione antimoderna: qualche intellettuale – osservava ironicamente l’autore – vide nel festival di Woodstock l’embrione di un nuovo modello di società politica.
Per quanto considerazioni di questa natura fossero minoritarie tuttavia davano, secondo Romeo, un’idea assai precisa di quella che avrebbe potuto essere la direzione dell’avvenire cioè una direzione verso un radicale individualismo di tipo anarcoide.
In secondo luogo, una delle conseguenze più nefaste del ’68 ed, in particolare dell’alleanza tra partito comunista e gruppi di estrema sinistra, fu la sistematica devastazione delle istituzioni formative: la sinergia di queste forze politiche determinò la degradazione della scuola e dell’università a meri strumenti di ordine pubblico destinati a trattenere e ad assorbire le minacce d’ordine politico che il governo e le istituzioni politiche non erano in grado di affrontare sul terreno specifico delle normative e della repressione.
In particolare l’autore osservava come la viltà e la pusillanimità delle istituzioni politiche avesse determinato vere proprie vittime soprattutto nell’ambito della scuola superiore dove la contestazione aveva assunto forme violente.
Citando la saggista Vittoria Ronchey, secondo la quale coloro che permisero che ad una società accadesse questo avevano colpe che nessun tribunale avrebbe mai potuto giudicare con indulgenza, Romeo ricordava come la pedagogia nata in questo contesto si fosse rivelata velleitaria e parolaia, sottolineava come i giornali e gli organi di stampa fossero stati sottratti al controllo dei legittimi proprietari e come le scuole fossero state trasformate in centri di agitazione e propaganda, nelle quali regnava la sopraffazione e la violenza.
In terzo luogo, Romeo osservava come la scuola fosse divenuta il terreno principale sul quale furono sperimentate per la prima volta determinate tecniche dirette a capovolgere le istituzioni democratiche.
In particolare lo storico italiano osservava come il partito comunista italiano da un lato avesse attuato, con la connivenza e la complicità della sinistra extraparlamentare, una vera propria egemonia totalitaria all’interno dell’università e dall’altro lato come le spinte eversive, manifestatasi all’interno delle scuole e delle università, diventavano oggetto di critica spietata da parte dei comunisti italiani quando non vi era la possibilità di controllarle mentre quando al contrario queste manifestazioni sovversive venivano assoggettate al controllo del partito comunista venivano definite manifestazione di libertà e di critica.
Nello specifico, con grande sottigliezza ed acume, l’autore sottolineava come la formazione di gruppuscoli all’interno delle Università e delle scuole fu gradualmente sostituita dalle organizzazioni parallele del partito che finirono per esautorare i poteri legali.
Non senza drammaticità l’autore osservava come, al di là della retorica relativa al pluralismo e alla democrazia, il partito comunista avesse steso su tutto il paese una rete dalle maglie sempre più stretta attuando nei confronti dei gruppi dell’estrema sinistra una tattica che lo storico italiano ebbe modo di denominare – non senza ironia – del piromane/pompiere.
Il quadro che Romeo fa emergere era caratterizzato da occupazioni a catena all’interno delle sedi universitarie nelle quali le attività didattiche erano bloccate, nelle quali sventolavano le bandiere rosse, nelle quali gli scontri a fuoco – soprattutto a Roma – erano all’ordine del giorno.
Sullo sfondo vi era la latitanza delle autorità politiche.
Di particolare interesse fu l’interpretazione data dall’autore del maggio del 68 francese speculare a quella di Aron.
Anche lo storico italiano sottolineò come il maggio francese si fosse originato dall’azione di gruppi organizzati decisi ad imporre la propria volontà in modo autoritario utilizzando tecniche che ben presto vennero estese alle fabbriche e agli uffici pubblici.
Concretamente queste tecniche di guerra psicologica si tradussero in intimidazioni sistematiche e in ininterrotte vessazioni.
L’esito di questa strategia fu la proliferazione di organismi che si affiancavano e si contrapponevano a quelli legalmente istituiti, organismi politici che furono in grado di bloccarne l’operato.


Bibliografia

Paola Carlucci, La necessità del limite: il Sessantotto di Nicola Chiaromonte tra autobiografia e riflessione pubblica, Ventunesimo secolo, L’altro sessantotto, n.22 anno 2010, pagg.177-190

Stefano De Luca, Due liberali di fronte al Sessantotto: Nicola Matteucci e Panfilo Gentile, Ventunesimo secolo, L’altro sessantotto, n.22 anno 2010, pagg.95-133

Giuseppe Parlato, Renzo De Felice, Il Sessantotto e la difesa dello Stato di diritto, Ventunesimo secolo, L’altro sessantotto, n.22 anno 2010, pagg,37-64

Rosario Romeo, Scritti politici 1953-1987, Il Saggiatore, 1991, pagg.19-99
Documento inserito il: 27/12/2014
  • TAG: movimento sessantotto, nicola chiaromonte, nicola matteucci, renzo de felice, panfilo gentile, rosario romeo, interpretazioni del 1968
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