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L’invasione turca. [ di Gianluca Padovan ]

[articolo tratto da: Padovan G., Soli contro l’invasore: Cipro 1570, in Rinascita. Quotidiano di Sinistra Nazionale, 2 aprile 2011].

Introduzione all’assedio di Famagosta (Cipro) nel 1570. Viste le ultime guerre nell’Africa del Nord e ora in Medio Oriente, è forse il caso di rispolverare un vecchio articolo sui turchi. Siccome conoscere è meglio che ignorare, è bene, a mio avviso, ripassare un po’ di storia patria. Essa non è poi così lontana da noi nel tempo da poter essere presa come un raccontino di cappa e spada, ma è e rimane una realtà sempre pronta a ripetersi. Vogliamo un esempio? Qual’è stato il ruolo della Turchia nella guerra contro la Libia? Nessuno, direbbe qualcuno, purtroppo sbagliandosi. E il ruolo della Turchia nell’attuale dissesto siriano? La Turchia, sussurra qualcun’altro, desidera il suo vecchio impero, che fino ai primi del XX secolo si estendeva sull’Africa del Nord e in Medio Oriente. E, questo, senza scordare la guerra condotta dall’Italia contro la Turchia (guerra Italo-Turca del 1911-1912), nella sua folle e deprecabile corsa colonialista. Consideriamo le pecche, o meglio i peccati di ognuno, per doverosa onestà storica, ma rimaniamo fermi nei soli dettami che possono consentire all’Italia di rimanere uno stato più o meno libero e, soprattutto, di proprietà degli Italiani veri. La storia della Turchia del XX secolo va studiata e con essa il preciso programma di sterminio degli Armeni. Programma drammaticamente impeccabile, che non ha lasciato alle spalle alcun campo di concentramento da andare, oggi, a visitare. Ciò che è stato, essendo nell’indole di un popolo, si ripete sempre e con drammatica puntualità. Anche e soprattutto nel momento in cui modifica la Storia in «istoria aggiustata all’abbisogna», dichiarando che essa è l’inattaccabile e l’indiscutibile verità.

Cipro 1570.
Le grandi bocche da fuoco in bronzo si dice siano state progettate dagli armaioli dell’est europeo, catturati dai turchi. Sparano palle di pietra anche del diametro di mezzo metro e sono spinte avanti dai soldati che combattono sotto il simbolo della mezzaluna e sotto il fuoco feroce e tenace dei veneziani, i quali difendono eroicamente le mura di Famagosta. L’assalto iniziale si è già impaludato sui bordi del largo fossato, che non è così semplice da colmare; si è arenato su quella battigia che si stacca dagli avamposti di pietra sul mare, si sfrangia contro il tiro preciso e rabbioso di chi non molla costi quello che deve costare. E così le batterie da breccia devono spianare la strada e cercare di azzerare, se ci riescono, le difese. Ma l’assedio costa caro, stringerne le maglie non è così automatico come pensarlo a tavolino. Le prime settimane cavalleria e fanteria veneziane effettuano sortite all’esterno delle mura nell’intento d’inchiodare i pezzi d’artiglieria e fare strage di serventi. Ma la disparità di uomini e mezzi rimane enorme. Eppure i difensori reggono l’urto, la marea avversaria sbatte su quello che generalmente contraddistingue il combattente europeo: il trinomio costituito dal coraggio, dalla disciplina e dall’onore. Famagosta fu le Termopili del XVI secolo.
Militari e civili sanno che riceveranno rinforzi, ma non conoscono la portata perniciosa dei giochi politici che i regnanti europei vanno tessendo, ognuno pensando ai propri esclusivi interessi e al tornaconto di un vantaggioso accordo economico con l’impero Ottomano. Si chiudono occhi e orecchie sul fatto che ancora una volta sono le isole e le coste della stessa penisola italiana che soffrono le scorrerie arabe e ottomane. Non si vuole capire che la penetrazione attraverso la Grecia potrebbe proseguire fino al cuore dell’Europa, ma gli stati a nord delle Alpi si sentono al sicuro e temporeggiano. Cipro è la terza isola più grande del mare Mediterraneo dopo la Sicilia e la Sardegna; possiede un passato ricco di storia e di cultura, ma travagliato per via della sua posizione vicina alla penisola anatolica e alle coste mediorientali. Consideriamone un periodo prossimo a noi, ovvero quando l’isola faceva parte della Serenissima Repubblica di Venezia: “La storia di Cipro in rapporto a Venezia si può distinguere in due momenti: il primo, che va dal 1474 al 1489, è contraddistinto da una forma di indipendenza, sotto il protettorato di Venezia, ed ha inizio con la morte – a trentatrè anni – di Giacomo II di Lusignano; il secondo, che va dal 1489 al 1570, vede l’isola soggetta alla diretta sovranità veneziana, dopo l’abdicazione e la partenza di Caterina Cornaro per un dorato esilio nella sua pur originaria terra veneta. Sotto Venezia fu sottoposta a provvedimenti amministrativi e giuridici che la portarono a una fiorente attività produttiva e commerciale” (Marchesi P., Fortezze veneziane. 1508-1797, Rusconi, Milano 1984, p. 84).

La fortificazione bastionata italiana.
La pace armata tra la Serenissima Repubblica di Venezia e l’impero Ottomano induce i più a suggerire il potenziamento delle difese sia sulle isole, sia in terraferma: “Nell’agosto del 1567 Giulio Savorgnano definisce il progetto della fortificazione di Nicosia nell’isola di Cipro, endecagono regolare a 11 baluardi” (Fara A., Il sistema e la città, SAGEP Editrice, Genova 1989, p. 45). Sempre l’ingegnere militare Giulio Savorgnan progetterà più tardi, con modifiche di Marc’Antonio Martinengo di Villachiara, la famosa “Palma la Nuova”, attuale Palmanova, fortezza reale poligonale a nove lati con altrettanti baluardi a forma di asso di picche. Così la «fortezza ideale», o meglio la «città ideale», ovvero la Sforzinda, pensata e disegnata attorno al 1464 da Antonio Averlino detto “Il Filarete”, è realizzata quasi un secolo e mezzo più tardi. Difatti Antonio Averlino aveva propugnato nel suo “Trattato di Architettura”, una città cinta da mura e il cui sistema fortificato era il frutto dell’intersezione a 45 gradi di due quadrati. Con la Sforzinda nasce in Europa il concetto e il sistema di fortificazione a fronte bastionato definito “alla moderna”, che per più di un secolo sarà frutto esclusivo di architetti e ingegneri italiani.
Palmanova doveva servire a proteggere la pianura friulana da un’eventuale penetrazione turca proveniente dal nord o dall’est. L’invasione turco-mussulmana ci sarà, ma si fermerà contro le mura di Vienna, assediata dai turchi per la seconda volta nel 1683. Oggi quali misure cautelari stiamo attuando, contro la nuova invasione? In Germania, ad esempio, a milioni di turchi è stata concessa la possibilità d’insinuarsi e di consolidarsi all’interno della struttura economica, politica e sociale della nazione: quali le conseguenze?

L’assedio di Famagosta.
Nel luglio del 1570 le navi da guerra dell’Impero Ottomano sbarcano un forte esercito sull’isola di Cipro, non senza incontrare opposizione. I soldati turchi sono guidati dal pascià Lala Mustafà, al servizio dell’imperatore Selim II, e contano circa 100.000-150.000 uomini (sulle cifre le fonti storiche sono assai discordanti). La capitale Nicosia, che si trova al centro dell’isola, il giorno 28 luglio è posta sotto assedio e capitola dopo poche settimane, in quanto le forze che la presidiano sono circa un decimo di quelle che sarebbero occorse per difendere uno sviluppo di mura così ampio. Soldati e cittadini sono in parte trucidati, in parte fatti schiavi e imbarcati sulle navi che tornano in Turchia con un ricco bottino.
Il 22 agosto 1570 inizia l’assedio alla città di Famagosta, situata lungo la costa orientale dell’isola, e fu “portato sino in fondo da Mustafà Pascià con 150 vele, 80.000 (?) uomini e 74 bocche da fuoco contro 4.000 uomini d’arme veneziani e 3.000 tra cittadini e contadini racimolati in fretta ai comandi del Bragadin e abbandonati a loro stessi, quasi fatalmente, da una Europa distratta da altri problemi (guerra franco-ispana) e interessata comunque alla decadenza della Serenissima e da un Papa che faceva già anche troppa fatica a difendere casa propria” (Cassi Ramelli A., Dalle caverne ai rifugi blindati, ristampa anastatica, Mario Adda Editore, Bari 1996, p. 383).
La fortezza non è affatto moderna, ma s’affaccia sul mare, le mura sono rinforzate da numerosi torrioni e protette da un ampio fossato. Il bastione Martinengo e il grande Rivellino Limassò con la retrostante Torre Diamante si protendono agli angoli rivolti verso la campagna: soprattutto contro questi si accaniranno gli avversari. All’interno del perimetro esistono vari forti e ridotte, nonché la cittadella, in grado di resistere a lungo qualora le difese esterne fossero perdute.
I turchi cominciano a colmare il fossato e muovono ripetutamente all’assalto, ma non passano e sono costretti a fare affluire nuove truppe e nuovi cannoni per demolire la città che oppone una resistenza inaudita. Ogni tanto una tregua è concordata da ambo le parti e così i Veneziani ne approfittano per rabberciare le difese e i turchi per recuperare i feriti e rimuovere i cadaveri dal fossato. L’odore dei corpi in putrefazione è talmente forte che se i difensori a stento lo reggono stando sugli spalti, per gli altri è quasi impossibile avvicinarsi a sferrare un nuovo assalto. Il morale dei turchi comincia ad affievolirsi e la carneficina certo non giova allo spirito combattivo, che viene rintuzzato con esecuzioni e staffili.

Mine turche e contromine veneziane.
Il pascià si spazientisce per la resistenza della fortificazione e lancia all’assalto i Giannizzeri, corpo scelto di soldati cristiani fatti prigionieri e convertiti all’islam. Non sortiscono migliore effetto di quello ottenuto dai cosiddetti «Immortali» persiani alle Termopili, duemila anni prima, contro gli Spartani e i fidi e nobili Tespiesi. Ecco, brevemente, un significativo passo di Erodoto, a proposito della battaglia delle Termopili: «Gli Spartani, invece, combattevano in modo degno di essere ricordato, dimostrando in molti modi di saper bene usare delle armi tra uomini che non lo sapevano» (Erodoto, Storie, Annibaletto L. -a cura di-, Mondadori, Verona 2007, p. 1337, VII, 211).
Ma torniamo all’assalto turco: gli assedianti fanno ricorso anche alle mine, ovvero si avvicinano al tratto di cortina da minare, scalzano il paramento esterno del muro e scavano nel suo spessore un piccolo vano definito fornello o camera di mina, che viene stipato di esplosivo. Se l’approccio a cielo aperto rende il metodo rapido, di contro espone il personale di scavo al micidiale tiro dei difensori che inesorabilmente li falciano. Si procede allora con la cosiddetta “mina in profondità”: l’approccio alla cinta muraria da minare avviene in questo caso dal sottosuolo, perforando il terreno con un cunicolo armato da una struttura lignea. Questo può presentare una serie continua di angoli retti in modo tale che l’onda d’urto dell’esplosione non abbia la possibilità di sfogarsi lungo il condotto stesso. Al di sotto della cortina destinata alla distruzione si procede allo scavo di uno o più fornelli di mina. Collocato l’esplosivo, il cunicolo è colmato di terra in modo tale che l’esplosione si sfoghi verso l’alto, provocando distruzioni assai più serie del normale attacco di mina.
Ma i difensori sono pronti e a loro volta scavano numerosi e lunghi cunicoli di contromina per andare a intercettare le mine avversarie. La lotta si trasferisce quindi nel sottosuolo, dove i veneziani procedono alacremente, poi si fermano ad ascoltare i rumori di scavo dei turchi. L’udito li guida, scavano piano, quasi trattenendo il respiro, fino ad essere quasi certi di trovarsi accanto alla galleria avversaria. Allora preparano le armi corte, maneggevoli negli spazi angusti: pistole, daghe, pugnali e aiutati da piccole lanterne abbattono l’ultimo diaframma di terra, balzando nelle gallerie turche. Uccisi i minatori, rubano la polvere da sparo, ma lasciandone quanto basta per fare saltare l’opera prima di ritirarsi.

La resa condizionata.
Intanto gli assediati ricevono rinforzi e viveri in più di una occasione, da parte di coraggiose galee che forzano il blocco navale turco, ma tutto ciò non basta, perché le forze avversarie sono schiaccianti, le mura sono gravemente danneggiate in più punti e l’interno della fortezza è ridotto a un cumulo di rovine.
A luglio del 1571, dopo quasi un anno d’assedio, i turchi hanno perso circa 50.000 uomini, senza contare i pezzi d’artiglieria fuori uso. Nonostante abbiano aperto una breccia nelle mura mediante una mina, vengono respinti ancora. Ma i soldati veneziani sono ridotti a poche centinaia, con viveri e munizioni quasi esauriti e Marcantonio Bragadin concorda la resa della piazzaforte con Lala Mustafà ai primi del mese d’agosto: “Il pascià accoglie in malafede le proposte del Bragadin, impegnandosi a trasportare incolumi a Candia ufficiali e soldati con armi e bagagli; agli abitanti di Famagosta si garantirono i beni e il libero esercizio delle rispettive religioni. Firmati i patti, il 4 agosto, il Bragadin uscì dalla città; fu proditoriamente incatenato, mutilato del naso e delle orecchie e scorticato vivo; la sua pelle, riempita di paglia, fu mandata al Sultano a Costantinopoli per macabro scherno. La guarnigione fu decimata e trascinata in schiavitù” (Cassi Ramelli A., op. cit., p. 383).
Parrebbe che il pascià, visti quanti pochi difensori avessero tenuto in iscacco la sua armata, sia stato colto non già da ammirazione per il valoroso avversario, ma da una forte ira, tale da sottolineare ancor più l’inettitudine sua come comandante e quella dei suoi uomini come soldati. Quindi fu la strage. Tale abitudine al venire meno ai patti ha sempre connotato il combattente turco, o europeo passato volente o nolente nelle fila turche. Altre caratteristiche connotanti erano la ferocia tanto nel combattimento quanto nella vita sociale e disprezzo per il valore degli avversari. Carattere tipico di chi, generalmente, è scarso o privo di valore e di quegli altri caratteri nobili, i quali hanno comunque caratterizzato un certo comportamento cavalleresco anche tra soldati e ufficiali mussulmani e cristiani nel corso, ad esempio, delle Crociate.

Il rispetto per chi depone le armi.
Pochi giorni dopo la caduta di Famagosta la flotta europea, che così tanto tempo aveva impiegato a radunarsi, incontra e batte la flotta turca nella vicina località di Lepanto, dove ancora una volta i Veneziani si rivelarono maestri e innovatori in ogni senso. Così scrive Arrigo Petacco sulle vicende che portarono alla Battaglia di Lepanto nel 1571: “Nella loro storia, i turchi hanno sempre usato la crudeltà come strumento di dominio. La loro religione d’altronde non vietava di torturare, decapitare e fare scempio degli infedeli. Per molti di loro, la crudeltà era addirittura un godimento. Quello che accadde ai malcapitati prigionieri lo ricaviamo dal racconto di due giovani paggi che furono risparmiati, forse per la loro avvenenza, e che solo molti anni dopo furono riscattati dai loro familiari. I prigionieri, che erano circa un centinaio, furono riuniti nello spiazzo antistante la tenda e furono metodicamente fatti a pezzi a uno a uno, mentre Lala Mustafà assisteva impassibile e la folla intorno schiamazzava. Furono uccisi e squartati anche Gianantonio Querini e Astorre Baglioni. Soltanto Marcantonio Bragadin fu risparmiato perché Mustafà si limitò a ordinare che gli fossero tagliati il naso e le orecchie. Mentre lo scempio era in corso, il turco si godeva l’orrendo spettacolo divertendosi a chiedere al malcapitato dove fosse il suo Gesù Cristo che avrebbe dovuto salvarlo. Successivamente, anche tutti i soldati che avevano preso posto sulle navi, convinti di essere ormai in salvo, furono ricondotti a terra e in parte uccisi, in parte incatenati. Il giorno seguente, Lala Mustafà fece il suo ingresso trionfale a Famagosta e, dopo aver fatto impiccare Lorenzo Tiepolo, cui Bragadin aveva affidato il governo della città prima di recarsi al campo turco, scatenò i suoi soldati contro l’inerme popolazione con le conseguenze che è persino doloroso immaginare” (Petacco A., La croce e la mezzaluna. Lepanto 7 ottobre 1571: quando la cristianità respinse l’Islam, Mondadori, Milano 2005, p. 144).
Come già accennato, dopo giorni di torture Bragadin è scuoiato vivo e la sua è pelle impagliata e appesa al pennone della nave ammiraglia per essere portata a Istambul. Successivamente, con un atto di coraggio, Gerolamo Polidori riesce a trafugare le spoglie di Bragadin e portarle a Venezia, dove oggi riposano in un’urna custodita nella chiesa dedicata a Giovanni e Paolo. A noi rimane il ricordo del valore veneziano che servì a convincere almeno qualche stato europeo ad unirsi contro l’invasione turca.

Lo stile turco.
Per capire bisogna conoscere e quello della conoscenza è un terreno vasto, sconfinato, ma assolutamente praticabile da chiunque; anzi, direi da chiunque abbia voglia di capire dove si trova e perché in tale modo vive.
I turchi non sono europei, ma asiatici. Sono un “gruppo di popolazioni asiatiche derivate dal meticciamento fra genti paleoeuropoidi e genti mongoloidi. La loro sede originaria è ancora incerta, ma si ritiene fossero stanziate nella regione fra il Pamir e la Mongolia” (Larousse, op. cit., vol. 21, Milano 2004, p. 758). Lo studio del loro insediamento nella penisola Anatolica (un tempo occupata dagli Ittiti) e della loro espansione verso il Medioriente, l’Africa e l’Europa meriterebbe interessanti riflessioni e altrettanti scritti. Ma intanto consideriamo che cosa accade dopo la caduta di Famagosta (Ammòchostos in greco). L’isola di Cipro è tenuta dai turchi fino al XIX secolo, quando nel 1878 è ceduta alla Gran Bretagna, la quale ne diviene sovrana con la Prima guerra mondiale e la acquisisce come colonia nel 1925. Le vicende si susseguono lunghe e complesse, fino alle ultime destabilizzatrici operazioni militari ed etniche turche e la divisione dell’isola in due distinti settori. Oggi Famagosta fa parte del «distretto di Famagosta», difatti: “nel 1974 la zona di Famagosta venne occupata da truppe turche e dal 1983 fa parte – secondo la Turchia – della repubblica turca di Cipro del Nord (non riconosciuta dalla comunità internazionale)” (Larousse, op. cit., vol. 8, Milano 2004, p. 152). Piaccia o meno la parte in mano ai turchi è attualmente un’area depressa, disagiata. L’episodio dell’assedio di Famagosta e la nuova occupazione sono pagine di storia dimenticata sotto i colpi della nuova cultura apolide e coatta, ma dovrebbero risvegliare in noi, oggi, più di un pensiero sul nostro passato e più di un quesito sul nostro futuro di Italiani.
Per quanto concerne, più in generale, l’impero Ottomano, non si dimentichi che ai primi del Novecento si assiste alla nascita del movimento denominato “dei Giovani Turchi”, di stampo massonico, come di fatto era massone Mustafà Kemal, alias Atatürk (anche lui ricalca l’abitudine dei soliti noti di cambiarsi il nome con un soprannome, come, ad esempio, Lenin, Trotzkij, Stalin e Tito). Costui capeggiò l’insurrezione turca, facendo destituire il sultano Maometto VI nel 1922 e cercando di dare al nuovo stato un’impostazione moderna, che taluni definiscono «di stampo europeo». Ma, come ben si sa, alle cose si può anche cambiare nome: quello che conta è la loro sostanza.
E qualora ci venisse voglia di aprire definitivamente le porte allo straniero, non dimentichiamo neppure il manifesto turco del XX secolo: il genocidio degli Armeni. Siamo in piena Grande Guerra e nel maggio del 1915: “il governo di Costantinopoli decretava la deportazione dell’intera popolazione armeno-ottomana in Mesopotamia. Donne, vecchi e bambini (gli uomini validi erano già stati eliminati) venivano incolonnati ed avviati ad una drammatica “marcia della morte”, affidati alla bieca sorveglianza di sadici criminali comuni, scarcerati per l’occasione. Ma non era tutto: perché nel cammino della deportazione gli armeni erano lasciati alla mercé delle bande di predoni kurdi e circassi (loro nemici etnici), che li attaccavano -senza incontrare alcuna resistenza da parte delle scorte- uccidendo, depredando, stuprando. I sopravvissuti, infine, erano falcidiati dalla fame, dalla sete, dal caldo e dal freddo, dallo sfinimento, soprattutto durante l’attraversamento del deserto siriano. Quanti armeni morivano in questa crudelissima marcia forzata? Alcune centinaia di migliaia, secondo fonti turche; oltre un milione, secondo fonti armene. Su queste cifre si combatte ancora oggi una guerra di numeri tra gli storici; e, al di là dei numeri, tra quanti sostengono che la sanguinosa pulizia etnica del 1915-16 abbia avuto carattere di genocidio, e quanti negano tale connotazione” (Rallo M., Il movimento dei Giovani Turchi ed il suo ruolo nella partecipazione ottomana alla prima guerra mondiale, in La Grande Guerra. Storia e storie della Prima Guerra Mondiale, n. 5, Marvia Edizioni, Voghera 2011, pp. 52-53).
Così recita un’enciclopedia: “Durante la prima guerra mondiale i Turchi cominciarono a deportare in massa la popolazione soggetta, che sperava nell’avanzata russa (regione di Van). Circa 1.900.000 Armeni morirono durante la guerra” (Larousse, op. cit., vol. 2, p. 226).

Stato in punta di baionetta.
Sulla “Questione Armena” si è scritto molto e qualche decina di anni fa è uscito anche un romanzo storico dell’austriaco Franz Werfel, riedito da Corbaccio: “I quaranta giorni del Mussa Dagh”. Ma il punto è un’altro: la storia è un romanzo di cappa e spada o pensiamo davvero che la Turchia sia retta da un governo aperto, tranquillo e pacifico, che stimola l’arte e la cultura? Riporto quanto è scritto nella prefazione del libro di Marcello Flores, a titolo esemplificativo: “Alla fine del 2005, l’anno in cui l’Armenia ha commemorato il novantesimo anniversario della tragedia del suo popolo, in Turchia si è tenuto, dopo falliti tentativi d’impedirne lo svolgimento, un convegno organizzato da storici e studiosi turchi delle tre università di Istambul per affrontare la “questione armena” nella crisi dell’impero ottomano e nel corso della prima guerra mondiale. Le polemiche suscitate da questo incontro e le contestazioni di cui sono stati fatti oggetto diversi partecipanti alla conferenza sono avvenute nello stesso periodo in cui lo scrittore forse più noto della Turchia, Orhan Pamuk, veniva messo sotto accusa da un tribunale in base all’articolo 301 del codice penale, per “denigrazione pubblica dell’identità turca”. Pamuk aveva parlato, in un’intervista con un quotidiano svizzero, del “milione di armeni e dei trentamila curdi uccisi in questo paese” di cui ancora non si osava e non si poteva discutere nella Turchia che stava appena iniziando il cammino per entrare in Europa” (Flores M., Il genocidio degli Armeni, il Mulino, Bologna 2006, p. 7). Per quanto concerne il contenuto del libro posso solo suggerirvi di leggerlo e di rifletterci sopra, spegnendo finalmente la televisione e ragionando con la vostra testa.

I Quaranta Giorni del Mussa Dagh. Epopea scritta col sangue degli oppressi.
Questo è il titolo completo del libro uscito in Italia nel 1935, nell’edizione «Medusa». In apertura, l’Autore così riporta: “Quest’opera fu abbozzata nel marzo dell’anno 1929 durante un soggiorno a Damasco. La visione pietosa di fanciulli profughi, mutilati e affamati, che lavoravano in una fabbrica di tappeti, diede la spinta decisiva a strappare dalla tomba del passato l’inconcepibile destino del popolo armeno. Il libro fu composto dal luglio 1932 al marzo 1933. Nel frattempo, in novembre, in occasione d’un giro di conferenze in diverse città tedesche, l’autore scelse per una di queste conferenze il quinto capitolo del primo libro, esattamente nella forma attuale, che si basa sulla tradizione storica del colloquio fra Enver Pascià e il pastore Giovanni Lepsius” (Werfel F., I Quaranta Giorni del Mussa Dagh. Epopea scritta col sangue degli oppressi, Vol. I, Mondadori, Milano 1953, p. 6).
Ecco uno stralcio del capitolo menzionato da Franz Werfel. Parla il pastore Lepsius al sultano turco, Enver, ricordandogli innanzitutto che la persecuzione contro gli Armeni comincia ben prima dell’entrata della Turchia nella cosiddetta Grande Guerra (1914-1918): “Per quello che so, questi quindici Armeni furono arrestati molto tempo prima della guerra, quindi è difficile che si fossero resi colpevoli di alto tradimento secondo il vigente diritto di guerra”; riprende poi sempre il pastore Giovanni Lepsius “E i fatti lei non li negherà, non li può negare. Centomila individui sono già sulla via della deportazione. Le autorità parlano solo di trasferimento della colonia. Ma io affermo che questo è, per dirlo eufemisticamente, un abuso di parola. È possibile con un colpo di penna trapiantare un popolo di montanari, di operai, di cittadini, di uomini civili, nel deserto e nella steppa della Mesopotamia? In una solitudine selvaggia e immensa come un oceano, che è fuggita persino dalle tribù beduine? Ed anche questa mèta del resto non è che una finzione. Perché le autorità locali organizzano la deportazione in modo che gl’infelici già durante i primi otto giorni di marcia muoiono di fame, di sete, di malattia o diventano pazzi, che i ragazzi e gli uomini incapaci di difesa sono lasciati uccidere dai Curdi o dai banditi, se pur non dai militari, che le ragazze e le donne giovani sono addirittura spinte al disonore e in balìa di chi le vuole...”. Le parole del pastore incalzano il pascià, che rimane invece calmo e distaccato: “Già allora gli Armeni cilici avevano fatto venire dall’Europa centinaia di trebbiatrici e di aratri a vapore, dando così una magnifica occasione di massacro ai Turchi, i quali non solo trucidarono i diecimila abitanti di Àdana, ma mandarono in pezzi anche le trebbiatrici e gli aratri a vapore. In questo e non in altro stava la causa di tutto il male. La millét armena, la classe più colta e più attiva della popolazione ottomana, faceva da secoli lo sforzo gigantesco di sollevare l’Impero da un’economia naturale antiquata. (...) “Ammettiamo, Eccellenza, che il lavoro manuale, l’industria generale e casalinga, esercitate nell’interno esclusivamente da Armeni, possano venire sostituite dai Turchi, ma chi sostituisce i molti medici armeni, che hanno studiato nelle migliori università d’Europa e curano i malati ottomani con la stessa sollecitudine dedicata ai loro compatrioti? Chi sostituisce i molti ingegneri, avvocati, professori specialisti, il cui lavoro fa instancabilmente progredire il paese? Forse Sua Eccellenza obietterà che al bisogno si può vivere anche senza intelletto. Ma senza lo stomaco non si può vivere, e oggi si taglia precisamente lo stomaco della Turchia e si spera di superare questa operazione””. Ma Enver flemmaticamente spiega le sue ragioni, provocando nel pastore le seguenti parole: “Lei vuol fondare un nuovo impero, Eccellenza. Ma il cadavere del popolo armeno resterà sotto le sue fondamenta. Può questo portare fortuna? Non sarebbe possibile trovare ancora una via pacifica?” (Werfel F., op. cit., vol. I, pp. 145-151).
La «via pacifica» da parte turca non fu mai cercata. Oggi, in termini diversi, si sta preparando il terreno in Italia, per turchi e altri pacifici e democratici invasori: drastico abbassamento culturale, finta crisi in atto, dismissione delle industrie italiane, disoccupazione, fuga delle migliori teste colte e pensanti all’estero. Da decenni si prepara il deserto per coloro i quali provengono dal deserto, eliminando silenziosamente i legittimi cittadini dell’Italia.

La questione contemporanea.
Ad ogni buon conto ecco alcune interessanti osservazioni sui turchi scritte da Thomas Edward Lawrence, che i più ricorderanno con il nome di Lawrence d’Arabia. Personaggio discusso, inviso alle alte sfere britanniche, ma indubbiamente vivace, fu un acuto osservatore e, a differenza di molti moderni politici italiani, era dotato di solide basi culturali, d’intraprendenza e d’innegabile eroismo dimostrato sul campo di battaglia. Ecco che cosa scrive ai primi del XX secolo, dopo la Prima guerra mondiale: “Le civiltà arabe erano state astratte, a carattere più morale ed intellettuale che non pratico; la mancanza di spirito civico frustrava negli Arabi ogni pur eccellente qualità individuale. Raggiunsero l’apogeo in un momento felice: in un’Europa tornata barbara, mentre la memoria della dottrina latina e greca cominciava a impallidire. Per contrasto la loro imitazione degli scolastici poté sembrare cultura, progressista la loro attività spirituale, le loro condizioni prospere. E in realtà giovarono a conservare ad un futuro medioevo i frammenti d’un passato classico. Con la venuta dei Turchi, questa felicità divenne un sogno. Gradatamente i popoli semitici d’Asia passarono sotto il giogo ottomano, con una lenta morte. Furono spogliati dei beni, il loro spirito tarpato dalla presenza opprimente d’un governo militare. L’ordine dei Turchi era disciplina di gendarmi, la loro politica violenta in teoria quanto in pratica. I Turchi insegnarono agli Arabi che gli interessi d’una setta superavano quelli del patriottismo, che le cure piccine d’una provincia contavano più dei problemi nazionali. A forza di sottili discrepanze, li indussero a sospettarsi l’un l’altro. Perfino la lingua araba fu bandita dalle corti e dagli uffici, dalla burocrazia dello Stato e dalle scuole superiori. Per poter servire lo Stato, un Arabo doveva ripudiare le proprie caratteristiche di razza. Queste costrizioni non furono tollerate tranquillamente. La tenacia semitica affiorò nelle numerose rivolte in Siria, Mesopotamia, Arabia contro le forme più scoperte di penetrazione turca. Anche i tentativi più sottili di assorbimento incontravano opposizione; gli Arabi non volevano barattare la loro lingua ricca e duttile per le forme volgari del turco: invece permearono il turco di vocaboli arabi, e rimasero attaccati ai tesori della loro letteratura. Persero il senso geografico, le memorie razziali, politiche, storiche, ma si legarono tanto più fortemente alla lingua, elevandola quasi ad una nuova patria” (Lawrence Th.E., I sette pilastri della saggezza, vol. I, Mondadori Editore, Milano 1971, pp. 32-33).
Qualche cosa m’induce a supporre che i turchi non siano affatto cambiati nel tempo. Sulle efferatezze da loro compiute nella conquista e nel possesso dei territori in cui si sono espansi si potrebbero agevolmente scrivere migliaia di pagine. Sottolineo la parola agevolmente in quanto vi sono secoli di guerre e di stermini da loro compiuti sul suolo europeo: per chi volesse ricordarle anche dal semplice punto di vista cronachistico vi è solo l’imbarazzo della scelta. E, visto che oggi si sta facendo entrare la Turchia in Europa, senza assolutamente tenere conto del parere della Popolazione Europea, è bene che ci si rimbocchino le maniche e si scriva. Certamente la gente si è dimenticata delle tensioni razziali generate dalle comunità turche al di fuori dell’odierna Turchia. E mi riferisco soprattutto a quanto è successo nella vecchia Unione Sovietica: andate a leggervi le cronache tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta e, anche qui, rifletteteci sopra. Il popolo va informato, visto che le spese le faremo noi e non gli usurai mondiali e la massoneria, che da tale operazione trarranno invece un profitto enorme.
Anzi: all’interno dello scacchiere del Mediterraneo la Turchia potrebbe eseguire il cosiddetto “lavoro sporco” per gli usurai, i quali tengono saldamente in pugno gli Stati Uniti d’America. Domandiamoci sinceramente: desideriamo la Turchia e, soprattutto, i turchi in Europa, anzi, sul nostro sacro suolo Italiano?Documento inserito il: 30/12/2014
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