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La burocrazia e la tecnica nella modernità [ di Alberto Mandreoli ]

La pericolosa attualità dell’Olocausto.

Non ci chiediamo che cosa sia bene in sé
ma che cosa sia bene nella vita così com’è,
per noi che viviamo.
La questione del bene si pone e si decide
in ogni situazione.
(D. Bonhoeffer, Etica)



Uno dei meriti del sociologo Zygmunt Bauman è aver approfondito con rigore ed acutezza nel volume Modernità e Olocausto il ruolo della tecnica e della burocrazia nello sterminio del popolo ebraico, evento che ha segnato in profondità l’umanità “moderna” e civilizzata del XX secolo.
Pur constatando il fatto che l’Olocausto sia un evento oggettivamente trascorso e concluso, Bauman avverte la sinistra pericolosità che ancora oggi questo fenomeno riveste. Quelle che non sono scomparse sono le istituzioni sociali e le condizioni preliminari che hanno reso “possibile” l’Olocausto. Il progresso dell’umanità e della tecnica registrato nel XX secolo con la conseguente disumanizzazione dei rapporti sociali e la formazione dello stato moderno, al di là del quale non esiste alcun potere etico-morale che possa esercitare alcuna resistenza, rappresentano i cardini attorno ai quali sono sorti i campi dei concentramento e che, secondo l’opinione di Bauman e di altri studiosi (Leo Kuper, Henry L. Feingold, George M. Kren e Leon Rappoport), permangono -anche se sotto traccia - ancora oggi nei nostri tessuti sociali. L’individuo inserito nello stato moderno è posto dinanzi ad una scelta: accettare le norme imposte dall’autorità giuste o sbagliate che siano oppure esporsi inevitabilmente alle conseguenze di un atto di “disobbedienza”:

L’ideologia e il sistema da cui scaturì Auschwitz rimangono intatti. Lo stato nazionale non è portatore di una missione umanitaria; i suoi eccessi non possono essere tenuti sotto controllo da codici morali o giuridici, poiché esso non ha nessuna coscienza. (Feingold)

Lo stato moderno può fare qualsiasi cosa voglia di coloro che sono sottoposti al suo controllo. Sul piano dell’etica e della moralità la situazione di un individuo nello stato moderno è, in linea di principio, grosso modo equivalente a quella degli internati di Auschwitz: o agire secondo gli standard di comportamento prevalenti fatti valere da coloro che detengono l’autorità, o rischiare tutte le conseguenze che costoro sono in grado di imporre. (Kren e Rappoport)

Calcolato e preciso, lo sterminio degli ebrei e di tutti coloro che ritenuti ‘deboli’ e ‘sovversivi’ fu un prodotto della modernità che perse irrimediabilmente le redini perdendo il controllo di ciò che aveva creato.
Perfezionato nei minimi dettagli, il genocidio condotto dalla Germania durante il secondo conflitto mondiale non rappresentò un mero atto spontaneo e dettato da cieca brutalità ma fu razionalmente studiato dalle alte gerarchie nazionalsocialiste e messo in atto secondo metodi efficienti e determinati avendo sempre come riferimento il principio della “suddivisione funzionale del lavoro” al fine di rendere la società ordinata e “pulita” da elementi spuri ed inquinanti che non potevano essere rieducati in alcun modo. Linfa vitale di questo meccanismo fu senz’altro l’antisemitismo e il fanatismo ideologico ma va ricordata - come principale responsabile del genocidio ebraico - l’indifferenza del popolo tedesco che avvallò in diverse forme e modalità la realizzazione dei lager nazisti: è l’intellettuale Karl Jaspers che nel volume La battaglia contro il totalitarismo intravede nel rifiuto della propria responsabilità da parte del singolo la forza intrinseca delle dittature totalitarie:

Il totalitarismo nasce dall’abbandono del senso di responsabilità.

La cultura di un lavoro ben fatto per il quale il lavoratore si accontenta unicamente di averlo compiuto con diligenza senza interrogarsi riguardo allo scopo e all’intenzionalità, tipica del mondo occidentale, costituì la base su cui il nazionalsocialismo poté costruire il suo sinistro progetto di “riforma sociale”. Il propagarsi della tecnica e dell’efficienza lavorativa nella società ebbe l’effetto di allontanare dalla mente e dalla pratica di chi eseguiva un ordine le conseguenze morali di quella determinata azione. Punto di forza della macchina burocratica nazista, senza cui difficilmente l’Olocausto avrebbe potuto verificarsi nelle sue diversificate espressioni, fu rappresentato dal funzionario, dall’addetto, dall’operaio, che portarono a compimento la propria mansione distaccata una volta per tutte da una visione d’insieme. Ed è per l’appunto la globalità che venne intenzionalmente messa da parte: ogni persona - anche quando non si prodigava per la causa nazionalsocialista assumendo un atteggiamento intriso di omertà ed indifferenza – doveva avere dinanzi a sé il proprio compito. L’azione, burocraticamente intesa, raggiunge quindi la sua massima espressione nel carattere “neutro” e va alla ricerca di significato nella dedizione assoluta dimostrata. Prodotto spiccatamente moderno, annota H. Arendt, risulta essere l’interscambiabilità delle funzioni in virtù della quale l’individuo, trasformato in “uomo-massa”, è un semplice ingranaggio nella macchina dello sterminio; per un sistematico ed ordinato funzionamento di un lager quello che conta è aver slegato il particolare dal generale: “Il fatto che ognuno, qualunque sia il ruolo, attivo o no, in un campo di sterminio sia costretto a prendere parte, in un modo o nell’altro, al funzionamento di questa macchina di sterminio: questa è la cosa orribile. Infatti, l’assassinio di massa sistematico […] altera non solo la capacità di pensare degli esseri umani, ma anche la struttura e le categorie del pensiero politico e dell’azione. Quando tutti sono colpevoli, nessuno, in ultima analisi, può essere giudicato”. Per la filosofa tedesca, alcuni fattori che hanno fatto scaturire Auschwitz non sono del tutto scomparsi ma essendo latenti nel tessuto collettivo possono risorgere “in ogni momento”:

Le necessità del nostro tempo […] possono in ogni momento trasformarlo in un uomo-massa e renderlo lo strumento di qualsivoglia follia ed orrore.

Va da sé che gli individui, divenuti necessariamente “oggetti burocratici”, persero progressivamente il loro status di cittadini tedeschi ed assunsero al posto del nome e cognome un semplice numero impresso sull’avambraccio. Che la disumanizzazione, fenomeno tipico dei meccanismi burocratici, si sia fatta presente anche nella pratica lessicale di chi era coinvolto attivamente nella deportazione degli ebrei costituisce per Bauman un dato significativo su cui riflettere: il linguaggio razionale e distaccato diventò uno dei veicoli privilegiati per “far passare” la presunta innocenza dei brutali atti commessi. Concetto ripreso dalla Arendt che considera determinante nella genesi e nell’attuazione dello sterminio ebraico la visione utilitaristica e strumentale delle masse imposta dal nazionalsocialismo; in particolare, si denominano gli uomini “cose superflue”: “Intere masse di uomini sono di continuo rese superflue nel senso della terminologia utilitaristica. È come se le tendenze politiche, sociali ed economiche dell’epoca congiurassero segretamente con gli strumenti escogitati per maneggiare gli uomini come cose superflue”.
Decisivo per la burocrazia nazista, come per le altre tipologie di spersonalizzazione, fu il perdere di vista l’obiettivo finale esaltando agli occhi di chi operava nel disumano meccanismo dello sterminio i mezzi: questi ultimi, per volontà del nazismo, si sostituirono ai fini. Se all’inizio dell’esperienza totalitaria questa trasformazione fu condivisa dalla maggior parte del popolo tedesco, successivamente - afferma Bauman - “a tenere in funzione la macchina omicida furono, dunque, semplicemente la sua routine e la sua inerzia”. La combinazione che il nazionalsocialismo raccolse dal tessuto moderno portandola a compimento tra la metodica burocrazia e il progetto di una società migliore, più ordinata e liberata da “erbacce e pidocchi” produsse - in modo inimmaginabile e inaspettatamente per i più - l’Olocausto. Ma, a detta di Bauman, “bisognerebbe immaginare anche l’inimmaginabile”. Ad esempio, apporto non secondario al progetto di una società di ariani venne dato dall’apparato scientifico tedesco, che si volle discolpare dalle sue innegabili responsabilità con l’uscita del volume di Joseph Needham intitolato The Nazi Attack on International Science (1941). Il mito di una scienza “oggetto passivo” dell’indottrinamento e del fanatismo razzista si scioglie come neve al sole - chiarisce Bauman - dinanzi alle colpevolezze e alle intenzionalità criminali di medici, scienziati e biologici che parteciparono attivamente con le loro ricerche a fondare lo stato nazionalsocialista ed accettarono - senza porsi scrupoli o rimorsi di coscienza - i contributi finanziari per condurre i loro esperimenti. Il mondo scientifico tedesco è semplicemente un exemplum di quella che è stata definita da Nietzel e Welzer in Soldaten, Le intercettazioni dei militari tedeschi prigionieri degli Alleati la “dittatura partecipativa”, espressione con cui si intende chiarire le responsabilità dei diversi strati sociali nel sostenere, in un modo o nell’altro, la politica razzista ed antisemita di Adolf Hitler e dei suoi seguaci.
Ritroviamo nelle pagine del filosofo Günther Anders (Opinioni di un eretico e L’ uomo è antiquato) acute riflessioni - non prive di sincera e disincantata disperazione nei confronti della realtà - sulla cultura novecentesca e sulla natura incontrollabile della tecnica moderna. Nonostante un notevole progresso scientifico, l’umanità è stata capace di autodistruggersi raggiungendo con Hiroshima e Nagasaki un punto di non ritorno:

Capii subito, già il 7 agosto, un giorno dopo l’attacco a Hiroshima e due giorni prima di quello assolutamente inescusabile a Nagasaki, che il 6 agosto rappresentava il giorno zero di un nuovo computo del tempo: il giorno a partire dal quale l’umanità era irrevocabilmente in grado di autodistruggersi. Comunque ci sono voluti anni prima che io avessi il coraggio di sedermi davanti a un foglio di carta per adempiere al compito di rendere comprensibile quello che noi – e con noi intendevo l’intera umanità – riuscivamo a produrre.

In modo insidioso, prosegue Anders, la conoscenza “meccanica”, o per meglio definirla “funzionale” della realtà, garantisce alla società la presunta tranquillità ed l’illusoria innocenza di disporre di strumenti nocivi alla vita umana; quello che manca all’individuo è la capacità di allargare la propria visuale da ciò che noi stessi produciamo e questo porta ad un autentico dislivello tra le nostre facoltà: “Ciò del resto è tanto più necessario in quanto la nostra percezione non è all’altezza di quanto produciamo: come sembrano innocui i contenitori del gas Zyklon B - li ho visti ad Auschwitz – con i quali sono stati distrutti milioni di uomini!”. Nelle pagine di L’uomo è antiquato il filosofo constata con lucida amarezza la perdita da parte dell’uomo moderno della sua unità e dell’armonia delle sue abilità; l’individuo, illuso che la tecnica gli possa elargire la libertà e travolto dai suoi stessi prodotti, si trova frammentato su diversi piani e non è più in grado di ritrovarsi e rintracciare dentro di sé un significato unitario. L’uomo non è capace di “guardare” al di là della sua produzione e di prevederne le inevitabili e catastrofiche conseguenze:

Tutti questi ‘dislivelli’ […] presentano la stessa struttura: cioè una facoltà è in anticipo sull’altra, perciò una arranca dietro l’altra: come la teoria ideologica rimane indietro in confronto alle condizioni di fatto, così l’immaginare in confronto al fare: è ben vero che possiamo fare la bomba all’idrogeno ma non siamo in grado di raffigurarci le conseguenze di quel che noi stessi abbiamo fatto. E allo stesso modo il nostro sentire arranca dietro al nostro agire: con le bombe possiamo distruggere centinaia di migliaia di uomini, ma non compiangerli o rimpiangerli.

La responsabilità collettiva e individuale appare, secondo le considerazioni dell’intellettuale Hans Jonas, decisiva dinanzi al predominio della tecnica moderna che tende a porsi come pretesa; che l’etica tradizionale eccessivamente radicata nel presente e nella vicinanza spazio-temporale non sia più sufficiente per l’uomo moderno è per Jonas un dato oramai acquisito. È necessario che l’uomo sappia “vedere” le conseguenze delle proprie azioni: “Nessun’ etica del passato doveva tener conto della condizione globale della vita umana e del futuro lontano, anzi della sopravvivenza della specie. Proprio il fatto che essi siano oggi in gioco esige, a dirla in breve, una nuova concezione dei diritti e dei doveri, per la quale né l’etica, né la metafisica tradizionali offrono principi e, meno che mai, una dottrina compiuta”. Più avanti Jonas ribadisce l’assoluta novità della situazione vissuta dall’uomo contemporaneo a cui si richiede di “sapere” ciò che va compiendo: “Nessuna etica tradizionale (all’infuori della religione) ci ha preparati a questo ruolo di amministrazione fiduciaria e ancor meno lo ha fatto la visione scientifica dominante della natura”. Nel corso del XX secolo si è parlato giustamente di tecnocrazia; la supremazia sembra incontrastata tanto che non si può parlare oggi di coesistenza tra storia e tecnica. Anzi quest’ultima per G.Anders è divenuta il tessuto su cui si scrive la storia in modo che le macchine ci cambieranno inesorabilmente e non potremmo più esistere in qualità di uomini, soprafatti dalla nostra stessa produzione. Invischiati - come in realtà siamo – nel potere della macchina rispetto all’esistenza umana, non ci può credere, avverte Anders, migliori di Adolf Eichmann e non c’è posto per la protervia nei confronti del passato nazista:

Il fatto che il mondo, nel quale oggi viviamo e in cui tutto si decide sopra le nostre teste, è un mondo tecnico; al punto che non possiamo più dire che, nella nostra situazione storica, esiste tra l’altro anche la tecnica, bensì dobbiamo dire: la storia ora si svolge nella condizione del mondo chiamata ‘tecnica’; o meglio, la tecnica è oramai diventata il soggetto della storia con la quale noi siamo soltanto ‘costorici’. […] Noi ci saremo soltanto come pezzi di macchine o pezzi di materiale indispensabile alla macchina: da quel momento come uomini saremo eliminati. Non c’è dunque motivo di porsi con alterigia di fronte al mondo di ieri perché anche noi, uomini di oggi, siamo figli di Eichmann.

In ultima analisi, dinanzi alla situazione-limite dello sterminio l’assuefazione alla “normalità criminale” e la pratica ordinaria della disumanizzazione alimentata dal mito della tecnica moderna ebbero la meglio sugli addetti predisposti e non si verificò assolutamente il riscatto della responsabilità personale, la quale in Karl Jaspers diventa l’unica via per giungere all’autentica conoscenza di se stessi e alla purificazione del ricordo: “Tutti siamo portati a giustificarci e ad attaccare con accuse le forze che sentiamo come nemiche. Per questo dobbiamo metterci alla prova come non mai”.


Bibliografia
H. Arendt, Colpa organizzata e responsabilità universale, in Archivio Arendt, Milano, Feltrinelli, 2001.
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, ed. di Comunità, 1997.
Z. Bauman, Modernità e Olocausto, Bologna, il Mulino, 1992.
K. Jaspers, La battaglia contro il totalitarismo, Milano, ed. Comunità, 1957.
F. Miano, Responsabilità, Napoli, Ed. Guida, 2009.
S. Neitzel e H. Welzer, Soldaten, le intercettazioni dei militari tedeschi prigionieri degli alleati, Milano, Garzanti, 2012.
Documento inserito il: 31/12/2014
  • TAG: burocrazia, tecnica modernità, olocausto, nazismo, campi sterminio, genocidio ebraico, shoa, regimi totalitari, zyklon b, adolf eichmann

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