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L’attacco americano all’Afghanistan e il diritto internazionale [ di Michele Strazza ]

Gli ultimi avvenimenti e la rovinosa ritirata delle truppe americane, insieme alle altre forze internazionali, hanno riacceso il dibattito sull’intervento militare in Afghanistan, riacutizzando dubbi e interrogativi mai del tutto sopiti.
A seguito degli attentati dell’11 settembre 2001 gli Stati Uniti ritennero di essere diventati un vero e proprio “bersaglio di guerra”, predisponendo tutta una serie di azioni militari nei confronti degli Stati da loro considerati, in vario modo, complici degli attacchi terroristici. La sera stessa, infatti, il presidente americano George W. Bush dichiarava, in televisione, che non si sarebbe fatta “distinction between the terrorists who committed the attacks and those who harbor them”.
Dopo l’individuazione di Osama bin Laden, insieme alla sua organizzazione Al-Qaeda, come principali responsabili degli attacchi, il governo americano, il 20 settembre, inviò ai Talebani dell’Afghanistan un ultimatum in cui chiedeva la consegna del leader dell’organizzazione islamista e la chiusura dei campi di addestramento dei terroristi. Il 4 ottobre il governo britannico si schierava a fianco di quello americano.
Il 7 ottobre 2001 veniva ordinata l’operazione Enduring Freedom con il primo bombardamento aereo sul territorio afghano da parte dell’aviazione militare statunitense e inglese. Il giorno stesso il rappresentante statunitense presso le Nazioni Unite inviava al Consiglio di Sicurezza una missiva in cui si dichiarava che gli Usa erano stati fatti oggetto di un “attacco massiccio e brutale”, e che erano pronti ad esercitare il proprio diritto alla legittima difesa con azioni contro le installazioni militari e i campi di addestramento dei terroristi in Afghanistan(1).
L’intera comunità internazionale, ivi compresa l’Unione Europea, esprimevano pieno consenso all’azione militare anglo-americana(2).
I bombardamenti si estendevano ai confini settentrionali afghani, consentendo, così, all’Alleanza del Nord, forza di opposizione al regime, di sfondare le linee. Alla metà di dicembre i talebani erano ormai sconfitti.
Il 20 dicembre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione n. 1386, autorizzava in Afghanistan il dispiegamento di una forza di peace-keeping (ISAF) sotto il comando britannico.
Era legittimo, in base al diritto internazionale, l’uso della forza da parte degli Usa e del Regno Unito nei confronti dell’Afghanistan?
Nel 2001 l’uso della forza da parte di uno Stato nei confronti di un altro era sottoposto a tutta una serie di regole di diritto internazionale, derivanti sia dal diritto internazionale consuetudinario e generale, sia dalla normativa giuridica accettata dalla comunità internazionale.
Lo ius ad bellum, cioè il diritto di muovere guerra, venne limitato sin dagli anni ’20 del Novecento fino alla sua completa proibizione nel 1945, con l’approvazione della Carta ONU e la rinuncia degli Stati firmatari all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie. In particolare, l’art. 4 della Carta statuiva: “All Members shall refrain in their international relations from the threat or use the force against the territorial integrity or political independence of any State, or in any other manner inconsistent with the Purposes of the United Nations”.
Di fronte a tale principio, considerato di natura consuetudinaria dalla Corte Internazionale di Giustizia, si approntò una disciplina giuridica alternativa per i casi di necessario ed inevitabile ricorso alle armi, attribuendo al Consiglio di Sicurezza il monopolio dell’uso della forza e lasciando agli Stati, in via eccezionale e condizionata, la sola possibilità di agire militarmente in caso di legittima difesa.
Il riferimento normativo è il Capitolo VII della Carta dell’ONU (artt. 39-51), dedicato proprio all’Azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di aggressione.
Fuori dal caso dell’autorizzazione dell’ONU, in base alla Carta l’unico altro modo di usare legittimamente la forza per uno Stato è la legittima difesa, cioè l’ipotesi di self defence regolato dall’art. 51 della Carta ONU, in seguito ad un attacco diretto e nei limiti della proporzionalità, in attesa che il Consiglio di Sicurezza adotti le misure necessarie.
Questo istituto, dunque, giustifica, non considerandola illecita, l’azione violenta di uno Stato per difendersi da un attacco armato e in atto (o imminente “imminent attack”) nei suoi confronti.
Tale reazione difensiva violenta dello Stato aggredito incontra, comunque, precisi limiti di legittimità: l’attacco deve essere armato e attuale (o imminente); la reazione deve essere necessaria (deve, cioè, costituire l’extrema ratio), immediata e proporzionata; la stessa reazione deve essere finalizzata esclusivamente ad interrompere l’attacco; ogni attività coercitiva successiva alla cessazione dell’attacco, diventa rappresaglia armata, vietata dal diritto internazionale.
La legittima difesa, inoltre, ha un preciso limite nella Carta Onu: lo Stato aggredito ha diritto di difendersi solo fino a quando “il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”.
Tale impostazione di self defence è, stata però, ampliata a dismisura dagli Stati Uniti proprio a seguito degli attentati dell’11 settembre 2011(3).
Gli Usa, infatti, hanno, innanzitutto, reinterpretato, allargandolo, il concetto di “attacco armato”, fino a comprendervi anche gli attacchi singoli, i c.d. small-scale attack, per cui diventavano “attacchi armati” anche gli atti terroristici. Venivano, inoltre, attribuite e imputate agli Stati tutte le azioni di quei gruppi terroristici presenti e operanti sui rispettivi territori(4).
Secondo tale concezione, quindi, qualsiasi Stato dove fossero stati presenti gruppi terroristici sarebbero stati responsabili delle azioni compiute da quest’ultimi e gli Usa avrebbero potuto agire contro di loro.
Ma gli Stati Uniti si sono spostati ancora più in avanti, teorizzando, con la c.d. “dottrina Bush”, una vera e propria “legittima difesa preventiva”.
Con la presentazione, infatti, nel settembre 2002, di un documento intitolato National Security Strategy of the United States of America, il governo di Washington imponeva la sua visione della legittima difesa, dichiarando la propria libertà ad agire di conseguenza al fine di prevenire, oltre che le imminenti minacce con uso di armi di distruzione di massa, anche gli atti terroristici. L’attacco all’Afghanistan rientrava, dunque, all’interno di tale “dottrina”(5).
In realtà, gli attentati terroristici dell’11 settembre, per quanto gravissimi, restavano confinati nell’alveo delle azioni di gruppi terroristici determinati e non di altre Nazioni, per quanto queste ultime avessero avuto rapporti di complicità con le organizzazioni terroristiche.
Tale conclusione ci porterebbe allora a ritenere lo stesso bombardamento anglo-americano come illegittimo secondo il diritto internazionale. Peraltro, anche dando per buona la tesi dell’attacco di un’altra Nazione, bisogna pur ammettere che tale attacco era ormai concluso e, quindi, più che di legittima difesa si sarebbe dovuto parlare di “rappresaglia”, non consentita dalle norme internazionali.
Né si può accettare la dottrina della “legittima difesa preventiva”, perché il diritto internazionale già prevede il requisito dell’imminenza il quale garantisce ampiamente uno Stato al fine di prevenire le minacce esterne.
Del resto la “difesa preventiva”, come strumento per la prevenzione di minacce ipotizzate, oltre che sottoposto a possibili interpretazioni politiche, non avrebbe neanche i limiti imposti alla legittima.
difesa, cioè la proporzionalità della reazione, la necessità della difesa e la strumentalità della reazione per bloccare l’attacco in corso.
La stessa questione, inoltre, dell’imputazione delle azioni terroristiche agli Stati dove i gruppi terroristici operano non è affatto semplice, e comunque richiede un corredo probatorio non sempre presentato.
Proprio su questo problema dell’imputabilità ad una Nazione delle azioni di gruppi armati, la Corte Internazionale di Giustizia, nel caso dell’aggressione al personale diplomatico americano a Teheran nel 1980, ha precisato come la successiva approvazione governativa di un fatto internazionalmente illecito commesso da privati equivalesse a costituire l’imputabilità del fatto allo Stato stesso(6).
L’imputazione allo Stato di un atto terroristico si avrebbe, dunque, soltanto in presenza del requisito della direzione e del controllo da parte dello Stato stesso. Tale requisito dell’effective control, del resto, venne interpretato in modo restrittivo, e a favore degli Usa, proprio dalla Corte Internazionale di Giustizia con riferimento alle attività paramilitari in Nicaragua. In una famosa sentenza del 1986, infatti, la Corte stabilì che la condotta dei paramilitari antisandinisti dei Contras non fosse attribuibile agli Stati Uniti, nonostante questi ultimi avessero finanziato e sostenuto i gruppi paramilitari macchiatisi di efferati crimini. Pur costituendo una violazione dell’obbligo internazionale di non interferire nelle questioni interne di un altro Stato, dunque, tale appoggio ai Contras, in campo militare e logistico, non equivaleva ad un effettivo controllo sulle azioni dei ribelli(7).
Resta un’ultima riflessione non di poca importanza. Se l’intervento in Afghanistan, ma anche quello in Iraq, non siano l’esempio di un profondo mutamento della prassi internazionale e, quindi, del superamento di quei principi sull’uso della forza del diritto internazionale che gli stessi Paesi occidentali dichiarano di volere difendere. Solo il futuro potrà darci una risposta.


Note:

1) Doc. ONU, S/2001/946, 7 ottobre 2001.

2) Per una riflessione sul rapporto tra gli attentati dell’11 settembre e il diritto della comunità internazionale si veda anche Condorelli L., Les attentats du 11 Septembre et leurs suites : où va le droit international ?, in “Revue Générale de Droit International Public”, 2001.

3) Si vedano, a riguardo, Franck T., Terrorism and the right of self-defense, in “American Journal of International Law”, 2001, nonché Ratner S., Jus ad bellum and jus in bello after September 11, in “American Journal of International Law”, 2002.

4) Sull’uso della forza nei confronti dei terroristi in Afghanistan cfr. Paust J., Use of armed force against terrorists in Afghanistan, Iraq, and beyond, in “Cornell International Law Journal”, 2002.

5) Sulla legittima difesa preventiva cfr. Cannizzaro E., La dottrina della guerra preventiva e la disciplina internazionale sull’uso della forza, in “Rivista di diritto internazionale”, 2003.

6) ICJ Reports, 1980, Case concerning United States diplomatic and consular staff in Tehran: “The conduct of a person or group of persons shall be considered an act of a State under international law if the person or group of persons is in fact acting on the instructions of, or under the direction or control of, that State in carrying out the conduct”.

7) ICJ Reports, 1986, Military and paramilitary activities in Nicaragua: “Despite the heavy subsidies and other support provided to them by the United States, there is no clear evidence of the United States having actually exercised such a degree of control in all fields as to justify treating the Contras as acting on its behalf [...] All the forms of United States participation mentioned above, and even the general control by respondent State over a force with a high degree of dependency on it, would not in themselves mean, without further evidence, that the United States directed or enforced the perpetration of the acts contrary to human rights and humanitarian law alleged by the applicant State. Such act could well be committed by members of the Contras without the control of the United States. For this conduct to give rise to legal responsibility of the United States, it would in principle have be proved that that State had effective control of the military or paramilitary operations in the course of which the alleged violations were committed”.
Documento inserito il: 25/08/2021
  • TAG: afghanistan, terrorismo, attentato 11 settembre, enduring freedom

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