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Operazione Entebbe [ di Giovanni Caprara ]

Nel 1976, la politica espansionistica israeliana proseguiva nella sua finalità di annessione dei territori palestinesi. Le operazioni di confisca si risolvevano sempre in episodi cruenti, non ultimo quello del 30 marzo che sfociò in un bagno di sangue, nel tentativo di sedare una protesta degli indigeni. In questo clima di intolleranza, maturò l’ennesimo tentativo palestinese di opporsi all’egemonia sionista. Alle ore 12.30 del 27 giugno di quello stesso anno, un Airbus 300 della compagnia aerea Air France proveniente da Tel Aviv, decollò dall’aeroporto di Atene alla volta di Parigi. Le comunicazioni radio con il volo AF139, subirono una temporanea interruzione, ma tanto bastò a stimolare l’atavico istinto di sopravvivenza dei servizi segreti israeliani, che si posero immediatamente in allarme. Tale atteggiamento fu profetico, infatti l’aereo era stato sequestrato da un gruppo congiunto di terroristi del FPLP (Fronte Popolare Liberazione della Palestina) e della fazione tedesca Revolutionare Zellen.
I dirottatori, inizialmente, imposero ai piloti di scendere a Bengasi. La sosta in Libia durò sette ore, il tempo necessario a rifornire l’aeromobile e concludere gli accordi tesi al buon fine dei loro intenti. Il volo AF139 lasciò Bengasi con destinazione finale Entebbe. Qui sarebbero stati accolti dal dittatore ugandese Idi Amin, fervente oppositore della politica israeliana, che aveva assicurato l’appoggio necessario ai dirottatori. Difatti, quando alle ore 13.15 del 28 giugno, l’Airbus atterrò ad Entebbe, i terroristi furono ricevuti fraternamente dalle truppe ugandesi. Alcuni ostaggi vennero immediatamente rilasciati e questo atto convinse gli osservatori sui buoni propositi dei sequestratori, etichettandolo come un gesto di cooperazione e disponibilità a trattare.
Ma il Mossad non condivideva l’analisi dei negoziatori, osservando che tutti i passeggeri rimasti nelle mani dei terroristi, erano compatrioti od ebrei. Tale constatazione mise in moto la macchina da guerra israeliana. I rapiti, vennero tutti segregati nel manufatto del vecchio terminal dell’aeroporto ugandese, in attesa degli sviluppi sui negoziati intrapresi. La professionalità e la scaltrezza dei negoziatori tendeva ad intraprendere una finalità precisa, quella di guadagnare tempo.
L’errore fondamentale dei terroristi, fu nel non percepire le reali intenzioni israeliane e, soprattutto, nel concedere loro 3 giorni di proroga all’ultimatum prefissato. In quel lasso di tempo, infatti, l’esercito sionista mise a punto la sua strategia.
Nel quadro di cooperazione con i paesi del continente africano, una ditta israeliana aveva ottenuto nel passato, l’appalto per la costruzione proprio dell’aeroporto di Entebbe. Il Mossad si rivolse ai tecnici che lo avevano progettato e riprodussero la copia esatta in scala del terminal. Per la sicurezza dell’operazione ed evitare fughe di notizie, gli ingegneri rimasero “ospiti graditi” del governo sino al termine dell’impresa.
Una delle principali regole dell’intelligence, è reperire la maggior quantità di informazioni sull’obiettivo. Tale attività, è spesso un’arte ed è basata sull’ontologia, un campo di studi che appartiene alla filosofia pura, un insieme di assiomi logici di cui gli agenti devono comprenderne il tipo, le priorità che ne derivano ed eventuali altre esigenze sulle modalità della futura raccolta dati. Le informazioni devono essere classificate, in modo da trasformarle in un oggetto di studio scevro da dubbi sulla veridicità e provenienza. I dati sono divisi fra le Fonti di raccolta, a cui viene assegnata una lettera dalla A alla F, la cui decodifica è “dall’affidabile” al “non classificabile” ed al contenuto, valutato con numeri da 1 a 6 i cui valori corrispondono dal “confermato” al “non classificabile”. Infatti nel classificare un rapporto, è ineluttabile una approfondita conoscenza della fonte dalla quale sono stati attinti i dati e la storia dei suoi precedenti rapporti, questo al fine di giudicare l’attendibilità della fonte stessa. Altra condizione necessaria, è sapere quanto l’agente, che ha raccolto le informazioni, fosse in grado di comprendere la materia trattata ed ancora se la fonte era primaria, ossia se le informazioni riportate sui rapporti fossero state raccolte dall’analista stesso oppure secondaria, vale a dire se apprese da un altro elemento. Più sono i passaggi di dati, tanto maggiore sarà la possibilità di dispersione o distorsione della realtà.
Pertanto, il Mossad incaricò gli agenti che avevano maggior esperienza in materia di sequestri e dirottamenti. Questi, si avvalsero della testimonianza dei passeggeri rilasciati, a rafforzare la tesi sull’importanza della raccolta di informazioni da una fonte certa e vagliati da un analista competente. Pertanto, il gesto di cooperazione dei terroristi si tramutò nell’errore fondamentale.
Gli ostaggi implementarono le conoscenze precedentemente acquisite dagli strateghi dei servizi segreti, in particolare sulla disposizione delle suppellettili nel terminal, sull’effettivo numero dei terroristi e sullo spiegamento delle truppe ugandesi. Il Mossad, fece ricorso anche all’ipnosi per recuperare nei ricordi degli ostaggi tutte quelle informazioni che la memoria, sottoposta al forte stress causato dalla condizione ostativa di un evento traumatizzante, non rendeva fisiologicamente disponibile.
Su queste basi, fu pianificata la delicata missione, battezzata “Operazione Thunderbolt” e meglio conosciuta come “Operazione Entebbe”. I punti principali vertevano su come portare gli incursori in zona operazioni, eludere la sorveglianza, terminare i terroristi, recuperare gli ostaggi e l’esfiltrazione. Sviluppata la strategia si rendeva necessario affidare l’operazione a personale addestrato e competente per portarla a termine.
La scelta privilegiò il reparto speciale del Sayeret Matkal. Questo commando, tutt’ora inquadrato come Reggimento, svolge compiti di antiterrorismo e ricognizione avanzata ed è soprannominato semplicemente “ l’unità “. Il personale, selezionato nelle Forze Armate oppure nella stretta cerchia dei militari già arruolati, viene abilitato al servizio con un ferreo addestramento avanzato, il cui nome è “ Gidush “, sulle tecniche di combattimento ravvicinato, paracadutismo, controterrorismo e liberazione di ostaggi.
Particolare attenzione è dedicata alla Humint (Human Intelligence), finalizzata alla raccolta di informazioni ed analisi delle stesse.
In questa operazione, venne affiancato da elementi selezionati del Mossad. A completamento della squadra, furono aggregati i migliori piloti dell’Heyi Ha’avir, l’aeronautica israeliana.
Alle ore 23 del 4 luglio, la missione entrò nella sua fase esecutiva: la notte accolse nell’oscurità amica i quattro C-130 Hercules, che scelsero il punto più estremo della pista per il touch down, per ovviare al rumore prodotto dai quattro turboelica di fabbricazione statunitense. Azzardarono la discesa a luci spente e tale scelta si risolse senza incidenti, in una dimostrazione di abilità e coraggio dei piloti. In aggiunta, al fine di ottimizzare il tempo, arrivarono al touch down con i portelloni di carico posteriori che si stavano già estendendo.
Dagli aeromobili scesero due Land Rover ed una Mercedes. La berlina era stata rubata ad un ignaro civile, con l’intento di restituirla a termine operazione, senza averle arrecato neanche un graffio. Il piano di avvicinamento al terminal, prevedeva la simulazione di una ispezione a sorpresa del dittatore Amin.
Non tutte le fonti dell’epoca sono concordi nel riportare che, al momento in cui fu prelevata al legittimo proprietario, la vettura era di colore bianco, ma fu verniciata di nero, per renderla simile a quella di rappresentanza del presidente Amin e che il corteo incrociò un posto di guardia a difesa del periplo dell’aerostazione, nel quale i due militari che lo presidiavano, avevano ricevuto la notizia confidenziale che Amin possedeva una nuova macchina: una Mercedes bianca! Le guardie, non diramarono immediatamente l’allarme ma si limitarono a bloccare il corteo per ispezionarlo. Tale atteggiamento valse loro l’impietoso primato di essere le prime vittime dei commandos.
Le cronache dell’epoca, sono tutte concordi nel riportare una forza di attacco pari a 100 uomini, inoltre quanto accadde nel terminal, è oggetto di testimonianza anche degli ostaggi. Altresì, il susseguirsi degli avvenimenti lo si può dedurre dalle tattiche in uso presso i Corpi Speciali. Dunque, quando il corteo giunse antistante al terminal, elementi de “ l’Unità “ si sistemarono a protezione dei lati del manufatto, altri si posizionarono a ridosso delle finestre ed un gruppo sciamò, inatteso e letale, all’interno del terminal.
Lo scontro a fuoco che seguì, si risolse in pochi istanti: i dirottatori a guardia dei sequestrati furono freddati immediatamente, ma anche un ostaggio rimase ucciso, colpevole di aver reagito maldestramente all’irruzione israeliana tanto da essere erroneamente identificato come un terrorista
. Gli ostaggi, dopo un breve attimo di smarrimento, riacquistarono la consapevolezza di quanto fosse in atto ed indicarono agli incursori la stanza dove si trovavano gli altri terroristi. Gli israeliani fecero irruzione con il lancio di granate flash bang, una sorta di bomba a mano atta a provocare l’accecamento e lo stordimento degli avversari. I rapitori persero la vita quando ancora versavano in stato confusionale.
In una operazione coperta, il momento più delicato è l’esfiltrazione, ossia quando si deve uscire dal territorio ostile portando in salvo informazioni, ostaggi o quant’altro.
La ritirata venne inficiata dalle truppe ugandesi che si erano appostate nella torre di controllo, le quali destatesi dalla sorpresa, presero a bersagliare sia gli incursori quanto gli ostaggi. Alcuni di questi furono colpiti a morte e con loro cadde anche il comandante dei commandos, il Colonnello Yoni Netanyahu, fratello di Benjamin, futuro Primo Ministro Israeliano, che rimase l’unica perdita degli incursori.
“L’unità”, che aveva previsto tale eventualità, non si disunì e per nulla intimorita da quei colpi improvvisi, reagì fulmineamente con i militari rimasti a protezione del periplo esterno. La minaccia improvvisa venne eliminata ed in contemporanea si spianarono la strada verso la salvezza.
Il numero delle perdite ugandesi non è riportato con precisione, ma si stima che fossero compresi tra dieci e quaranta soldati. Nello stesso momento lampi di luce illuminarono il cielo e forti esplosioni rimbombarono nella notte.
Un secondo gruppo di commandos aveva distrutto tutti i caccia di stanza ad Entebbe. Si trattava di MIG-21, un aviogetto di costruzione sovietica. L’aeromobile era di indubbia validità tecnica, tant’è che fu uno degli aerei da guerra più esportati dall’Unione Sovietica. Con le sue ali a Delta, si dimostrò maneggevole, riportando alcune vittorie in combattimento sui più quotati F-104 di costruzione statunitense. La principale limitazione dell’aviogetto era nell’operatività a bassa quota. Ma l’elemento maggiormente ostativo per gli incursori consisteva nella velocità bisonica, la quale rapportata ai 640 Km/h degli aeromobili israeliani, presupponeva la minaccia di essere intercettati anche dopo molto tempo dall’esfiltrazione.
La missione magistralmente pianificata e perfettamente eseguita era giunta al termine. Gli Hercules lasciarono Entebbe solo 90 minuti dopo il loro arrivo. In quel piccolo lasso di tempo, il coraggio, la determinazione e l’addestramento si palesarono nella loro impeccabile applicazione.
I membri del Sayeret Matkal a bordo degli C-130, stavano volando verso la leggenda.
Documento inserito il: 31/12/2014
  • TAG: raid entebbe, olp, feddayn, terroristi palestinesi, israele, mossad, trattative, operazione thunderbolt, commandos, liberazione ostaggi

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