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Le origini dell’antiamericanismo

di Simone Barcelli


L’antiamericanismo è un termine che racchiude in sé un generico ma forte impulso di contrapposizione a tutto ciò che riguarda gli Stati Uniti. Siamo però di fronte a una definizione che non rende merito alle idee politiche che spesso si celano dietro questa parola, tanto che viene ancora oggi usata, anche ingenuamente, per indicare il rifiuto categorico del modello americano nel suo insieme.
Per di più, non tutti gli studiosi sono concordi nell’assegnare al sentimento antiamericano una qualche valenza, poiché ritengono che il fenomeno sia da attribuire, sostanzialmente, a un pregiudizio nei confronti degli USA che non trova riscontro nella realtà.
Paul Hollander, già professore emerito di sociologia all’University of Massachusetts at Amherst, scriveva, infatti, che tutto nasceva dall’opinione infondata di considerare sfavorevolmente la cultura e la società americana, in ogni sua forma, ritenute all’origine dei mali provocati dal consumismo e da tutto ciò che vi gira attorno: insomma, l’antiamericanismo avrebbe caratteristiche irrazionali.
Indubbiamente, di là delle etichette appioppate al fenomeno, l’antiamericanismo ha rappresentato in tutto il mondo, negli ultimi due secoli, nutrite frange di dissidenti che hanno maturato un evidente impulso critico in opposizione all’imperialismo americano e alla sempre più prepotente politica estera perseguita dagli Stati Uniti, finendo per inglobare nella protesta anche il modo di vivere degli americani stessi.
Questo dissenso, esacerbato dall’intervento militare in Vietnam e canalizzato nei movimenti pacifisti degli anni Sessanta del secolo scorso, ha suscitato un rigurgito d’orgoglio nella stessa società americana.
Il sentimento avverso alla modernizzazione e alla globalizzazione, un aspetto non trascurabile implementato nell’antiamericanismo da circa trent’anni in conseguenza del disfacimento degli equilibri geopolitici precostituiti, che trova comunque il suo radicamento nell’Ottocento, rappresenta oggi il motivo conduttore dell’avversione nei confronti degli Stati Uniti, più vivo e vegeto che mai.
Stiamo parlando di un sentimento che, seppur latente e strisciante, ha sempre accompagnato anche la storia recente dell’Italia, soprattutto dal secondo dopoguerra, l’argomento che viene dibattuto in questo testo, anche se l’atteggiamento ostile nei confronti degli Stati Uniti si fa comunemente risalire alla fine del XIX secolo.
Come rileva Romano Vulpitta, professore emerito all’Università Sangyo di Kyoto in Giappone, «quello che possiamo definire antiamericanismo è la critica all’America per quello che è e rappresenta, mentre la critica alla politica americana non è critica all’America in se stessa e non è quindi corretto definirla antiamericanismo».
Tuttavia, i due fenomeni si alimentano a vicenda, poiché le azioni politiche degli Stati Uniti, spesso svincolate dai dettami del diritto promosso dalle organizzazioni internazionali, cui la quasi totalità degli altri Paesi si rimette, danneggiano irrimediabilmente l’immagine di questo Paese nel mondo.
La politica estera degli USA, sempre più preponderante negli affari degli altri Paesi, ha determinato sovente una reazione, circoscritta nella critica alla stessa ideologia americana, sfociante infine in maniera naturale in quello che chiamiamo antiamericanismo.
Il fatto che gli americani ritengano di poter eludere norme e comportamenti dettati o imposti dalle organizzazioni internazionali, trova una blanda giustificazione nelle parole di Russel A. Berman, professore di discipline umanistiche alla Stanford University e membro senior alla Hoover Institution, quando afferma che le istituzioni internazionali manchino dell’indispensabile carattere elettivo: «L’idea stessa che uno Stato possa subordinare la propria sorte in modo significativo alla volontà di altri Stati, in istituzioni prive di un controllo esterno, si scontra con le prospettive liberal-democratiche. […] l’antiamericanismo post-democratico sottoscrive l’affermazione secondo cui il parere degli esperti, organizzati in associazioni di difesa di parte, debba prevalere sulla volontà di un popolo, espresso attraverso il processo elettorale».
Gli Stati Uniti costituirebbero, per ironia della sorte, una vera e propria eccezione alle regole democratiche cui tutte le nazioni del mondo, a parte qualche stato governato da regimi autoritari o repressivi, sentono di doversi vincolare.
L’unicità dell’America in questo strano e isolato cammino di democrazia, avrebbe provocato nel Novecento il crescente risentimento dei Paesi dell’Europa occidentale, rei secondo Berman di ignorare o non saper reagire in tempo alla minaccia costituita dai regimi totalitari: «Dal momento che gli Stati Uniti si prefiggono più alti standard morali, creando con ciò disagio in chi professa l’appeasement, essi diventano il terminale del risentimento».
Secondo Berman l’antiamericanismo sarebbe un sentimento irrazionale che presenta tratti ideologici e ossessivi, contenente fra l’altro un’ostilità pregressa che sottintende un disprezzo più marcato e generalizzato che si estende anche nei confronti degli americani.
La sua origine sarebbe addirittura da far risalire alla scoperta del Nuovo Mondo, che con le sue diversità avrebbe messo in crisi l’identità dei Paesi europei, da quel momento non più al centro del potere.
Anche lo storico Comer Vann Woodward ha scavato nel passato remoto per rinvenire le prime avvisaglie del pregiudizio antiamericano, con l’immagine europea del Nuovo Mondo in gran parte figlia del Rinascimento: una rappresentazione ripresa nel Settecento, in pieno Illuminismo, da scienziati e intellettuali europei che, senza aver mai visitato l’America, si rifacevano alla descrizione degli indigeni infidi e selvaggi che vivevano in una terra con spaventose forze naturali e immani catastrofi, così come descritta dai primi naturalisti cinquecenteschi.
Per l’arroganza e l’ignoranza dei critici europei, quel continente misterioso veniva ancora dipinto, anche dopo la Dichiarazione d’indipendenza, come una grande sventura e un colossale errore, soprattutto dai conservatori britannici.
Vann Woodward annotava, inoltre, la critica mossa da uno scrittore tory nei confronti della democrazia americana, «priva del controllo di un’aristocrazia, di una chiesa e di un’autorità militare», una dimostrazione «che l’umanità non era ancora in grado di autogovernarsi».
Lo storico ne traeva che «lungo tutto il corso dell’Ottocento, comunque, la cupa immagine dell’America creata dai conservatori dominò la scena in modo quasi costante».
Gli intellettuali europei moderni, secondo Vann Woodward, pur con un approccio più moderato, «hanno attinto copiosamente, per quanto selettivamente, alle scuole critiche del passato. Dalla condanna della cultura americana da parte dell’aristocrazia degli inizi dell’Ottocento hanno ripreso le accuse di materialismo, ossessione per il lavoro, incapacità di valutare le cose altro che per il loro valore monetario; l’accusa di uniformità, conformismo e monotonia, di mediocrità e mancanza di distinzione, di volgarità culturale, sterilità nelle arti, nelle lettere e nelle scienze, e di repressione della libertà».
La tesi di Berman ha fatto scuola, tanto che oggi quasi tutti i politologi americani sottoscrivono questo pensiero, nonostante esso sia del tutto forzato, come arguisce Vulpitta, in quanto all’epoca gli Stati Uniti non esistevano ancora ed è quindi sbagliato inglobare nella disputa tutto il continente americano.
È comunque fuori dubbio che la nascita degli USA abbia rappresentato per gli imperi europei un’imprevista per quanto stimolante presa di coscienza, determinata dal fatto di non essere più la parte più importante del mondo civilizzato. Un fenomeno, questo, che è andato nei secoli sempre più sedimentandosi, ponendo i germi di un generico sentimento antiamericano.
Oggi quest’impulso negativo nei confronti degli Stati Uniti, cresciuto negli ultimi cent’anni in maniera scomposta, costituisce per Berman un utile strumento ideologico che definisce l’identità europea, un modo non troppo elegante per sottolineare la supposta diversità dell’Europa.
Vulpitta, rifacendosi agli studi di Kazenstein, Keohane ed Ellwood, torna però a dibattere sull’influenza che, inevitabilmente, l’americanismo stesso ha esercitato nella formazione dell’antiamericanismo, cioè un’immagine del tutto speculare, poiché gli Stati Uniti nascono «come ideologia, con la pretesa consapevole di essere un nuovo modello di civiltà. E tale modello si pone sin dall’inizio come anti-Europa, come nuovo mondo che nasce dal rigetto del vecchio mondo».
Questo è accaduto, evidentemente, per la mancanza di una propria identità compiuta e di quelle solide radici culturali che invece caratterizzano molti Paesi dell’Europa e dell’Asia, di là dalle ideologie con le quali anch’essi sono stati etichettati in frangenti storici recenti: si pensi, per esempio, al comunismo per la Russia, al nazismo per la Germania e al fascismo per l’Italia.
Anche negli scritti dei Padri fondatori, riemerge con forza, tra le tante contraddizioni di quella guerra rivoluzionaria, promossa dai ceti borghesi e dai grandi proprietari terrieri che forgiarono del tutto i coloni, questo rigetto ideologico nei confronti dell’Europa, che oggi può anche intendersi come una mancata apertura, se non una chiusura completa, verso gli altri Paesi e le diverse culture che questi rappresentano, nella stolta convinzione che gli Stati Uniti siano da sempre un modello ineguagliato da contrapporre alla barbarie del mondo.
Il giornalista Ferruccio Gattuso rivela, però, che «solo una parte dei coloni americani era veramente convinta della necessità di dividersi dalla madrepatria: un terzo almeno di essi era contrario (i famosi lealisti) e un altro terzo era assolutamente indifferente al problema».
L’americanismo che nasce alla fine del XIX secolo, quando gli Stati Uniti cominciarono ad affacciarsi sulla scena internazionale, è quindi l’affermazione di un’identità priva di una solida ideologia, almeno rispetto a quella posseduta da molti Paesi europei, poiché espressione di una società all’epoca non ancora del tutto formata, anzi, in continua evoluzione anche sotto l’aspetto politico.
Questa tipicità, pur restituendo un modello all’apparenza non facilmente esportabile, non precluse agli Stati Uniti d’imporre agli altri, fin dai primi decenni del Novecento, il prototipo di un’economia basata sul libero mercato, quel che conosciamo come capitalismo, mascherato da barlumi di democrazia provenienti però da un sistema politico sviluppatosi in tal maniera solo nel mondo anglo-americano. Questa ‘minestra’ è stata poi propinata agli altri con più gusto aggiungendo l’ingrediente dei diritti umani.
L’esistenza o meno di un’ideologia americana esplicitamente formulata, secondo Vulpitta, non costituisce il nocciolo del problema: quel che conta è la percezione da parte degli altri Paesi che tale ideologia possa davvero esistere e, soprattutto, che gli Stati Uniti vogliano imporla. E qui si manifesta la reazione alla supposta minaccia, che converge nell’antiamericanismo. L’essenza dell’americanismo, continua lo studioso, può essere facilmente e unicamente individuata nell’economia di mercato, che basa le sue fondamenta sulla preminenza dell’economia sulla politica, come suggerisce il pensiero americano.


Simone Barcelli, Yankee go home! Il sentimento antiamericano in Italia, Idrovolante Edizioni, 2024.


Nell'immagine, Una manifestazione contro la guerra in Vietnam.

Documento inserito il: 04/12/2024
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