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Scienza e politica nordeuropee in viaggio: Boyle, Ray e Stenone fra Italia e Toscana

di Davide Arecco


Viaggiatori inglesi negli antichi Stati italiani tra XVI e XVII secolo

Grazie alla paziente ricerca di Daniela Giosuè, abbiamo ultimamente potuto meglio conoscere itinerari e percorsi, dall’Inghilterra all’Italia, tra Cinque e Seicento. Il primo viaggiatore inglese, del quale si ha notizia, nella nostra penisola, fu Sir Richard Guylforde, che con John Whitby raggiunse, nel 1506, la Savoia e Venezia. Tra primavera ed estate del 1517, il sacerdote Richard Torkington – passando per Parigi e Lione – fu a Torino, a Milano, Pavia, Venezia, Zante, Rodi, Reggio, Salerno, Napoli e a Roma, prima di fare ritorno a Canterbury nel 1518, imbarcandosi a Calais per Dover. Del viaggio ci resta la Informacon for Pylgrymes custodita oggi nel British Museum. Un altro viaggio di carattere religioso fu quello raccontato da Gregory Martin, nella sua Roma Sancta (1581-1582). Più interessante ancora è la Historie of Italie di William Thomas, architetto ed antiquario, il quale, tra il 1544 e il 1549, soggiornò a Firenze, Bologna, Roma, Padova, Mantova, Urbino, Genova e Napoli.
Nel Fyrst Boke of the Introduction of Knowledge del medico Andrew Borde (1547), si parla di viaggi a Napoli, Roma, Venezia, Milano e Genova. Nel 1575, uscì The Traveiler di Jerome Turler e, l’anno dopo, The Post of the World, di Richard Rowlands, che viaggiò a Roma e Venezia, Genova e Napoli, Ferrara ed Ancona: una guida ricca di notizie su stazioni di posta e agenzie di cambio. Tra il 1591 ed il 1594, fu quindi in Italia il poeta e traduttore Robert Tofte, l’autore di un Discourse to the Bishop of London (Lambeth Palace Library, Ms. 1112). Nel maggio del 1591, da Leigh, partì anche alla volta del nostro stivale Fynes Moryson, in viaggio attraverso l’Europa, per sei lunghi anni, certo il Grand Tour più esteso del tardo XVI secolo. Moryson visitò nel 1593 Napoli, Roma e l’Italia del Nord, per poi recarsi in Spagna, Svizzera e Francia, nonché in Scozia e Irlanda (1600). Manoscritto, il suo Itinerary si trova oggi al Corpus Christi College di Oxford. Esso contiene informazioni, sopra luoghi, costi degli spostamenti, prezzi, monete, locande, usi e costumi, tutte di prima mano e con gli occhi curiosi ed aperti del mercante inglese dell’epoca. Un documento interessantissimo.
La prima vera fonte di viaggio seicentesca resta la Survey of the Great Dukes State of Tuscany (1605), scritta dal segretario di ambasciata inglese, Sir Robert Dallington: un efficace ritratto della casa regnante, delle università e dell’aristocrazia toscane, all’alba del XVII secolo. Tra 1609 e 1611, proveniente dalla Francia e diretto in Oriente, fu a Livorno e Venezia il mercante Peter Mundy. Una sosta in laguna venne fatta anche da Thomas Coryate, autore nel 1611 dei Travells in France and in Savoy ed amico in patria di John Donne e Inigo Jones. Scrivendo da dotto umanista, Coryate si basò per la stesura del suo libro non solo su osservazioni personali dirette, ma altresì sulla Cosmographia universalis di Munster e sull’Itinerarium Italiae di Schott. Altro viaggio fu nel 1610 quello fatto da George Sandys, letterato e tesoriere della Virginia Company, che, transitando per la Francia, diretto in Levante, toccò la capitale della Repubblica veneta, all’interno di un percorso raccontato poi nella sua Relation of a Journey (1615). Un pellegrinaggio religioso è invece quello di William Lighgow, che nei Rare Adventures and Travayles riferì delle sue tante visite a Roma, Venezia, Napoli, Loreto, Ancona, Ragusa e Siracusa in Sicilia.
Il diario di viaggio di Sir Thomas Abdy, in Europa dal 1633 al 1635, fu scritto in francese con molti latinismi e anglicismi. Dalla Francia, Abdy giunse via Marsiglia a Genova, quindi scese nella Toscana granducale, visitando nell’ordine Pisa, Firenze e Siena, tutte descritte, da fine umanista. Da lì, si portò a Roma, Napoli, Loreto, Bologna, Venezia, Padova, Verona, Mantova, Brescia, Bergamo e Milano. Il viaggio di Sir Henry Blount (1602-1682), l’autore del fortunato Voyage Into the Levant, destinazione anche dei Memoirs di Sir George Courtshop (1616-1685), cominciò ad inizio maggio del 1634, a Venezia – venendo da Francia e Spagna, diretto in Turchia, Bulgaria ed Egitto – e, delle città italiane, incluse Palermo, Napoli, Roma, Firenze e Bologna. Importante, poi, anche il Conte di Arundel, Thomas Howard, diplomatico stuardista ed appassionato di architettura, che viaggiò nella penisola italiana sino al 1646, l’anno della sua morte.
Un viaggio intrapreso a scopi in primis manifatturieri fu quello del gallese James Howell, che si era laureato ad Oxford e arrivò a Venezia per contattare vetrai di Murano da portare a Londra e in Inghilterra. Dei suoi viaggi italiani ed europei, ci rimangono le Instructions for Forreine Travell del 1642 e le Familiar Letters stampate in più volumi ed edizioni tra il 1645 e il 1655. Nel 1651 Howell pubblicò anche in Inghilterra la Survey of the Signorie of Venice, un classico del repubblicanesimo di metà secolo, ispirato dalla rivolta di Masaniello. Un assai rapido cenno a Venezia, Repubblica di età moderna, toccata da moltissimi viaggiatori, è nell’Itinerary di John Raymond, nobile inglese ed esule realista negli anni di Cromwell. L’aristocratico britannico fu in Italia, Svizzera, Stati tedeschi e Province Unite. Tra Francia ed antichi Stati italiani, si mosse invece Francis Mortoft, tra il 1658 e il 1659, nell’immediata viglia della Restaurazione degli Stuart sul trono inglese.
A metà del secolo XVII, inoltre e sulla spinta proprio dei viaggi da Nord a Sud dell’Europa, si affermò sempre di più il mercato editoriale delle guide. Le più vendute furono, tra il 1668 e il 1669, la Present State of the Princes and Republicks of Italy e la Present State of the Republick of Venice As to the Government and Laws del francese Jean Gailhard, seguite dal Compleat Gentleman (1678) dell’inglese Henry Peacham. Soprattutto in Inghilterra, per essere un vero gentiluomo era necessario compiere un viaggio sul continente e possibilmente in Italia, al fine di incontrarvi persone di rango, visitare luoghi, vedere monumenti artistici ed intrecciare relazioni accademiche, che, nel secondo e tardo Seicento, ruotavano spessissimo o quasi sempre attorno ai ritrovati tecnici della nuova cultura scientifica, strumento ed occasione di rinnovate pratiche sociali. La manoscritta Description of Italy del prete cattolico scozzese Richard Lassels (1604-1668) racconta del viaggio compito, nel 1625 (ed oggi alla National Library of Scotland Advocates), base per il Voyage of Italy stampato postumo nel 1670. Vi si tratta dei caratteri degli italiani, di città, arte, patrimonio architettonico, libri, strutture poliche e militari, traffici e commerci, forme di governo, eruditi, vita intellettuale e scientifica. E’ il libro di un ecclesiastico, rivolto a gentiluomini, diplomatici e dotti, ma anche a mercanti, ufficiali ed artigiani. Il taglio baconiano tradisce una marcata vicinanza alle relazioni di viaggio della londinese Royal Society. Questa, del resto, sorse anche, durante la Restaurazione Stuart, prendendo a modello la fiorentina Accademia del Cimento, ed entrambe le istituzioni scientifiche valorizzarono, non solo la scienza, ma pure navigazione e arti meccaniche, tenute in gran conto, per la crescita del sapere, in Inghilterra, così come in Toscana. Ad esempio, il medico Edward Brown (1644-1708) fece nel 1669 il suo viaggio italiano, per esplorare territori e miniere (di mercurio, oro, argento e rame). Ne lasciò memoria, con il Brief Account of Some Travels in Hungaria, Servia, Carniola and Friuli (1673). In Italia, fu poi Gilbert Burnet, vescovo newtoniano di Salisbury ed autore delle Letters Containing an Account of What Seemed Most Remarkable in Switzerland and Italy, pubblicate, ad Amsterdam, nel 1686: osservazioni razionali e scientifiche della realtà fenomenica, analisi fredde e lucide riguardo alle situazioni dei vari paesi (amministrazione, clero, attività economiche, risorse della popolazione e contatti con i gruppi degli intellettuali), similmente agli anteriori Memoirs di Sir John Reresby e al Tour in France and Italy (1675-1676) di John Clenche. Forse, il massimo grado di specializzazione scientifica dei diari di viaggio inglesi si ha peraltro con i Remarks in the Grand Tour of France and Italy di William Bromley (1664-1733). I manuali giungeranno dal canto loro solo nel secolo XIX.


Istituzioni, diplomazia e traffici a Livorno e nel Seicento anglo-toscano

Al progressivo popolamento di Livorno e della sua zona portuale contribuì l’emanazione, tra il 1591 e il 1593, delle così dette Leggi livornine, che richiamarono nella città toscana ex galeotti ed in particolare mercanti di qualsivoglia natione, garantendo agli abitanti la completa libertà di culto e confessione religiosa, nonché la cancellazione di condanne penali non gravi (erano esclusi, tanto gli assassini, quanto i falsari). Tali privilegi, assenti altrove sia negli spazi granducali, sia in generale in quelli italiani, attirarono presto protestanti inglesi e sefarditi iberici. Giunsero così a Livorno molti commercianti, i quali costituirono in breve tempo una fiorente e operosa comunità di lingua inglese, spagnola e portoghese soprattutto. Vi era una certa libertà politica e religiosa, con una tolleranza di rado rintracciabile, allora, altrove. La città ed il porto livornesi furono anche il luogo di soggiorno di altre nutrite comunità straniere, organizzate, a loro volta, in nationi, i cui membri non erano ritenuti sudditi toscani (oltre agli inglesi, ricordiamo olandesi, francesi, corsi, ragusei, greci, armeni, sardi, nordici, austriaci, boemi e prussiani). Ognuna di queste comunità nazionali veniva rappresentata dai propri consoli, disponendo anche di specifici luoghi di culto e sepoltura. Sul versante economico, la istituzione del porto franco di Livorno favorì il proliferare d’attività commerciali e mercantili, sino a diventare un modello, per iniziative analoghe, nel resto dell’Europa, come nel caso della cittadina svedese di Marstrand, equivalente scandinavo in scala ridotta della realtà labronica.
Ancora durante il secolo XVIII, l’avvento degli Asburgo-Lorena in Toscana mantenne in atto lo status quo seicentesco e non alterò, né fermò, quindi, l’espansione cittadina, con la formazione di grandi sobborghi suburbani, a ridosso delle fortificazioni di Buontalenti. Anche sul piano culturale, il Settecento condusse ad un proliferare delle arti in genere, e in particolare dell’editoria. A Livorno, furono pubblicati classici dell’Illuminismo, tra cui il Dei delitti e delle pene – da Aubert, nel 1764 – di Beccaria e, solamente pochi anni più tardi, la traduzione italiana della Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, dalla Stamperia Coltellini – in competizione con Genova, Venezia e Napoli – ricavata dalla ristrutturazione del vecchio Bagno dei Forzati. Livorno, come, d’altra parte, tutto il territorio toscano, conobbe una sua crisi soltanto con l’invasione e le spoliazioni napoleoniche, tra il XVIII ed il XIX secolo. Dopo la Restaurazione del legittimismo monarchico, con il Congresso di Vienna ed il ritorno dei Lorena sul trono, grazie ai Granduchi Ferdinando III e Leopoldo II Livorno conobbe una grande stagione di riforme e opere idrauliche che ne migliorarono rete urbana e area portuale.
Nel tardo Settecento, la rilevanza internazionale del porto labronico si rilevava dalle numerose rappresentanze diplomatiche e consolari, presenti nella città, con noti personaggi, non estranei alla stessa storia livornese, tra i quali Grabau (per Hannover, Anversa, Brema e Lubecca), Binda (per gli Stati Uniti), Tausch (per l’Austria), Gebhard (per la Baviera), Appelius (per la Prussia), Mac Bean (per il Regno Unito), de Yough (per i Paesi Bassi), Stub (per la Svezia e la Norvegia) e Feher (per la Repubblica elvetica). Anche se a Livorno la Accademia Navale sorse solo nel secondo Ottocento, il caso della città labronica continuò a segnalarsi, come un esperimento politico-religioso, culturale e socio-economico decisamente riuscito agli occhi degli osservatori europei. Tra questi, coloro che da vicino monitorarono la centralità italiana e mediterranea di Livorno, argine anche contro la pirateria britannica in età moderna, furono appunto gli inglesi, sin da metà Seicento.
In Inghilterra, Milton, segretario per le lingue estere del Consiglio di Stato, dal 1649 al 1659, tradusse in latino le varie lettere di Stato inglesi scritte al Granduca di Toscana. Il Commonwealth – nell’aprile del 1651 – venne riconosciuto dal Principato toscano, anche attraverso la presenza, nel Mediterraneo, di Edward Hall e William Penn. Allo scoppio della Guerra anglo-olandese, Appleton e Badiley sbarcarono a Livorno nel 1652 e ragguagliarono per lettera il Consiglio di Stato, in merito alla loro missione diplomatica. Di lì a breve, nei primi quattro anni del Protettorato (1654-1657), il governo inglese inviò quindi nel Mediterraneo Robert Blake, che giunse a Livorno e proseguì sino a Firenze, per incontrarsi con i delegati dei Medici. A Cromwell, interessava altresì allacciare traffici di natura commerciale: la nave Little Lewis, carica di prodotti alimentari, arrivò a Livorno nel 1657 e l’anno dopo fu la volta dell’ammiraglio Stoakes e di John Hosier. A complicare le cose, per navi e imbarcazioni inglesi, erano i corsari toscani nelle acque mediterranee ed anche a ciò Londra voleva porre un deciso argine inviando i suoi ambasciatori negli spazi granducali. Morto Cromwell, il ruolo del Protettore venne assunto come noto dal figlio, Richard, che in due lettere a Ferdinando II (aprile 1659) affidò a James Modyford e John Dethick le questioni mercantili, ma il caso rimase aperto, nel corso ancora della Restaurazione Stuart. Un tentativo di risolvere la questione, per via diplomatica, venne dai consoli della nazione inglese nel porto di Livorno tra il 1665 e il 1673, ossia Joseph Kent, Thomas Clutterbuck ed Ephraim Skinner. I mercanti inglesi erano, del resto, presenti a Livorno, sin dal 1573, pionieri di una British Factory che, con alterne fortune, avrebbe prosperato e sarebbe stata presente nel mondo toscano sino all’avvento, sul trono granducale, di Francesco Stefano di Lorena, nel 1737. La loro presenza aveva comportato ovviamente anche l’instaurarsi, a Livorno, soprattutto tra XVII e XVIII secolo, di una nutrita comunità protestante, che a sua volta aveva aggiunto al dato politico l’elemento religioso, tollerata dalle autorità cattoliche, anche grazie al pretesto che Livorno costituiva un porto franco con regole sue proprie pure sul piano confessionale.
Un ruolo piuttosto importante, nella storia delle relazioni internazionali anglo-toscane, a metà del Seicento, venne svolto dal diplomatico e viaggiatore Giovanni Salvetti (1636-1716), lucchese di origine – ma nato a Warden nel Bedfordshire – figlio dell’ambasciatore a Londra Amerigo. Salvetti, formatosi presso il collegio gesuita di Eu in Normandia e padre di John (addottoratosi in medicina, all’Università di Pisa, nel 1684), fu negli anni del Commonwealth il residente toscano a Londra. Era abituato ad inviare al Granduca un foglio settimanale di avvisi indirizzato alla Segreteria di Stato, in cui riassumeva, talvolta in cifra, in modo essenziale e concreto, gli avvenimenti politici e religiosi di maggiore risalto. Non privo di intelligenza politica, per quanto criticato dal console genovese, allora in Inghilterra, per la presunta piattezza dei suoi resoconti, Salvetti impiegava una vasta e numerosa rete di informatori londinesi. I suoi avvisi, poi, erano inoltre la traduzione di notizie, che apparivano a stampa nei newsbooks pubblicati a Londra: informazioni di prima mano e notizie di cui il governo inglese stesso consentiva la circolazione. Con l’avvento della Restaurazione, nel 1660, a Firenze si pensò, per quanto concerneva le più importanti questioni riguardanti i rapporti politico-commerciali anglo-toscani, di avvicendargli Bernardo Guasconi, che, durante le guerre civili, in Inghilterra aveva combattuto nell’esercito realista e che, per questo, era stato ricompensato con cariche e onori dal Re d’Inghilterra Carlo II Stuart, con il quale la corte medicea voleva instaurare ottimi legami, di natura istituzionale, diplomatica, ed economica. Nel 1670, alla morte di Ferdinando II, divenne Granduca Cosimo III, che sin dai suoi anni giovanili aveva mostrato un profondo interesse verso la cultura e la società inglesi. L’incarico di fare pervenire a Firenze informazioni sui pubblici affari inglesi fu così affidato a Francesco Terriesi, mercante fiorentino, che risiedeva a Londra dal 1667. Questi dimostrò immediatamente sollecitudine e capacità, nel provvedere ai desideri del suo principe e per questo, al di là del suo ruolo di informatore, venne frequentemente impiegato per assolvere incarichi di fiducia per la corte medicea. Terriesi, in Inghilterra, divenne sempre di più un punto di riferimento rilevante per il milieu mediceo. Sul piano formale, all’inizio non era stato accreditato come residente, ma solo come agente. Egli subentrò al Salvetti, che si trasferì a Westminster, a fine febbraio del 1680, anche in veste di informatore della Segreteria di Stato fiorentina. Prima ancora della nomina, la notizia era comunque già circolante, e nell’ambiente dei mercanti londinesi e nella comunità italiana di Londra, con cui il Terriesi era già in relazione, per ragioni di mercatura. Rimase in Inghilterra, sino all’estate 1677, benvoluto da una corte cripto-cattolica, quale era quella degli Stuart, quando rientrò in Italia e raggiunse, a quel punto senza più lasciarla, la natia Toscana.
Francesco Terriesi (1635-1715), ricco patrizio e mercante toscano, giunse a Londra, intorno al 1668, per importare sete fiorentine in Inghilterra, presto protagonista di riuscite operazioni bancarie e mercantili, come ci dice Leti. Nella primavera del 1669, incontrò a Londra il principe Cosimo de’ Medici, allora in visita in Inghilterra. Nacque un rapporto di fiducia che sarebbe durato negli anni: a partire dall’estate 1670, Terriesi venne impiegato, frequentemente, dalla corte medicea. Fu in effetti grazie a Terriesi che prestigiosi intellettuali inglesi come Henry Neville, Samuel Morland e William Temple mantennero stretti rapporti con la corte granducale. A Terriesi fu affidato pure l’incarico di acquistare libri scientifici e politici inglesi, e lui stesso segnalava, a Firenze, le cose più interessanti stampate nell’Inghilterra degli Stuart. Grazie a lui, pervennero in Italia la traduzione in inglese di Machiavelli fatta da Neville, numerosi libri di Milton, opere di controversistica religiosa, dizionari e testi di antiquaria. A lui, il Granduca si rivolse regolarmente, per acquistare medaglie, quadri, tenere contatti con artisti come Samuel Cooper e Richard Gibson (per l’acquisto di quadri ricorreva spesso ad esperti, come il pittore Benedetto Gennari). Terriesi fu, inoltre, spesso impiegato per consegnare doni e regalie, a figure in vista della corte inglese. Autentico uomo di fiducia di Cosimo III, Terriesi venne da quest’ultimo nominato nel 1674 console della nazione fiorentina di Londra. Dopo un anno a Firenze, il diplomatico toscano tornò in Inghilterra, ad ottobre del 1678. Tra il 1679 e il 1680, poi, Terriesi continuò ad inviare settimanalmente alla Segreteria di Stato fiorentina lettere di avvisi, con estratti anche dalle gazzette londinesi. Una corrispondenza, regolare, che tenne vivissimi i rapporti, diplomatici e non solo, fra Inghilterra e Toscana, nel tardo Seicento. Anche dopo la ascesa al trono inglese del cattolico Re Giacomo II, Terriesi tenne aggiornata, costantemente, la corte di Firenze, su quanto stava verificandosi in Inghilterra, mostrando una buona capacità di analisi, tramite ragguagli oltre modo dettagliati ed attenti. Con la rivoluzione orangista, e l’avvento di Guglielmo III, Terriesi, in quanto cattolico, corse anche seri rischi personali, aiutato dal mercante inglese Sir Paul Rycaut e dai giacobiti, che andavano dopo il 1688 costituendo il loro gruppo d’azione in tutta Europa.
Dopo il 1689, Cosimo III si schierò a fianco dell’Impero asburgico, dell’Olanda, del Piemonte del Brandeburgo, e della stessa Inghilterra, in favore della Lega di Augusta. Restava il problema del porto di Livorno, la cui piazza era legata a doppio filo ai commerci anglo-olandesi. Cosimo tuttavia non amava, in quanto cattolico, al pari di Terriesi e Magalotti, schierarsi con potenze protestanti ed apertamente anti-cattoliche. La situazione a Londra restava comunque complicata e, nella primavera del 1691, Terriesi lasciò l’Inghilterra per rientrare in Italia, attraverso l’Olanda. Catturato dai soldati francesi a Mont Royal, venne infine rilasciato e poté così rivedere la sua Firenze. A Londra, prese il suo posto, fra ottobre e dicembre del 1695, Tommaso Del Bene. In quello stesso anno, a Terriesi fu affidata non casualmente la Dogana di Livorno. Come ha ricordato Stefano Villani il porto era nodo centrale, per il commercio inglese nel Levante, ed a Livorno esisteva una fiorente e vivace nazione inglese, sin dalla fine del secolo XVI. Terriesi nella sua nuova funzione poté mettere a frutto tutte le conoscenze maturate negli anni londinesi, potendo interagire, senza intermediari, con i mercanti che componevano la British Factory di Livorno e coi capitani di navi britanniche che facevano scalo nel porto labronico. In quanto provveditore doganale, egli rispondeva al Segretario di Guerra. Nelle sue lettere, Terriesi dava ampie notizie, sugli arrivi di navi nel porto di Livorno, e loro portate. In queste corrispondenze non è raro imbattersi talora in commenti sulla situazione politica europea. A Terriesi si ricorse spesso come intermediario, con la comunità mercantile inglese di Livorno. Tra il 1706 e il 1707, giocò un ruolo importantissimo nelle trattative fra la comunità inglese di Livorno e le autorità medicee, che seguirono alla richiesta del residente inglese in Toscana, Sir Henry Newton, di potere tenere nella città livornese il connazionale Basil Kennett con funzioni di cappellano. Una vita quella di Terriesi davvero avventurosa (documentata dai manoscritti conservati negli archivi fiorentini e in quelli londinesi presso la British Library), conclusasi, meritatamente, nell’agiatezza di vigne, boschi e mulini delle sue tenute sparse tra Firenze ed Arezzo.


Dall’Europa settentrionale al Granducato mediceo: viaggi inglesi e danesi a Firenze

Fra i primi a recarsi dall’Inghilterra in Toscana, nella prima metà del XVII secolo, Hobbes nel 1636 e Milton nel 1638 furono a Firenze e, nella villa di Arcetri, fecero visita a Galileo. Questi, per Hobbes era la vittima illustre dell’ingerenza del potere religioso su quello civile, mentre, agli occhi miltoniani, il grande matematico, fisico ed astronomo pisano era un martire e della tolleranza e della libertà di espressione. Due immagini – diverse, ma complementari – ambedue capaci di fotografare la rappresentazione che, di Galileo, dava la cultura inglese, all’epoca di Carlo I Stuart, nella vigilia, ormai, delle Guerre dei tre regni (1639-1651).
Pochi anni dopo Hobbes e Milton, anche il giovane Robert Boyle fece il suo viaggio, europeo ed italiano. Il natural philosopher irlandese aveva appena terminato i propri studi all’Eton College di Sir Henry Wotton. Dotato già di ottime conoscenze, in campo umanistico – la filologia classica, e greca e latina – e scientifico, nel 1639, appena terminati gli studi universitari, Boyle partì insieme ai fratelli per un lungo viaggio d’istruzione e formazione culturale in Europa. Ad accompagnarlo era il maestro e gentiluomo francese Isaac Marcombes. Rouen, Parigi, Lione e quindi Ginevra. Nella città di Calvino, Boyle si trattenne, per quasi due anni. Un soggiorno determinante, quello svizzero. Egli fece studi di retorica, logica, matematica, scienza delle fortificazioni. Lesse le Vitae philosophorum di Diogene Laerzio e, su quelle pagine, scoprì, per la prima volta, l’atomismo epicureo e le ricerche senecane sulla storia naturale. Altra scoperta ginevrina furono i romanzi francesi, letti in originale, dietro consiglio e indicazione di Marcombes. Boyle divenne così anche un provetto francesista.
Nel 1641, Boyle visitò l’Italia e trascorse l’inverno a Firenze, studiando quelli che lui definiva i grandi paradossi dell’astronomia galileiana. Lasciata la Toscana, all’inizio della primavera, Boyle soggiornò a Roma, molto colpito dalla bellezza dei monumenti archeologici. Fu quindi a Marsiglia, con l’intenzione di riprendere la strada verso casa, attraversando l’Olanda. Accantonata l’idea, dopo un’ultima tappa nei territori elvetici, Boyle e Marcombes ritornarono in patria, a metà settembre del 1644, dopo un viaggio di quattro anni, stabilendosi nel Dorset, presso il Castello di Stalbridge. Per tramite della sorella, Lady Katherine Ranelagh, e sfruttando pure le conoscenze fatte sul continente, Boyle entrò in contatto con l’alchimista ed ottico George Starkey (il quale lo introdusse alla iatro-chimica) e con il circolo, puritano, del riformatore ed accademico tedesco Samuel Hartlib, medico, politico e uomo di scienza, dall’enorme rete di contatti, fra gli altri con l’utopista Amos Comenio, le cui idee sulla pansofia attrassero non poco Boyle. Negli anni di Stalbridge, egli si occupò a lungo di filosofia naturale ed alchimia, meccanica e tecniche agricole in base – stando a quanto scrisse al suo vecchio maestro, l’homme de lettres francese Marcombes – ai princìpi dell’Invisible College. Esso fu nel medesimo tempo un gruppo di virtuosi che si riunivano al Gresham (e da cui nacque nel 1660 la stessa Royal Society) e un cenacolo segreto di stampo rosa-crociano del quale Boyle fu membro e promotore. Non si può infatti escludere a priori che Boyle, durante il suo viaggio europeo, sia anche entrato in contatto con i Rosa-Croce continentali (lo Speculum Sophicum Rhodo-Stauroticum, opera dell’alchimista Theophilus Schweighardt, era uscito a stampa nel 1618). Lo stesso Hartlib era pure uno scrittore e intellettuale rosa-crociano. Fra il 1646 ed il 1647, Boyle fu molto preso dalle attività del Collegio Invisibile e dunque da un modello ancora ermetico di scienza. Tra il 1648 e il 1649, via via più interessato – come moltissimi collaboratori, di marca puritana – agli usi sociali e politici del sapere tecnico-scientifico, fece altri viaggi: a Bristol, Londra, in Olanda e infine a Oxford. Qui fu in contatto – dal 1654 Boyle corrispondeva con l’alchimista e sperimentatore Frederick Clodius (1625-1661), fisico e mistico tedesco in relazione epistolare con Hartlib e Pepys – con Locke (per gli studi sulla trasfusione sanguinea) e con Hooke (per gli esperimenti sulle macchine pneumatiche). I viaggi sul continente lo avevano convertito ad una visione enciclopedica della scienza e Boyle studiò pure il moto perpetuo, i nuovi telescopi a rifrazione, le applicazioni di ingegneria e la farmacopea. Ebbe interessi vastissimi, dalle tecnologie nautiche al metodo per determinare la longitudine, alla luce e i colori. Il ritorno della monarchia e la congiunta nascita della Royal Society lo videro impegnato, su più fronti, con diversi incarichi pubblici. Anche dopo il 1662, rimase, tuttavia, in parte ancora legato all’alchimia tradizionale, da lui probabilmente conosciuta in occasione dei suoi viaggi. Religione e teologia – specie il nesso fede-scienza, come in Newton – erano altri suoi spiccati interessi.
Il matrimonio, tipicamente inglese, di religione e di scienza contrassegnò anche il naturalista dell’Essex John Ray (1627-1705). Lettore (1651-1658) al Trinity College di Cambridge, di umanità, greco e matematiche, maestro e amico di Wilkins e Barrow, Duport e Dale, attratto soprattutto dalla botanica (di Gesner e di Aldrovandi), dall’anatomia (di Harvey, Willis, Grew e di Malpighi), e dalla ittiologia (di Belon e Rondelet), maestro nella classificazione pre-linneana, Ray prese gli ordini, nel dicembre 1660, e tre anni dopo – come altri suoi connazionali del XVII secolo, al fine di completare l’educazione scientifica del gentiluomo inglese – scese in Italia, per catalogare le erbe e piante della penisola. Accompagnato, nelle sue osservazioni, dallo zoologo, ornitologo, e studioso di fauna ittica Francis Willoughby, Ray iniziò il viaggio di escursione dall’Olanda, il maggiore centro europeo del commercio di libri, per poi spostarsi in Germania, Francia, Svizzera e Italia. Le sue osservazioni, di natura topografica, fisiologica e naturalistica, con un catalogo di specie botaniche, non native delle isole inglesi, sarebbe stato stampato, a Londra, nel 1673, sei anni dopo la sua ammissione tra le fila della Royal Society. Con Ray, viaggiò anche il costruttore di strumenti scientifici Philip Skippon, il quale raccolse, nel suo Account of a Journey, Made Through Parts of the Low Countries, Germany, Italy and France, informazioni di carattere tecnologico e curiosità meccaniche, corredate da disegni assai pregevoli ed accurati di congegni, apparecchi e macchine d’ogni tipo.
Mentre Boyle e Ray scendevano in Italia, e si portavano nella Firenze medicea, John Finch, il primo Barone di Fordwich, osservava attentamente la situazione, italiana e toscana. Giudice di corte e uomo politico, speaker e rappresentante di Canterbury alla House of Commons, dal lontano 1614, Finch fu consigliere della Regina a Londra per volontà di Carlo I. Educato all’Emmanuel College di Cambridge, Finch fu un fedelissimo del monarca Stuart, che per i suoi servigi nel 1640 lo nobilitò e lo fece Lord Keeper of the Great Seal of England. Allo scoppio del conflitto voluto dai parlamentari di Cromwell, Finch riparò in Olanda e in Italia. Restaurata la sovranità monarchica, nel 1660, Carlo II lo richiamò a Londra per giudicare i regicidi e lo ammise nel proprio Private Council. I viaggi sul continente avevano impratichito Finch in materia di navigazione e alla Restaurazione gli si aprirono le porte dell’Ammiragliato britannico come consulente. Morì cavaliere del Regno d’Inghilterra.
Un caso simile e diverso insieme, rispetto a quelli sin qui esaminati, è quello dell’anatomista e paleontologo danese Niccolò Stenone (1636-1686), allievo, a Copenhagen, del poligrafo, botanico e medico Ole Borch, che lo avviò ad esperimenti iatrochimici di laboratorio, destinati a diventare una parte integrante della sua formazione intellettuale. Altri illustri maestri di Stenone furono il medico e matematico Thomas Bartholin e suo fratello Rasmus, fervente ammiratore del metodo cartesiano e del neonato approccio scientifico. Sotto la loro guida, Stenone si rivolse così alla fisica (meccanica, ottica, astronomia tecnica di osservazione), alla biologia e alla teologia (si appassionò alla lettura di un celebre predicatore gesuita, Jeremias Drexel). Nell’autunno 1659, l’allora ventunenne Stenone principiò un esteso Grand Tour, attraverso l’Europa. Fu in area tedesca e in Olanda, ad Amsterdam, presso il laboratorio di Gerhard Blaes, quindi a Leida, dove entrò in contatto diretto con Spinoza e fece letture cartesiane. Nel 1664, si recò, poi, a Parigi, ospite di Thévenot, presso il cui circolo ebbe modo di frequentare, fra gli altri, l’ancora giovane entomologo olandese Jan Swammerdam. Intanto, il nome di Stenone faceva la sua comparsa sul Journal des Savants, e entro il circuito culturale della Royal Society di Londra. Nel 1665, a Montpellier, Stenone incontrò quindi i naturalisti Croone, Ray e Lister, tutti futuri e influenti membri della stessa accademia scientifica inglese.
Nel marzo del 1666, varcò le Alpi, alla volta di Pisa, portando al Granduca Ferdinando II de’ Medici lettere di presentazione di Bartholin e di Thévenot. Quindi, passò a Firenze, dove conobbe il bibliotecario granducale, Antonio Magliabechi, e fu, poi, a Roma, dove incontrò Malpighi. Arrivò a Livorno nel giugno 1666. Al suo ritorno a Firenze, Stenone, nominato anatomista presso l’Ospedale di Santa Maria Nuova, fu accolto nell’Accademia del Cimento, divenendo, in particolare, sodale del suo segretario Lorenzo Magalotti, diplomatico e viaggiatore – in Francia, in Inghilterra (tre volte) e in Svezia – nonché dell’archiatra granducale e biologo anti-aristotelico Francesco Redi, così come del fisico, matematico e ultimo discepolo di Galileo, Vincenzo Viviani. Negli ultimi anni di attività della accademia scientifica fiorentina protetta dal Principe Leopoldo, Stenone fece dare alle stampe i suoi due capolavori, che, di fatto, fondano la stratigrafia e geologia moderne, il Canis Carchariae (1667) e il De solido intra solidum naturaliter contento (1669), entrambi stampati a Firenze ed assai apprezzati dalla corte medicea. Dopodiché, altri viaggi: a Vienna, Praga, Amsterdam, con una tappa nella natia Copenaghen (1672-1674). Nel 1675, Stenone fece ritorno a Firenze, dedicandosi, sempre di più, a quella fede cattolica cui si era convertito, legatissimo al nuovo Granduca mediceo, Cosimo III, che gli fu sempre amico leale e patrono munifico. Nei successivi dieci anni, Stenone viaggiò per l’Europa e si spinse pure in Turchia, in missione apostolica. Risale a questo periodo anche un breve scambio epistolare con Leibniz, nel quale i due discussero circa i rapporti tra scienza e fede.

Nell'immagine, la pagina di copertina de La sinossi di John Ray (1690).


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Documento inserito il: 12/11/2023
  • TAG: Seicento inglese, nuova scienza, storia della cultura europea, storia naturale, viaggi, alchimia, storia politico-istituzionale, storia moderna, Firenze, Commonwealth, Stuart

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