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Tra arte, viaggi europei e nuova scienza: antiquaria e archeologia dal XV al XIX secolo

di Davide Arecco e Claudia Tacchella


Erudizione enciclopedica e cultura scientifica in età moderna
di Davide Arecco

Fu con la grande stagione dell’Umanesimo quattrocentesco e del suo interesse verso il passato della classicità che nacque, a seguito dei viaggi eruditi, di studio e formazione scientifico-culturale, il collezionismo di antichità ellenico-romane, delle opere d’arte e degli utensili. L’iniziatore delle ricerche archeologiche fu, in Italia, il dotto e storico forlivese Flavio Biondo (1392-1463), autore di tre guide sistematiche e documentate sulle rovine dell’antica Roma. Libri che diedero al romagnolo una notevole fama e che contribuirono alla creazione del gusto antiquario della nascente Repubblica delle Lettere, nella prima metà del XV secolo. In particolare, la Roma Instaurata di Biondo sancì la nascita della moderna archeologia, con una valutazione storiografica delle fonti scritte, che apriva le porte altresì alla costituzione di una valutazione estetica del mondo classico, modello a cui rifarsi, in architettura, pittura e scultura.
Altri contributi fondamentali, al costituirsi della archeologia moderna, vennero dall’umanista Ciriaco Pizzecolli (1391-1452), gran viaggiatore ed epigrafista, definito, dagli stessi contemporanei, il pater antiquitatis per la sua inesausta ricerca di testimonianze del mondo antico. Amante curioso, ma non dilettante, del passato storico ed artistico, l’archeologo di Ancona mirava a riportare in vita il mondo greco-romano, riscoprendo e valorizzando, nonché facendo conoscere, tra i primissimi in Europa, l’Acropoli di Atene ed i geroglifici delle piramidi egizie e di molti altri siti archeologici, da lui incessantemente visitati, riportandone pregevoli schizzi grafici e precise relazioni scritte, molto più dettagliate e meno fantasiose di quelle poi barocche del gesuita Athanasius Kircher (1602-1680) – tra i padri del mito dell’Egitto nella cultura europa della prima età moderna, fra Roma e gli antichi Stati tedeschi – relazioni che fanno di Ciriaco un assoluto capostipite dell’indagine archeologica. Le sue parole sono assai significative ancora oggi e dicono moltissimo, sul suo approccio scientifico ai reperti: «spinto da un forte desiderio di vedere il mondo, ho consacrato e votato tutto me stesso, sia per completare l'investigazione di ciò che ormai da tempo è l'oggetto principale del mio interesse, cioè le vestigia dell'antichità sparse su tutta la Terra, sia per poter affidare alla scrittura quelle che di giorno in giorno cadono in rovina per la lunga opera di devastazione del tempo a causa dell'umana indifferenza».
Durante il Rinascimento, soprattutto italiano, presero forma le prime collezioni archeologiche, la più importante delle quali i vari papi raccolsero presso i Musei vaticani, punto di riferimento per ogni studioso, coevo e successivo. La raccolta vaticana di sculture greche iniziò con il ritrovamento del gruppo del Laocoonte, proprio nella Roma pontificia. Nel corso del XVI secolo, gli antichisti si diedero a pubblicare – utilizzando anche, al pari degli uomini di scienza, i nuovi ritrovati tecnici, a loro offerti dalla stampa a caratteri mobili – vasti cataloghi di monumenti artistici e oggetti antichi, sovente illustrati da apprezzabili incisioni su rame. Una tradizione culminata poi nel Seicento con la imprescindibile Antiquité expliquée et représentée en figures, del monaco benedettino, archeologo e paleografo francese Bernard de Montfaucon (1655-1741). L’erudito maurino pubblicò, nel suo Les Monuments de la Monarchie française, riproduzioni di monumenti megalitici, accanto a quelle delle rovine classiche e dei monumenti medievali.
All’universo erudito della paleografia e della numismatica, dell’epigrafia e degli studi storico-religiosi, ed archeologico-antiquari, ci riportano le memorie di viaggio pubblicate dal Mabillon nel Museum Italicum (1687-1689, ristampato a Parigi nel 1724) e dal Montfaucon nel Diarium Italicum (1702). Già Peiresc, astronomo e amico di Galileo, aveva raccolto – in occasione del suo viaggio in Italia, a inizio Seicento, grazie ai suoi tanti contatti epistolari – numerose opere d’arte (di Carracci, Caravaggio, Van Dyck, Tintoretto, Delorme, Longhi, Poussin, De Vries), collaborando ad ampliare la Biblioteca Reale di Luigi XIV e quella dell’Abbazia di San Vittore, raccogliendovi numerosi ed importanti materiali manoscritti e documenti librari, consultati poi da Montfaucon, nel 1719. Questi, monaco cristiano, paleografo ed archeologo, bibliofilo e studioso dei Padri della Chiesa, originario del Dipartimento dell’Aude, apparteneva a una nobile famiglia del Castello di Roquetaillade. Fece i suoi studi nel Collegio di Limoux. In qualità di giovane cadetto, partecipò alla Guerra d’Olanda, nel 1673, e fu, quindi, capitano dei granatieri, nel Reggimento della Linguadoca, agli ordini di Turenne, in Alsazia, e partecipò alla battaglia di Marienthal. Nel 1675 Montfaucon si spostò nel monastero di Tolosa, dove poté approfondire studi di diverse lingue antiche: greco, latino, caldeo, siriaco e copto, rivolgendosi anche alla numismatica. Trasferitosi, nel 1687, presso l’Abbazia di Saint-Germain-des-Prés, cominciò qui gli studi di patristica che lo avrebbero reso famoso in tutta Europa.
In breve tempo, Montfaucon diventò una delle voci più autorevoli, all’interno della comunità dei benedettini e maurini, spesso in polemica con gli ambienti ignaziani, e ritrovando nel Du Cange un maestro. Nel 1698, allora impegnato nella pubblicazione dei manoscritti superstiti di Giovanni Crisostomo, Montfaucon intraprese il suo viaggio in Italia. Nella penisola, visitò le biblioteche di Milano, Modena, Venezia, Ravenna, Bologna, Firenze e Montecassino, e, specie, quelle della Roma papale, in particolare la Vaticana. Nel corso di quel Grand Tour – di cui diede un circostanziato resoconto nel suo Diarium Italicum, stampato, a Parigi, nel 1702, un anno dopo il ritorno in patria – Montfaucon incontrò Muratori a Milano ed Innocenzo XII a Roma. Nel 1705, esaminò e pubblicò i manoscritti greci facenti parte della collezione del Duca di Coislin, ed alla morte del gesuita Michel Le Tellier fu nominato confessore del giovane Luigi XV. Nel 1714, pubblicò i frammenti che aveva raccolto degli Exempla di Origene. Un lustro più tardi, Montfaucon studiò la sepoltura megalitica di Houlbec-Cocherel, mentre nel 1723 esplorò le rovine di Olimpia, accompagnato dall’arcivescovo di Corfù. Ricerche sul campo, che fecero nascere di fatto l’archeologia moderna, al pari dell’opera più voluminosa di Montfaucon: lo studio, condotto su prove e documentarie e monumentali, in quindici tomi, dal titolo L’antiquité expliqué et représentée en figures, stampata a Parigi tra il 1719 e il 1724, un in-folio dalle oltre mille incisioni con studi di edifici e di oggetti della classicità, incluse usanze e istituzioni antiche, cerimonie e costumi d’un passato che per lui non si era mai estinto.
Ne Les Monuments de la Monarchie françoise – stampati, a Parigi, in cinque volumi, dal 1719 al 1733 – Montfaucon descrisse i monumenti archeologici francesi, dalla Preistoria al Medioevo, compreso l’Arazzo di Bayeux, da poco riscoperto. Altre opere sue da ricordare, tutte edite a Parigi, sono gli Analecta Graeca (1688), la basilare Collectio Nova Patrum Graecorum (1706), il De Ortu et Progressu Literarum Graecarum (il libro del 1708 che fonda la moderna paleografia greca, come esplicitato dal titolo) e, segnatamente, la Bibliotheca Bibliothecarum Manuscriptorum Nova, in due tomi (1739), frutto e catalogo aggiornato dei tre anni di viaggi e ricerche storico-librarie, fra Italia e antichi Stati tedeschi in particolare.
Insegnante prima a Sorèze ed in seguito presso le Abbazie di Lagrasse e di Bordeaux, lettore e ammiratore di Plutarco, Montfaucon fu stimatissimo, tra il XVIII e il XIX secolo, guardato come un vero modello da Le Cerf (1725), Groz de Bose (1751), Schatz (1757), Tassin (1770) e Wedgwood (1786). Bossuet lodò l’edizione di Atanasio, del 1698, e Champollion si basò, per la traduzione dei geroglifici egiziani, anche sui tesori di fatica spesi da Montfaucon sulla scrittura e sulla architettura antiche e medio-orientali.
Con a disposizione gli strumenti della critica filologica, elevata, ora, a scienza, il Montfaucon fu, inoltre, un notevole storico delle religioni. Entrò in possesso di alcuni antichi manoscritti, anche grazie ad Anselmo Maria Banduri. Si conobbero, a Firenze, all’inizio del 1700, e presto divennero grandi amici, con il primo che dispensava il secondo di affetto e amorevole stima. Il francese, allora impegnato a lavorare su Eusebio ed Isaia, fece dono al dalmata dei suoi insegnamenti. Gli interessi che li accomunavano erano i medesimi: filologia testuale, archeologia, applicazione scientifica di stampo meccanicistico (e oramai newtoniano); orizzonti condivisi, in quei medesimi anni, anche dal bresciano Angelo Maria Querini e ancor più dal veronese Francesco Bianchini, come ci confermano le lettere tuttora inedite di Montfaucon al Granduca di Toscana (tramite il Magliabechi). Del resto, quando si incontrarono, nella Firenze di Cosimo III, al principio del 1700, i due discussero, assai a lungo, dei codici umanistici di Bruni e Bracciolini, conservati oggi alla Biblioteca Nazionale (Conv. Soppr., E. VI. 2655). Montfaucon fu un autentico gigante della storia sia intellettuale sia scientifico-accademica, tra Sei e Settecento, non solamente in Francia, ma anche di riflesso in Italia e in Europa continentale. Fu all’interno di quel network, quanto mai mosso e variegato, che nacque e maturò, si sa, la cultura illuministica del secolo XVIII, con il suo culto baconiano per la crescita del sapere.
Guida preziosissima e insostituibile, per Montfaucon, fu il monaco benedettino, viaggiatore e diarista, Jean Mabillon (1632-1707), diplomatico e teologo, storico e medievista, dotto paleografo, e tra i primi archeologi francesi del secolo XVII. Maurino, formatosi a Reims, terminato il Seminario diocesano, Mabillon si spostò, nel 1654, nei monasteri di Corbie e Saint-Denis, di Parigi. Nel 1664, diventò bibliotecario del Duca di Achery, a Saint-Germain-des-Prés. Lavorò, da allora, a fianco del Du Cange, di Etienne Baluze e del Tillemont. Studioso ed annalista rigoroso, specialmente di storia antica, si dedicò all’opera di San Bernardo (1667) e alla storia dell’Ordine Benedettino (1668-1701, e 1703-1707, in più volumi). Nel 1681, per conto del Re Sole e di Colbert, Mabillon intraprese un Grand Tour, alla ricerca e di libri e di manoscritti molto rari: viaggio che lo condusse nelle Fiandre, in Borgogna, in Svizzera, in Lorena, quindi sul suolo tedesco ed italiano, a contatto con savants ed uomini di scienza. Fece ritorno in Francia nel 1685, ed il frutto di parte di quell’esperienza culturale vide la luce, quattro anni dopo. Mabillon fu, inoltre, un membro della Académie des Inscriptions et Belles Lettres parigina, e un notevole protagonista della vita intellettuale della Repubblica letteraria, nel XVII secolo. Egli studiò le opere dei Padri della Chiesa, e la tradizione della Imitatio Christi di Tommaso da Kempis, ma il suo capolavoro resta certo il De Re Diplomatica, del 1681, composto in risposta a gesuiti e bollandisti (come Papenbroeck). Mabillon fu altresì un corrispondente di Pierre-Daniel Huet, negli anni della sua gran polemica anti-cartesiana. Scrisse storie di santi, del Regno di Francia, di papirologia e di genealogia (in anticipo, qui, su Leibniz e Muratori), nonché della Scuola di Chartres. Le sue ricerche su bolle papali ed eresie misero, poi, Mabillon in contatto con Cotelier, Thomassin e Valois, du Pin, Papa Alessandro VII e Dodwell, tra gli altri. Autentico metodologo del sapere storico, Mabillon si impegnò anche nell’allontanare i sospetti di Giansenismo da diversi suoi confratelli. Ebbe rapporti epistolari con dotti da lui conosciuti, nel corso dei suoi viaggi, a Firenze, a Venezia, Genova, Milano, Napoli, Roma, nell’Abbazia di Montecassino, in Alsazia e Normandia.
La sua opera di viaggiatore e di diarista fa il paio, per importanza e mole di informazioni, con quella di Balthazar de Monconys (1611-1665), l’autore del noto Journal des Voyages. Monconys fu un grande esploratore e magistrato francese. Cresciuto, a Lione, dai Gesuiti, visitò, due volte, Delft, dove conobbe vari artisti tra cui Vermeer. Il suo diario di viaggio a stampa racchiude una miriade di informazioni, non solo su antichisti, letterati, filologi ed antiquari, ma, anche, su uomini di scienza, presenti ed attivi, con ruolo di protagonisti, nel ceto colto di età barocca, specialmente francesi ed italiani, inglesi ed olandesi. Monconys fu insieme un medico ed uno scrittore neo-pitagorico, che si rifaceva, anche, agli insegnamenti di Zoroastro e degli alchimisti, greci ed arabo-medievali. Quando la peste colpì Lione, nel 1629, egli si spostò presso l’Università di Salamanca. Nel 1645 visitò, oltre all’Italia, anche Egitto, Palestina, Siria e Costantinopoli. Ritornò in Francia, nel 1649. Qui, divenne precettore del figlio del Duca di Chevreuse. Altre fondamentali esperienze di viaggio lo portarono, nel 1664, in Inghilterra, presso gli uomini della Royal Society e della corte stuardista di Re Carlo II, e da lì in Olanda, Stati tedeschi, nella Milano spagnola e infine nel Ducato sabaudo a Torino.
Oltre a quelli di Montfaucon e Mabillon, un altro viaggio francese in Italia, importante per la nascita dell’archeologia moderna, fu pure quello dello scrittore François-Maximilien Misson (1650-1722). In fuga da Parigi, dopo la Revoca dell’Editto di Nantes (1685), Misson giunse in Inghilterra, in veste di precettore di Charles Hamilton, per poi scendere in Italia. Pirata ed ugonotto, sensibile al millenarismo e alle profezie, Misson scrisse resoconti di viaggio tutt’ora da riscoprire. In effetti, con Rogissart (1706), d’Anville (1744), Richard (1766), e Gougenot (1775), il viaggio missoniano è da rivalutare in sede storiografica. Il protestante francese ragguagliò circa il suo soggiorno inglese, con i propri Mémoires et Observations, faites par un Voyageur en Angleterre, sur ce qu'il y a de plus remarquable, stampato, in Olanda, nel 1698. Ancora più interessante è il Nouveau Voyage d'Italie, pubblicato una prima volta nel 1691 e più volte riedito, nell’età dell’Illuminismo (la quinta edizione apparve ad Utrecht in più tomi nel 1722). Misson vi racconta in modo circostanziato del suo viaggio italiano, in forma di lettere. Egli fece tappa (1688-1690) a San Marino, Velletri, Piperno, Fossano, Fondi, Capua, Aversa, Napoli, Pozzuoli (visitandovi grotte naturali, monti ed altri luoghi virgiliani), Pescara, Frascati, Tivoli, Roma, Pisa e Firenze, per arrivare a Parma, a Cremona, Mantova, Brescia, Bergamo, Milano, Pavia, Voghera, Novi, Genova, Alessandria, Casale, Torino, e Susa, valicando il passo del Moncenisio e portandosi, attraverso Chambery, in Francia a Mont-Melian e ad Aix, prima di raggiungere la Svizzera (Berna, Basilea) e di far ritorno in terra francese: prima a Strasburgo, poi ad Aquisgrana. Quindi, il viaggio proseguì nell’attuale Belgio (a Liegi ed a Bruxelles), ed in Olanda e aree fiamminghe (Malines, Anversa, Bruges, Ostenda).
Quello fatto, e descritto, da Misson, nel suo Voyage, è un itinerario non comune ed abbastanza tortuoso, che include pure i villagi e non solo le grandi città. Interessato anche alle cose singolari di ogni località – ad esempio, il tarantismo salentino, oggetto di studio a quell’epoca, dopo Kircher, da parte di Baglivi e, nel secolo successivo, di Serao – Misson vide cattedrali, chiese paleo-cristiane, templi pagani, necropoli etrusche (fra Toscana ed odierno alto Lazio), siti celtici dell’antica Liguria, vasi e anfore, ed iscrizioni religiose, con una marcata attenzione, letteraria e storico-erudita, verso architettura, aspetti religiosi, arte ed archeologia. Quella del viaggio missoniano è dunque un’ampia geografia, da Londra al Vesuvio, all’alta Savoia: spazi visitati con gli occhi insieme del naturalista e dell’erudito (frequenti le citazioni patristiche). Misson accluse al resoconto di viaggio (splendido, fra l’altro, è l’apparato iconografico-illustrativo) anche un Mémoire pour les voyageurs, con notizie e informazioni varie, su Italia, Francia, Olanda, Fiandre, Groninga, Baviera, il Ducato di Modena, la Repubblica di Lucca (di solito ‘saltata’, da quanti compivano il Grand Tour continentale), Bologna, Rimini, le Marche e Lodi. Non mancano digressioni dotte sull’arte (di Cimabue e di Durer), nonché notizie di carattere politico su Cristina di Svezia e Papa Innocenzo XII. L’opera ricavata dal viaggio – una fonte veramente utilissima e tutto sommato poco impiegata dagli storici – comprende, inoltre: una lista alfabetica dei palazzi nobili ed ecclesiastici romani, dei cardinali e dei marchesi; un altro elenco, di dogi genovesi (delle famiglie Grimaldi, Doria, Spinola) e delle dame ginevrine; una storia degli enigmi epigrafici e latini e greci di Francoforte, allora ancora irrisolti (sui quali lavoravano lo Spanheim ed il Wolff). Curiosamente, l’eretico si basava anche su fonti gesuitiche: le parti dedicate alla geologia italica rinviavano infatti esplicitamente al Mundus subterraneus kircheriano, stampato, ad Amsterdam, nel 1665 e contenente fra l’altro un credibile omaggio alla teoria della Terra cava, in anticipo su Halley ed Eulero. L’opera di Mabillon, Montfaucon, Misson e Monconys si rivelò, nella prima metà del secolo XVIII, un punto di partenza per la scienza e i viaggi del veronese Francesco Bianchini (1662-1729), primo newtoniano d’Italia e figura chiave, per cogliere appieno il passaggio dal razionalismo ai Lumi nella nostra penisola, persino più dei meglio noti Muratori e Maffei.
Arte, ricerca antiquaria e gusto estetico furono quindi primi motori del moderno Grand Tour e fornirono un contributo essenziale alla nascita tanto della scienza, quanto dell’archeologia. Tra XVI e XVII secolo, si cominciò in effetti a viaggiare per tre motivi, tra di loro strettamente collegati: per visitare i luoghi urbani e spazi del sapere, per vedere in prima persona sul campo monumenti, infine per avvicinare e incontrare accademici e studiosi che si sapeva essere colleghi nel medesimo campo di ricerca scientifico-culturale e di indagine storico-erudita.
L’arte rappresentava, per i viaggiatori dell’età moderna, un potentissimo fattore di attrazione, un vero grande motivo del loro mettersi in viaggio. Il Settecento, rielaborando e stilemi e procedure seicentesche, fu, poi, un secolo chiave: il ligure Amoretti (trapiantato nella Lombardia austriaca del Caffè) tradusse nel 1777 Winckelmann, e contribuì così a diffondere il classicismo platonizzante dei Lumi. La ricerca antiquaria romana si affermò, attraverso l’opera dei Visconti: una famiglia che ha fatto la storia – nella nostra penisola, e non soltanto – dell’arte, dell’investigazione antiquaria, della archeologia e del collezionismo, non solo di libri, ma altresì di antichi reperti ed epigrafi.
Giovanni Battista Visconti (1722-1784) fu, dopo il 1768, riorganizzatore dei Musei Vaticani e scultore di gusto neo-classico, in linea con Amoretti. Il più noto figlio Ennio Quirino (1751-1818) fu anche uomo politico, oltre che archeologo e museologo. Catalogò le collezioni museali vaticane, per conto di Clemente XIV, divenendo il conservatore dei Musei capitolini e partecipando, anche in veste di console, all’esperienza della Repubblica romana, tra il 1798 e il 1799, prima di trasferirsi a Parigi, per diventarvi curatore delle antichità del Louvre, e dal 1803 membro dell’Institut de France, tra le cui mura fece studi di iconografia e iconologia, greca (1808) e romana (1817-1826). Suo figlio Louis nacque poi a Roma, nel 1791, e morì, nella capitale francese, nel 1853, dopo una vita dedicata all’architettura e al disegno, spesa tutta o quasi tra Parigi e Bruxelles.
Nel corso del Settecento, Piranesi ridefinì l’architettura come anatomia di rovine (un tema già adombrato, in Inghilterra, dal biblista e geologo lucreziano Thomas Burnet, tra 1680 e 1684). Papa Clemente XIV fondò nel 1771 il Museo Pio-Clementino; in area nordica sorsero gallerie a Londra, a Monaco di Baviera e a Dresda (qui Federico II incaricò un viaggiatore newtoniano e libertino come il nostro Algarotti di procurare, oltre Manica, quadri e ritratti), mentre l’archeologia classica andò in questo periodo ridefinendo il proprio statuto, e di metodi e di finalità, incontrando i rigorosi canoni dell’Illuminismo nella costruzione di uno studio finalmente scientifico dell’antichità (analisi attenta dei reperti, datazione la più possibile precisa, lettura oggettiva e condivisa di manufatti ed opere). Il contesto di questi sviluppi e trasformazioni resta quello, partecipe e interessato, dei viaggiatori, che si muovevano assecondando e talora rinnovando le dinamiche sociali e culturali del Grand Tour. Si tratta di un complesso percorso storico che comincia nel Seicento, per affinarsi, in via definitiva, nel Settecento, in rapporto alla diffusione e della scienza e della sociabilità (e accademica e massonica) illuministica, sino ad approdare quindi nel primo Ottocento, ormai in pieno clima romantico. Con il passaggio da un secolo all’altro, naturalmente, mutano e gusto e percezione, non la fascinazione per i prodotti, sia della natura (luoghi, città, campagne e paesaggi), sia dell’uomo (opere d’arte, musei, invenzioni). Le prime esposizioni artistiche si hanno, non a caso, durante la Rivoluzione industriale, con il patrocinio delle accademie scientifiche, a conferma d’un nesso arte-scienza che (nato nel XVI secolo) non viene mai meno e resta vivissimo. In Gran Bretagna, sia presso la British Institution, sia (anche con importanti presenze tedesche) presso la Manchester Literary and Philosophical Society, vennero esposte, e per la prima volta, al pubblico dei viaggiatori, accorsi per l’occasione, le opere d’arte degli antichi maestri, in un’esplicita e voluta celebrazione del passato, fra tributo e trionfo. In quel contesto, plurale, agirono numerose e convergenti figure storiche: artisti e mercanti, artigiani e commercianti, filosofi naturali ed esponenti del patriziato più colto, antiquari e archeologi. Il quadro di insieme rimaneva ancora quello, fortemente contrassegnato da legami di patronage aristocratico, ereditato e riadattato ai tempi nuovi, del trasformato mecenatismo rinascimentale e barocco.
A fianco dell’interesse antiquario nei confronti dell’età classica – la cultura umanistica invece fu riscoperta soprattutto, in maniera congiunta, da umanisti, tipografi e uomini di scienza – nacque e si sviluppò, in età moderna, anche il gusto archeologico per i reperti della preistoria, per mano degli studiosi italiani e francesi. Il medico e botanico romano Michele Mercati (1541-1593), fu altresì un grande naturalista ed archeologo, autore del trattato Degli obelischi di Roma (1589) e della postuma Metallotheca Vaticana (1717). Dopo di lui, pioniere nelle indagini preistoriche fu Nicolas Mahudel (1673-1747), medico gesuita, numismatico ed archeologo, che cominciò ad interessarsi delle ‘pietre di fulmine’ (ceraunia), ossia gli oggetti di pietra preistorici, che venivano man mano rinvenuti, e dei quali si faticava, allora, a comprendere l’origine. Mahudel propose in particolare, per la prima volta, la successione delle ere storiche, distinguendo età della pietra, del bronzo e del ferro.
Se una notevole e forse sottovalutata spinta alla crescita e maturazione dell’archeologia venne dal nuovo sapere scientifico-tecnico del XVII secolo, altrettanti stimoli intellettuali giunsero con la cultura dei Lumi settecentesca. Nel XVIII secolo, le scoperte archeologiche furono notevolissime e si concentrarono specialmente nella zona di Pompei e del Vesuvio. Nel 1748, presero infatti il via le prime campagne di scavo, regolari e costanti, prima ad Ercolano e quindi a Pompei, volute e portate avanti dall’autorità statale del Regno di Napoli. La scoperta di città quasi intatte, nonché complete di oggetti della vita quotidiana e addirittura delle sagome dei corpi umani, ebbe una larghissima eco in tutta Europa. Agli scavi archeologici di Ercolano dedicò, fra l’altro, la sua prima dissertazione il padre del classicismo settecentesco (insieme, platonizzante ed illuminista), Johann Winckelmann, il quale fece poi dare alle stampe (1764) la basilare Storia delle arti del disegno presso gli antichi, da un lato ancora figlia della classica erudizione antiquaria e dall’altro capace di oltrepassarla in nuova direzione, quella di una archeologia più moderna e scientifica, severa e rigorosa. Da Winckelmann, le opere d’arte greche e romane vennero inserite nel loro contesto storico e, da ciò, conseguiva una periodizzazione degli stili artistici. Nacque così una rinnovata archeologia neo-classica, paradigma di una bellezza ideale che aggiornava i moduli umanistico-rinascimentali di epoca precedente. Fu in questo periodo, tra il XVIII e il XIX secolo, che la ricerca archeologica venne istituzionalizzata, per poterla meglio coordinare. Sorsero l’Accademia Etrusca di Cortona (1727), l’Accademia Ercolanese (1755) e la Pontificia Accademia romana di archeologia (1810).


Storia, scienze e tecniche del mare: la nascita dell’archeologia navale
di Claudia Tacchella

Anche quella che va oggi sotto il nome di archeologia navale sorse nel Quattrocento. È innanzitutto bene specificare che con questo termine si identifica una branca dell’archeologia marittima che si concentra sulla ricerca, recupero e studio di reperti subacquei consistenti in imbarcazioni, scafi o parti di essi, ritrovati sui fondali marini, fluviali o lacustri. In questo senso, uno dei primi tentativi documentati e accertati di campagna archeologica per il recupero di ritrovamenti sommersi è stata quella avviata dal matematico ed architetto genovese Leon Battista Alberti (1404-1472), negli anni Quaranta del XV secolo. Va sottolineato che reperire oggetti sommersi è di per se, e soprattutto in ambito marittimo, una pratica molto antica. Tutto ciò che era recuperato dal mare, fosse esso frutto di un naufragio, perdita del carico o qualsivoglia motivo, apparteneva a chi avesse fatto il ritrovamento, e la possibilità di guadagno rappresentava una forte spinta a ricercare tesori sottomarini. Tuttavia, queste operazioni non possono di certo considerarsi parte dell’archeologia navale. Il motivo per cui si può invece definire l’operazione di Alberti affine ai principi dell’archeologia navale moderna risiede proprio nella differenza di finalità. Infatti, il suo scopo non era quello di appropriarsi di un oggetto dal valore economico, ma di recuperare e salvaguardare un bene ritenuto prezioso per la sua componente storica, quindi non per profitto ma per cultura, conoscenza e riconoscenza verso il passato.
Quindi, l’interesse storico per i tesori subacquei, e perciò l’origine dell’archeologia navale, può farsi risalire al Quattrocento, quando il signore di Nemi, il cardinale Prospero Colonna (1410c.-1463), letterato, umanista e appassionato di archeologia, incaricò Leon Battista Alberti, uno dei suoi protetti, di occuparsi del recupero delle famose, ora come allora, Navi di Nemi, due navi imperiali romane risalenti all’età dell’imperatore Caligola (37-41 d.C.). Le operazioni avvennero tra il 1446 e il 1447 quando si tentò per la prima volta, con rigore e metodo ragionato, di verificare le effettive condizioni del fondo del lago e dei relitti. Data la mancanza di strumenti idonei alle operazioni subacquee, da vero studioso e ingegnoso umanista, Alberti progettò personalmente delle macchine apposite e richiese la presenza di esperti nuotatori da Genova. I risultati portarono all’individuazione di uno dei due scafi, quello posizionato più vicino alla riva, riuscendo anche a ottenere dei rilievi (ovvero dei disegni proporzionati) seppure sommari per via della scarsa visibilità data dalle acque del lago. In seguito a queste prime informazioni, fu deciso di recuperare la prima nave, trainandola fuori dall’acqua. Come si è ben consci oggigiorno, far emergere un oggetto ligneo dopo molti anni di immersione è un’operazione molto delicata per via delle fragili condizioni dell’oggetto, tanto che spesso si preferisce avere una documentazioni approfondita e dettagliata ed evitare di rimuovere il relitto dalla sua locazione, proprio per evitarne il danneggiamento se non la perdita. Tuttavia, queste considerazioni, all’alba dell’archeologia navale, non erano ancora note e il tentativo di estrarre il primo scafo dall’acqua portò a un inevitabile smembramento del fasciame, ovvero delle assi di legno che costituiscono il corpo della nave. Di conseguenza, si decise di annullare il recupero dimostratosi disastroso.
Risulta evidente che rispetto all’archeologia tradizionale, che studia i ritrovamenti sulla terra ferma, quella subacquea risulta più complessa per le ovvie condizioni ambientali. Per lungo tempo, il problema di questa branca è stato proprio riuscire a progettare strumenti idonei a permettere un tempo prolungato sott’acqua da parte degli studiosi. Un primo traguardo è sicuramente stato la campana batoscopica dell’astronomo e matematico newtoniano Edmond Halley (1656-1742), che permise, nel 1664, il recupero dei cannoni del Vasa, nave da guerra svedese varata e affondata nel 1628 nel golfo di Stoccolma. Successivamente, le esperienze subacquee del XIX secolo furono condizionate dalla comparsa dello scafandro, invenzione attribuita all’abate Jean-Baptiste de La Chapelle (1710-1792) nel 1775. Sarà poi nel Ventesimo secolo che si compiranno i primi recuperi riconosciuti ufficialmente come operazioni di archeologia subacquea, in particolar modo con le operazioni di Antichitera (Grecia, 1900-1901) e di Mahdia (Tunisia, 1908-1913).
Ciò considerato, si capisce come mai l’archeologia navale è stata intrapresa in maniera efficace solo in tempi moderni, e come mai sia stata effettivamente riconosciuta come “scienza” solamente negli anni Sessanta del Novecento, quando i notevoli miglioramenti tecnici hanno reso possibili prolungate immersioni ed un approfondito studio dei ritrovamenti, seppure sia al Quattrocento che si possono far risalire le origini di questa disciplina e il desiderio di studiare e preservare i tesori del passato conservati nelle acque del nostro pianeta blu.


Nell'immagine, la copertina del Diarium Italicum di Bernard de Montfaucon.


Bibliografia

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Davide ARECCO, Idee e pratiche scientifiche in trasformazione. L’accademismo francese da Luigi XIII a Luigi XV, in Lumina, VI, 2022, pp. 381-406.
Davide ARECCO, Storia antica, archeologia, scienza e cultura: viaggiatori francesi ed inglesi tra Genova e l’Europa mel ‘700, in Itineraria, XXIII, 2023, pp. 1-30.
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Documento inserito il: 27/01/2024
  • TAG: archeologia, nuova scienza, storia della cultura, età moderna, antiquaria, arte, storia del viaggio, storia antica, gusto estetico, società d’antico regime, Rivoluzione industriale

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