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Dall’Arcadia a Newton: Paolo Rolli fra Settecento italiano e Illuminismo inglese

di Davide Arecco


Drammi per musica e Repubblica delle Lettere: da Roma a Londra nel XVIII secolo

Poeta e librettista, homme de lettres e primo traduttore italiano di Newton, il romano Paolo Rolli (1687-1765) fu uno dei grandi volti della cultura europea, nel XVIII secolo. Gran viaggiatore, fu allievo – insieme a Metastasio e Frugoni – di Gravina, maestro dal quale mutuò la sensibilità dal gusto oraziano e catulliano, nonché l’amore per la lirica elegiaca di Tibullo e Properzio e per l’epica virgiliana. Tracce feconde del magistero graviniano si possono avvertire anche negli esperimenti di metrica barbara, nella traduzione (1739) delle odi di Anacreonte e nelle tante edizioni di classici, da Rolli approntate durante il suo esteso soggiorno inglese, su tutte il De rerum natura lucreziano, del quale il letterato romano fece stampare, per la prima volta, la versione – allora inedita, in Italia – del matematico e astronomo toscano Alessandro Marchetti (1633-1714), cresciuto alla scuola medicea e galileiana del Cimento. Libro, si sa, finito quasi subito all’Indice e manifesto dei Lumi radicali.
Nato a Roma (ma originario della Borgogna), in una famiglia di architetti e poeti, compositori e letterati, educato agli studia humanitatis da domenicani e gesuiti, presso il Collegio ignaziano (da loro desunse anche un’ottima preparazione scientifica, in geometria e fisica), Rolli si votò presto ai classici antichi e moderni, con una spiccata predilezione per greci e latini. In principio, si distinse in veste d’improvvisatore di versi (pubblicati in una silloge di rime di pastori arcadi a Roma, nel 1711) e nella serenata drammatica Sacrificio a Venere (stampata a Napoli nel 1714). A Roma, nel 1715, fu lui ad allestire il dramma per musica Astarto, dell’amico Apostolo Zeno. In quella circostanza, Rolli fece la conoscenza di Lord Burlington, al secolo Richard Boyle, nobile inglese e gran mecenate, che gli parlò di Londra e lo invitò a spostarvisi, convinto che il suo estro non avrebbe faticare a prender piede nei teatri alla moda dell’Inghilterra hannoveriana. Fu la svolta della sua vita, un vero e proprio punto di non ritorno. Tre anni dopo Rolli avrebbe, in parte, assolto a quel debito – così difficilmente solvibile – dedicando a Burlington la sua riedizione del Pastor fido guariniano.
Di Rolli, ha scritto nel Settecento il biografo e storico pisano Angelo Fabroni (1732-1803) che «quod emersissent e barbarie, quae superiori saeculo humaniores litteras offuscaverat, unice se Gravinae debere profitebantur». In seguito, Carlo Calcaterra ha rilevato la peculiare cifra stilistica rolliana, osservando che «in altre parole il Rolli fu poeta. Senza dubbio ha anch’egli la sua zavorra: l’ode La poesia è un’esercitazione accademica sermoneggiante e donoccolata; l’ode Al Conte di Galasso è priva di qualsiasi ispirazione; l’ode Ad Alessandro Polwarth vorrebbe essere un pezzo di bravura ed è plumbea fatica; nell’ode Al Passionei egli vorrebbe apparir vate magnifico con la zimarra di Febo, e fa sonante retorica; nella canzone Per la nascita dell'Arciduca d'Austria (1716), come i chiabreristi e i guidiani, si atteggia a emulo di Pindaro e finge di parlar con gli Dei e con le Muse, e quanto più alza la voce, tanto più soffoca nella declamazione; altre sue odi vorrebbero essere oraziane nelle movenze e nelle forme e non ci toccano, perché prive di qualsiasi intimo fuoco. Così dicasi della maggior parte de’ sonetti e delle Tudertine e de’ suoi melodrammi: sentesi l’artefice laborioso, non l’animo che detta. Ma negli Endecasillabi ha alcuni tocchi vivi e delicatissimi». Il giudizio può sembrare ingeneroso, ma non lo è. Gli Endecasillabi – una parte delle Rime, pubblicate con molta fortuna a Londra nel 1717 – marcano inoltre il passaggio, in Italia, dallo stile arcadico al gusto Rococò, forgiato dal libertino e newtoniano Alexander Pope, nell’Inghilterra augustea primo-settecentesca. Altra parte viva della produzione di Rolli è contenuta in Canzonette e cantate, raccolte in volume a Londra, nel 1727. Fra di esse, ebbe allora una fortuna senza confini La neve è alla montagna, imitata successivamente dal poeta e librettista di Acquapendente Gianbattista Casti (1724-1803), e da molti altri. Se ne trovano echi anche nell’epistolario muratoriano, così come nella corrispondenza di Vallisneri, con il Marchese piacentino Ubertino Landi, politico ed uomo di scienza, del dicembre 1728.
A Roma, nella biblioteca del giurista e poeta arcade Gian Battista Zappi (1667-1719), Rolli scoprì e lesse, con frutto, il trattato Della perfetta poesia di Muratori, traendone spunti per imitare i primissimi arcadi – come il drammaturgo Alessandro Guidi (1650-1712), nelle canzoni Musa, che il giovenil mio cuore accendi (1721) e in misura minore Del genio di cantar le lode altrui (1716) – ed in particolare mise a punto la sua più autentica vena, insieme aggraziata e festosa, portata per indole a quei versi galanti, così tipici del secolo XVIII, salottiero e mondano (non meno d’Algarotti, altro e forse più celebre letterato newtoniano). Come fatto notare da Calcaterra, una ulteriore ed appena più lontana radice della produzione poetica rolliana è da ricercarsi nella melica, barocca, del lodigiano Francesco de’ Lemene (1634-1704). Come il suo rivale Metastasio, anche Rolli fece ancora tesoro, inoltre, del morbido languore manierista di Marino.
La natia Roma della corte papale, quindi la Londra dei Lumi, infine ancora la Città eterna: in questi spazi sociali e culturali Rolli si mosse, sempre curioso e disinvolto, cosmopolita e interessato a far incontrare tradizione e novità. Fu arcade, col nome di Eulibio Discepolo. Allo scisma del 1714 – seguìto allo scontro fra Gravina e Crescimbeni e all’emarginazione di quest’ultimo – Rolli seguì il primo maestro, entrando tre anni dopo a far parte della Accademia dei Quirini, fondata in Roma dal cardinale fiorentino Lorenzo Corsini (1652-1740), poi papa come Clemente XII. Istituzione viva e a lungo prospera, i Quirini corsiniani accoglievano ed ospitavano accademici e, soprattutto, letterati, impegnati in adunanze e tenzoni agonali, a palazzo d’inverno, e d’estate in villa: eclettici laboratori di un’aristocrazia clericale che resta da studiare in dettaglio.
Ancora più importante fu per Rolli il periodo londinese. Quello in Inghilterra iniziò come un viaggio e si risolse in un trasferimento. Rolli raggiunse Londra, tra la fine del 1715 e il principio del 1716. Scoprì un mondo, che amò e che lo amò. Nella capitale del Regno anglo-britannico, la cultura – newtoniana e massonica, letteraria e giornalistica – era allora al suo zenith, quasi un faro, che, dal Nord Europa, illuminava il continente, e forniva ad esso e stimoli e orientamenti intellettuali, primi vagiti dell’Illuminismo settecentesco. Rolli si stabilì a Londra, e vi risiedette, ventinove anni. Una vita, per quei tempi. Scrisse libretti per i maggiori musicisti presenti in Inghilterra, fu insegnante di canto, precettore dei figli di Re Giorgio II, poeta ufficiale di quella che sarebbe diventata la Royal Academy of Music. A Londra Rolli lavorò nella fattispecie per Haendel – cinque libretti: Floridante (1721), Scipione (1726), Alessandro (sempre 1726), Riccardo I (1727), e Deidamia (1741), tutti di grande efficacia drammatica – e il grande compositore di Halle intonò almeno tre sue cantate. Sono poi da ricordare una Rosalinda (da As You Like It, di Shakespeare), e le collaborazioni, fra gli altri, con Veracini e Lampugnani. Redditizio, ma in fondo al cuore odiato, da Rolli, il lavoro in qualità di librettista, che pure gli diede gloria e fama imperiture. Del resto, anche una volta ritornato in Italia, nella sua Roma (1744), avrebbe scritto libretti: su tutti, il Teti e Peleo, del 1749, frutto dei suoi anni londinesi poeticamente più felici e delle sue tante esperienze, fatte oltre Manica. Spesso, le opere di Rolli tradivano i modelli: Noris, Gigli, Zeno e Metastasio, evidenti nell’uso delle immagini e nella costruzione dell’azione. Ma trasformare schemi e paradigmi in realtà lo divertiva.
Malumore e senso di sconfitta, per Rolli, quando i suoi rapporti con Haendel cominciarono a raffreddarsi prima e a guastarsi poi: di questo contrasto col genio sassone fanno fede un articolo che uscì sul Craftsman di Lord Bolingbroke il 7 aprile 1733 e carte manoscritte rinvenute, molto tempo dopo, nell’archivio della Biblioteca comunale di Siena. Quelli di Londra rimasero comunque, specie nella prima fase del soggiorno anglico, anni grandi e fortunati, con vivo apprezzamento, per l’arte di Rolli, dal parte del bel mondo di aristocratici e gentildonne: le dame londinesi amavano portare, sul proprio ventaglio, alcuni versi di sue canzoni, a loro volta rielaborazioni di arie metastasiane. Ma se Londra era stata all’inizio una lunga mattina di pieno Sole, con il trascorrere degli anni era diventata sempre più una triste notte senz’alba.
Altre critiche – stavolta non personali, ma in ogni caso dirette contro il melodramma italiano – portate avanti sulle pagine dello Spectator da Addison (che sin dal suo viaggio del 1700-1703 non aveva mai amato gli italiani) e, all’interno della cerchia newtoniano-conservatrice d’area swiftiana, da parte di John Arbuthnot (già medico della Regina Anna, e fellow della Royal Society) indussero Rolli a ritornare in patria. L’atmosfera era, in effetti, in Gran Bretagna, cambiata e le polemiche non erano adatte al carattere di Rolli. Quest’ultimo, dal 1744, si portò a Todi: luogo di quiete e sorta di ritiro spirituale, ove il poeta e letterato romano trascorse l’ultima parte della vita, comunque felice e soddisfatto di sé, impegnato nella stesura, riscrittura e pubblicazione a stampa delle proprie opere, ascritto nel 1753 dalla nobiltà tudertina alla prima classe del patriziato cittadino. In fondo ce l’aveva fatta – su tutti i fronti, anche quello della legittimazione sociale e della auto-rappresentazione, così dannatamente importanti per un uomo del Settecento – e poteva andarsene con la pace nel cuore.


Et in Arcadia ego: da Guarini e Salviati al secolo dei Lumi

A Verona, tra il 1737 ed il 1738, apparve in quattro tomi l’edizione più completa delle Opere del ferrarese – letterato ed incaricato di missioni diplomatiche, a Roma ed e Venezia – Gian Battista Guarini (1538-1612). L’iniziativa a stampa era frutto della collaborazione di Rolli (che curò le note) con Montanari (tracce nel carteggio di quest’ultimo con Gioseffo Riva), e Apostolo Zeno. Oltre alle Rime e ai madrigali petrarcheschi, le Opere guariniane comprendevano quello che era, certo, il testo cinquecentesco più caro a Rolli, il pastor fido, dramma pastorale che dà il via all’Arcadia, composto a Padova dal letterato estense, tra il 1583 ed il 1587. L’interesse di Rolli, Montanari e Zeno verso lo scritto di Guarini non è casuale: come gli esponenti della nascente scienza moderna, anche il dotto e scrittore di Ferrara era stato un precoce avversario dell’aristotelismo, dominante tra il XVI e XVII secolo nel mondo universitario, anche in Inghilterra (Newton stesso avrebbe studiato, a Cambridge, su manuali di indirizzo ancora peripatetico). Proprio nell’Inghilterra che Rolli raggiunse, con il suo viaggio, il pastor fido aveva avuto sin dal suo primo apparire a stampa – tra il 1589 ed il 1590 – una calda accoglienza, capace di influenzare la poesia pastorale inglese, Shakespeare e Jonson, nonché Thomas Middleton (1580-1627) il campione tudoriano e giacomiano della revenge tragedy.
La prima traduzione inglese del Pastor fido, postillata dal Rolli, risale al 1602: traduzione ad opera di uno scrittore sconosciuto (con tutta probabilità, della corte elisabettiana), noto soltanto dal sonetto dedicatorio di Samuel Daniel (1562-1619) e, da lui, indicato come collaterale di Syr Edward Dymock. Una seconda traduzione inglese del dramma pastorale di Guarini venne fatta, nel 1630, da Jonathan Sidnam, ma rimase manoscritta. Tra il 1647 e il 1648, vide poi la luce la terza versione di Richard Fanshawe, lettissima e ristampata più volte, tra XVII e XVIII secolo (nel 1664, 1676, 1692 e 1736). Oltre ad influenzare anche l’arte – Van Dyck (1631-1632) ed Artemisia Gentileschi, subito dopo il suo soggiorno a Firenze (1630-1635) – il Pastor fido venne tradotto, in francese, dal poeta e tragediografo Roland Brisset (1560-1643), editore altresì di Seneca e Buchanan, con il titolo Berger fidelle: la prima stampa fu impressa a Tours già nel 1593 e più volte riedita, in seguito. Il dramma di Guarini fu assai popolare pure in Olanda. Qui, ne furono realizzate ben sette traduzioni, pubblicate tra il 1618 e il 1653, un adattamento per il teatro (nel 1671), e due rimaneggiamenti, rispettivamente nel 1617 e nel 1735. La versione migliore tra quelle pubblicate negli spazi delle Province Unite fu quella con incisioni del pittore Hendrick Bloemaert (1601-1672), stampata ad Utrecht, nel 1650. Ma l’eco maggiore rimase quella incontrata dal capolavoro guariniano oltre Manica. Shakespeare vi si ispirò, guardando anche a Boccaccio, specialmente per All’s Well that Ends Well, commedia scritta tra il 1602 e il 1603. Quando pertanto Rolli arrivò a Londra, trovò il classico di Guarini e l’interesse congiunto per il gusto arcadico di casa nostra già innestati, nel corpo della cultura inglese. Il Pastor fido era per il letterato e viaggiatore romano soprattutto una raffinata ed elegante via al sacro, senza legami di sorta con una scolastica da lui mai amata e che nella stessa Inghilterra aveva riscosso solo tra le mura universitarie timidi consensi, per poi cedere il passo allo sperimentalismo newtoniano e alla tradizione baconiana, incarnatasi materialmente nella Royal Society, con la Restaurazione degli Stuart sul trono, a partire come noto dal 1660.
All’universo della lirica e cultura italiane di epoca rinascimentale, all’amore per Petrarca, alla stessa tradizione del Decameron viva nel Shakespeare che si ispira a Guarini, appartiene poi anche un altro filologo ed umanista al quale Rolli rivolse la sua attenzione, il fiorentino Leonardo Salviati (1539-1589). Appartenente ad una famiglia di nobili e cardinali, fra i primi promotori della nascita della Accademia della Crusca – a cui portò in dote l’orientamento purista, contribuendo attivamente alla compilazione del Vocabolario, pubblicato poi dopo la sua morte (nel 1612) – editore prima (nel 1582) e studioso poi (tra il 1584 ed il 1586) di Boccaccio, Salviati fu censore per conto di Sisto V e Gregorio XIII. Inoltre, protégé del Granduca, Francesco I de’ Medici, fu un pugnace sostenitore del toscano illustre trecentesco: tratto che lo accomuna, unitamente all’avversione per Tasso, al giovane Galileo, quello delle lezioni su Dante, tenute all’Accademia fiorentina, nel 1588, primo tentativo di geometrizzare l’Inferno. Una girandola di nomi, riferimenti e rimandi che costituisce il retroterra, in parte almeno ancora barocco, della cultura di Rolli e dei suoi gusti intellettuali, sia prima sia dopo il viaggio inglese e la lunga permanenza a Londra, a contatto pure con quella scienza newtoniana che del galileismo italiano aveva coronato tutti i sogni.


Il viaggio in Inghilterra e l’incontro con la cultura newtoniana britannica

Verso la fine del 1715, Rolli si mise in viaggio, verso Londra, in compagnia di Lord George Dalrymple. Vi giunse nel gennaio del 1716, dopo aver sostato a Parigi presso Lord Steers Sembuck, fratello di Dalrymple, e ministro plenipotenziario della monarchia britannica, alla corte francese. In Londra, Rolli venne assunto come insegnante di lingua, presso diverse famiglie nobiliari londinesi e intraprese presto una vivace e importante attività di editore di classici italiani. A Londra, pubblicò le Satire e rime di Ariosto, dedicate a Lord Stair (1716), la traduzione di Alessandro Marchetti del De rerum natura di Lucrezio, dedicata al Principe Eugenio di Savoia (1717). Per la pubblicazione del Lucrezio marchettiano, Rolli utilizzò un manoscritto, procuratogli da John Molesworth, già inviato inglese alla Corte medicea. Sempre nel 1717, uscì, nella capitale del Regno britannico, il suo primo libro di rime, dedicato a Lord Bathurst, con emistichi di vaglia e vari effetti ritmici alla Chiabrera.
Nel 1719, Rolli divenne poi segretario italiano della neonata Royal Academy of Music, creata da aristocratici londinesi, protagonisti delle pratiche sociali più vive nell’Inghilterra del periodo. Il suo ruolo era quello di adattare drammi per musica preesistenti e di scrivene di inediti, da destinarsi agli spettacoli da allestire nel teatro londinese di Haymarket. Nelle prime quattro stagioni, produsse vari testi basati sulle musiche di Porta, Scarlatti (a Londra proprio nel 1719 per dirigere il Narciso al King’s Theatre), Thomas Roseingrave, Bononcini, Orlandini, Amadei, oltre che di Haendel. Opere che nutrivano generosamente il fascino del virtuosismo canoro dei cantanti italiani, a Londra (fra di loro Bernardi e la Cuzzoni). A Londra, pure in seno all’Accademia, Rolli rinsaldò legami e amicizie di area giacobita (del resto già a Roma aveva frequentato da vicino e con simpatia i sostenitori dello Stuart pretendente al trono). Nel 1721, conobbe poi il bibliofilo e italofilo Thomas Coke di Norfolk, tre anni dopo Conte di Leicester, nonché i residenti veneti e imperiali. Nel 1724, tradusse anche The Conscious Lovers di Robert Steele, con Addison il gran creatore dell’opinione pubblica inglese.
A Londra, Rolli si riscoprì bibliofilo e collezionista di libri rari e manoscritti, frequentando le grandi biblioteche patrizie inglesi, tra cui soprattutto quella di Coke, a Holkham Hall. Per ricerca ed acquisti librari, sfruttò altresì i canali diplomatici con gli inviati straordinari alla Corte granducale di Firenze. Anni indimenticabili, i primi di Rolli in Inghilterra: lavorò con la soprano Faustina Bordoni sino al 1728, contribuì a mettere in scena con un enorme successo di pubblico la Beggar’s Opera di Gay, collaborò con il musicista berlinese Johann Christoph Pepusch. Sul continente, aveva referenti e interlocutori nel Ducato di Hannover, a Vienna e presso la Biblioteca Vaticana. In Inghilterra, una rimarchevole accoglienza incontrarono in questi anni le sue canzoni La primavera e Solitario bosco ombroso, amate ed apprezzate, anche in Europa, modelli di lieve poesia e di dolce musicalità: sono rimasti nella memoria, in merito, i ricordi di Solitario bosco ombroso in Goethe.
Nel 1728, Rolli rispose con energia a Voltaire – altre critiche italiane al patriarca di Ferney, in seguito, sarebbero venute da Baretti – con i Remarks upon Voltaire’s Essay on the epic poetry of the European Nations. Carolina di Ansbach, già principessa di Galles e, dal 1727, regina e consorte di Giorgio II, lo nominò precettore dei propri figli e lo convinse a portare a termine la traduzione del Paradiso perduto di Milton, iniziata poco dopo l’arrivo a Londra, nel 1729, e pubblicata infine nel 1735. I primi sei libri apparvero con dedica al Cardinale di Fleury, allora ministro di Luigi XV, e la versione completa vide la luce con dedica a Federico, Principe di Galles. A cavallo fra traduzione e parafrasi, l’operazione editoriale venne concepita da Rolli tentando di aggirare, adottando strategie retoriche di velata dissimulazione, le politiche vaticane di censura libraria: invano, visto che la sua versione del Paradise Lost fu messa all’Indice, nel 1732. Tutta la vicenda fu seguita con crescente attesa e trepidazione da parte di illustri letterati ed eruditi italiani, fra i quali Metastasio, Muratori e Maffei. Nessuno di loro sottostimò le difficoltà dell’iniziativa. Rolli, in effetti, soppresse (o adattò) alcuni passi del testo originale – il caos antecedente la Creazione, la salvezza attraverso la grazia, la possibilità per i sacerdoti protestanti di maritarsi, la materialità della natura angelica (un classico fra certe cerchie di separatisti puritani) – ma nello stesso tempo li segnalò a margine della sua versione, ottemperando all’imperativo morale, auto-prefissatosi, di porre a disposizione dei lettori italiani una traduzione il più possibile fedele alla lettera dell’originale miltoniano.
Nel 1733, il gruppo aristocratico ruotante attorno al Principe di Galles promosse l’Opera of the Nobility, con librettista Rolli e direttore musicale il napoletano Nicola Porpora, giunto apposta a Londra e compositore per il teatro di Lincoln’s Inn Fields, sino al 1736. In alcune esecuzioni figurò, inoltre, il famoso Farinelli. Grande fu in questa fase della produzione rolliana l’influsso marcato del teatro lirico francese: narrazione fiabesca, balletti, coabitazione di azione e squarci neo-classici. Al 1733, risale il celebre ritratto che gli fece il pittore ed incisore Joseph Wagner, oggi al Fitzwilliam Museum di Cambridge.
Fra 1737 e 1739, Rolli approntò edizioni ariostesche, indirizzandole a dame dell’aristocrazia inglese. Tradusse inoltre l’opera antiquaria Degli avanzi dell’antica Roma (1739) del dotto olandese Bonaventura Overbeck. In campo operistico, in particolare, aderì alle nuove iniziative promosse da Charles Sackville, Lord Middlesex, collaborando con compositori attivi a Londra: Pescetti, Galuppi, ma, soprattutto, il violoncellista Nicola Francesco Haym (1678-1729) – a Londra dal 1700, protetto del Duca di Bedford, con opere rappresentate al Drury Lane dal 1705 al 1711, dal 1713 anche lui in rapporti con la cerchia haendeliana (e tesoriere della Royal Academy of Music) – ed il cembalista, diplomatico e mercante fiorentino Giovanni Giacomo Zamboni (1683-1753, arrivato a Londra nel 1711 e anche lui figura che ruotava attorno ad Haendel). Nella capitale del Regno Unito, Rolli entrò poi in contatto con John Shebbeare, vale a dire Battista Angeloni (1709-1788), gesuita ed avversario di Addison e Voltaire, autore nel 1756 delle Letters on the English Nation. Da ricordare infine pure la corrispondenza, tra 1720 e 1727, con Agostino Steffani (1655-1728), vescovo di Pege in Turchia e compositore, nonché gran viaggiatore (in Baviera, Austria e Hannover), maestro e collaboratore di Haendel: una sorta di terminale, quest’ultimo, al quale rimanda grandissima parte della rete sociale di Rolli sul suolo britannico.
Ritornato a Roma, Rolli non smise di pubblicare. Nel 1756, apparve Ester e, successivamente, si dedicò a traduzioni di Racine. Oltre ai ricordi, degli anni londinesi rimanevano criptici rimandi, in più di una, delle opere stampate dopo il ritorno dall’Inghilterra. Per il resto, il rientro nella penisola italiana coincise con un reinserimento nei quadri accademici nazionali, ad esempio fra gli Intronati di Siena. La maggiore delle iniziative intraprese da Rolli al ritorno in Italia fu peraltro la traduzione della Chronology of Ancient Kingdoms Amended di Newton. Rolli, a fine marzo del 1727, era stato presente alle esequie solenni e alla sepoltura a Westminster, accanto ai Re e ai pari di Inghilterra, di Newton. Anche Voltaire (a Londra dal 1726), aveva potuto assistervi, per raccontare della scienza e della cronologia newtoniane in diverse delle sue Lettres anglaises, circolanti manoscritte in Francia, a partire dal 1733 almeno. Il contributo dato da Newton alla storia religiosa, alle tecniche di misura del tempo e al calcolo del computo ecclesiastico era pertanto noto, e parte integrante della cultura di area anglo-britannica nella prima metà del secolo XVIII. La Chronology newtoniana era apparsa nel 1728, postuma di un anno. Dal 1729, Rolli era diventato membro della Royal Society, presieduta da Newton dal 1703 e raccaforte ideologica dello stesso newtonianesimo inglese. Nel 1757, a Venezia, Rolli mise a punto – fra traduzione e tradizione – una sua versione (con varianti) de La cronologia degli antichi regni emendata: opera che suscitò allora molto interesse all’interno della comunità del ceto colto italo-europeo, oggi criticatissima (per un troppo disinvolto uso di tagli, note, commenti e interpolazioni), che tuttavia ancora fa data, nella storia della cultura scientifica, trattandosi poi della prima traduzione italiana di Newton. Illuminista radicale nel tradurre Milton, stavolta Rolli resta nel solco della vulgata cristiana e vetero-testamentaria, tagliando come Vico le ‘sterminate antichità’ ed accorciando la storia profana del mondo, in linea con Boyle, Ussher e appunto Newton.
Una figura molto vicina al Rolli ‘inglese’ fu quella dell’abate fiorentino Anton Maria Salvini (1653-1729), letterato e giurista – attivo, da fine Seicento, tra Napoli, Roma e Firenze – formatosi all’Università di Pisa, accademico ed enciclopedista, protégé di Cosimo III e successore di Dati allo Studio di Firenze sulla cattedra di eloquenza greca. Maestro di Lami, con accentuati interessi di tipo pratico per scienze e tecniche, amante della conversazione, grande conoscitore dei codici conservati nella Laurenziana, fine umanista e spirito perennemente malinconico – amava Platone, Epicuro e gli Stoici – cruscante e membro di diverse accademie (l’Arcadia romana, i Filoponi di Faenza, i Gelati di Bologna, gli Innominati di Bra, i Rinvigoriti di Foligno, i Riformati di Cesena, gli Spensierati di Rossano, i Novelli di Poppi ed i Concordi di Ravenna), Salvini, fra il 1677 e il 1729, intrattenne uno scambio epistolare con Muratori, Redi, Fontanini e diversi dotti, inglesi ed europei: eruditi, filologi, teologi gesuiti, scultori, tipografi e diplomatici, fra cui Mabillon, Le Clerc, Newton e Renaudot. Al pari di Rolli (che di lui pubblicò nel 1723, a Londra, la versione senofontea), anche Salvini fu fedele traduttore di Anacreonte (già nel 1695), e amante della cultura britannica. Le sue Lettere, stampate a Venezia, nel 1735, sono una miniera di notizie ed informazioni per lo storico e costituiscono di fatto una vera e propria autobiografia epistolare, segnatamente per il periodo dal 1707 al 1718.
L’interesse per autori antichi e manoscritti dimenticati fu alimentato, in Salvini, dai proficui contatti avviati a Firenze con i benedettini e maurini francesi, Mabillon e Montfaucon, arrivati nella capitale toscana, rispettivamente, nel 1686 e nel 1700, introdotti da Salvini e da Magliabechi nella Laurenziana, prezioso deposito di codici rari. Altrettanto decisivi furono per Salvini i contatti stretti, nella prima decade del XVIII secolo, con la cerchia dei residenti inglesi in Toscana: Henry Newton, John Molesworth, ma soprattutto Henry Davenant. Questi, punto di riferimento anche per Rolli, gli fece conoscere lo stampatore e libraio londinese John Pickard. Tale network di relazioni culturali e sociali indusse Salvini a voltare, in italiano, il Cato di Addison – a Firenze, nel 1715 – diventato, in fretta, il simbolo del repubblicanesimo neo-machiavelliano anglo-europeo, lettura influente pure per Bolingbroke e Montesquieu. Sempre nel 1715, videro la luce a stampa e le Prose toscane e le Prose sacre: un esempio di non frequente (specie allora) unione tra veteres e novatores, con una malcelata predilezione comunque verso l’ideale baconiano e inglese di advancement of learning, il medesimo allora professato dalla Royal Society e dall’apologetica newtoniana.
La ricaduta delle correnti libertine e massoniche britanniche, sull’ambiente culturale toscano, che coinvolse Magalotti, Cocchi e Crudeli, riguardò anche Salvini, dall’aprile del 1716 fellow della Royal Society. Con le sue traduzioni, fra cui quella della Letter from Italy di Addison pubblicata nel 1721 (perfetto esempio di committenza diplomatica di marca whig e polemiche anti-peripatetiche), pubblicata in Londra, da Tickell e Tonson, venne a formarsi fra Italia ed Inghilterra un circuito – sia illuministico, sia massonico-scientifico – che portò nella Gran Bretagna augustea alla circolazione e diffusione delle traduzioni greche salviniane. Rolli, da parte sua, si diede non poco da fare, al fine di instaurare prima e rafforzare poi tale ventaglio di relazioni intellettuali: sovra-statali, cifra concreta del dinamismo insito nella Respublica Litterarum d’allora, volto di un mondo che non c’è più.

Per Laura Dalfino e Paolo Bernardini


Bibliografia

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Nell'immagine, Paolo Rolli (1687-1765)

Documento inserito il: 19/12/2023
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