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La nobiltà della scienza: Lord Chesterfield aristocratico inglese e astronomo illuminista

di Davide Arecco


Storia familiare e politeness nell’Inghilterra settecentesca

A volte – sovente, talora – le attività scientifico-tecniche della prima età moderna sono state viste, da certi storici, come professioni borghesi, associando in maniera troppo univoca, stringente e sbrigativa pratiche culturali e classe sociale di appartenenza. In realtà, la cosa non è affatto vera, per il XVII e il XVIII secolo: in primo luogo perché il secolo della borghesia è l’Ottocento; in secondo luogo perché, tra il Sei e il Settecento, l’aristocrazia non fu una presenza declinante, quanto semmai viva e stratificata, quasi sempre fondamentale con il suo mecenatismo nel patrocinare le scienze; in terzo luogo, perché molti nobili furono essi stessi sperimentatori ed uomini di scienza, entro i quadri accademici della società di corte d’antico regime, ad esempio in Francia ed ancora di più nel mondo inglese; in quarto luogo, perché la mobilità sociale era particolarmente radicata nell’Inghilterra della prima modernità.
La storia delle famiglie aristocratiche – applicando la metodica di Lawrence Stone, Edoardo Grendi e Osvaldo Raggio – ha spesso incrociato e supportato in Inghilterra la produzione scientifica e la vita accademica, all’interno di un network, socio-culturale e politico-istituzionale, dotato di suoi precisi meccanismi di funzionamento. E’ stato il caso dei Conti di Chesterfield, la cui storia ha – di frequente – intrecciato i propri piani con quella del nuovo sapere, nel Regno Unito settecentesco, in particolare. I Chesterfield non furono solo gentlemen dell’alta società londinese, ma, altresì, dotti ed entusiasti studiosi di belles lettres, astronomia, matematica, strumenti e fisica celeste. Il primo conte di Chesterfield fu James Stanhope (1673-1721), nato a Parigi e morto a Londra, nobilitato dal Re fra il 1717 ed il 1718. Primogenito di Alexander (1638-1707), studiò ad Oxford, a Eton e poi al Trinity College. A partire dal 1690, ancora giovanissimo, viaggiò in Spagna, Italia, Fiandre e Francia. Gran cultore di tecniche militari, ed aggiornatissimo nel campo della strategia bellica, dal 1708 fu il capo delle forze anglo-britanniche, durante la Guerra di Successione spagnola, conquistando Minorca, di cui fu il governatore sino al 1711. Ritornò in patria, a Westminster, nel 1712, per dedicarsi, insieme, alla lettura e alla carriera politica: fu il Segretario di Stato per i Dipartimenti del Sud (1714-1716) e del Nord (1716-1721). Inoltre, i suoi servigi in guerra gli valsero la nomina regia, fra 1717 e 1718, a Primo Lord del Tesoro e congiuntamente a Cancelliere dello Scacchiere.
Suo figlio, Philip Stanhope (1714-1786), secondo conte di Chesterfield, accentuò – rispetto al padre – gli interessi scientifici e culturali della famiglia, divenendo fellow della Royal Society, e poi entrando in contatto con il matematico e ministro presbiteriano Thomas Bayes (1702-1761). I due, fianco a fianco, si dedicarono a ricerche di matematica e filosofia naturale, occupandosi soprattutto di scienze statistiche (allora agli albori) e calcolo delle probabilità (uno dei grandi volti, anche nella Francia luigiana con Diderot e d’Alembert, dell’Illuminismo scientifico europeo).


Politica, diplomazia ed epistolografia nel Regno Unito dei Lumi

Con Philip Dormer Stanhope (1694-1773), quarto conte di Chesterfield, il casato aristocratico inglese raggiunse il suo apice. A suo avviso, una completa quanto corretta conoscenza del mondo si poteva conseguire soltanto leggendo e la natura (mediante le scienze) e gli uomini (viaggiando): era questo il suo messaggio, affidato soprattutto a corrispondenze epistolari, rimaste fra le più celebri di tutto il secolo XVIII, in Inghilterra e non solo. Come tutto il ramo nobiliare maschile della famiglia, anche Philip Dormer si dedicò a politica e scienza. Figlio di Philip e di su moglie – Lady Elizabeth Saville – studiò al Trinity Hall di Cambridge e fece quindi un precoce Grand Tour in Europa, in cui si appassionò alla cultura classica e alla storia dell’arte, con particolare predilezione per la pittura e scultura rinascimentali. Proprio sul continente, in occasione del viaggio, forgiò la propria cultura ed il proprio gusto estetico, polite ed aristocratico. Una volta ritornato in Inghilterra, alla morte della Regina Anna, Chesterfield entrò fra la fine del 1714 e il principio del 1715 alla Camera dei Comuni, ove pronunziò un primo discorso improntato a valori latitudinari e tolleranti, già pienamente inseriti nel nuovo clima illuminista (che nel Regno Unito prese piede prima che altrove): un’orazione fluida e vibrante, degna di Bolingbroke. A Londra fece anche tesoro sul fronte diplomatico dei contatti che aveva avviato in Francia, dimostrandosi presto abile statista, oltre che letterato, acclamato a corte e figura di punta della cerchia del Principe di Galles (il futuro Giorgio II). In parlamento, Chesterfield sostituì James Butler, secondo Duca di Ormond, facendo carriera politica, e divenendo speaker alla Camera bassa grazie ad una fluente ed elegante abilità retorica. Rispettoso della nuova dinastia e del nuovo ordine hannoveriano, in Gran Bretagna, Chesterfield non interruppe comunque i rapporti con i giacobiti conosciuti a Parigi e con gli stuardisti inglesi, tra cui i conti di Suffolk.
Fra 1723 e 1725, Chesterfield fu in contatto epistolare con la Principessa Carolina di Ansbach e nel 1726 entrò a fare parte della Camera dei Lords, apprezzato anche dagli avversari. Due anni più tardi, venne inviato in Olanda, a L’Aja, in qualità di ambasciatore del Regno Unito. Fece mostra, in quella occasione, di tatto e determinazione, prudenza e temperamento. Divenuto amico di Walpole, nel 1730 fu da lui e dal re nominato Lord Stewart.
Quando, nel 1731, Francesco I di Lorena fu chiamato, a Vienna, dall’Imperatore, nel corso del viaggio fu iniziato alla Massoneria di rito scozzese, con una cerimonia segreta che si tenne, a L’Aja, nella casa di Chesterfield, da una delegazione britannica. Erano anni grandi dell’Istituto massonico, che, mediante il reticolo delle logge libero-muratorie, veicolava in Europa continentale il paradigma newtoniano della scienza inglese. Solo un anno prima, il 12 maggio 1730, nella loggia Horn Tavern di Londra, in ogni caso restando un cartesiano di stretta osservanza, venne affiliato alla Massoneria anche Montesquieu, introdotto al sistema trigraduale dal Duca di Richmond. Per entrambi – tanto il Conte di Chesterfield, quanto Montesquieu – l’ascrizione alla Massoneria anglo-britannica avvenne entro gli spazi socio-culturali del Grand Tour: era, in effetti, il viaggio, spessissimo con al culmine l’ingresso tra i Figli della Vedova, a legittimare l’entrata definitiva, ad alti livelli, di un dotto nella Repubblica delle Lettere, quasi una sorta di riconoscimento di status. Piccola nota curiosa: a L’Aja, Chesterfield ebbe come cuoco nella sua dimora il francese Vincent La Chapelle, poi alle dipendenze – fra gli altri – del Principe d’Orange Guglielmo IV, di Re Giovanni di Portogallo, di Re Luigi XV e della sua favorita Madame de Pompadour in Francia.
Attore storico-sociale di orientamento politico conservatore, e fedele all’istituto monarchico britannico, Chesterfield negoziò il secondo Trattato di Vienna (nel 1731), con il quale egli rinforzò l’alleanza internazionale anglo-austriaca. Nello stesso periodo, conobbe Voltaire, a Bruxelles, ed in Francia frequentò Crébillon e le cerchie cartesiane di Lione, vedendo Fontenelle e numerosi scrittori di opere scientifiche. Tornato nuovamente in patria, vi sposò la Contessa di Walsingam. Ruppe con Walpole, quando il leader del partito liberale promosse le misure dell’Excise Bill. In quel periodo, Chesterfield risiedeva a Grosvenor Square, dove promosse la creazione del Foundling Hospital, da lui diretto con partecipazione ed energia. Caduto poi il ministero walpoliano, tra il 1741 e il 1742, il successivo anno Chesterfield fu autore di pamphlets satirici a firma Jeffrey Broadbottom e fondò un giornale, l’Old England, d’indirizzo costituzionalista, vicino alle posizioni – anti-assolutistiche e nel contempo aristocratiche – della cerchia illuministico-nobiliare francese di allora, guidata dal Conte di Boulainvilliers e da Montesquieu. Nella nuova iniziativa editoriale, Chesterfield fu sostenuto dal tipografo e libraio Edmund Waller, portando ora avanti una dura campagna di stampa, contro Whigs e Hannover sul trono. La cosa gli guadagnò la stima della Duchessa di Marlborough, che diventò la principale finanziatrice della polemica testata giornalistica di Chesterfield. Quest’ultimo si avvicinò, proprio in quel momento, a William Pitt. In un’epoca di torbidi, contrasti e tensioni, sopra e sotto la Manica, il Conte inglese mostrò, sempre, e calma e sangue freddo, agendo da arbitro e custode della balance of powers europea, traendo frutto dalla propria esperienza precedente di diplomatico. Fu di nuovo nelle Province Unite, come ambasciatore britannico, convincendo gli olandesi ad entrare nella Guerra di successione austriaca a fianco di Asburgo, Regno Unito e Piemonte sabaudo. Fu premiato per l’impegno profuso con la nomina a Luogotenente dell’Irlanda, tra il gennaio 1745 e il novembre 1746. Un incarico tutto sommato, forse, persino breve – culminato nel monumento, in stile corinzio, che gli venne eretto, al momento della partenza, nel Parco della Fenice di Dublino – ma connotato da una grande serietà ed onestà, lottando aspramente contro la corruzione e lavorando alla creazione di istituti scolastici, manifatture e fattorie, nelle verdi valli irlandesi. A Dublino, inoltre, il Conte fu decisivo con la sua equilibrata azione politico-diplomatica nel pacificare protestanti e cattolici, cioè rispettivamente gli aderenti alla fazione filo-giorgiana e i giacobiti di Carlo Edoardo Stuart.
Alla fine del 1746, Chesterfield fece un trionfale rientro in Inghilterra come segretario di Stato e fu riaccolto nelle grazie della corte hannoveriana di Giorgio II, grazie all’influente intercessione di Lady Yarmouth, fortemente osteggiato, però, da John Montagu (primo ministro del re) e da Thomas Pelham (Duca di Newcastle), i quali nel 1748 tramarono dietro le quinte, contro di lui. Un mondo di intrighi cortigiani a cui Chesterfield era peraltro, da tempo, abituato. Scrisse e fece circolare, in ogni caso, una sua apologia, dal titolo Letter from an English Gentleman to his Friend at The Hague, che fu lettissima a Londra e raggiunse le quattro edizioni a stampa nel solo 1748.
Nel 1755, Chesterfield e Johnson ebbero una disputa che rischiò di minare la loro amicizia, di alcuni anni più vecchia. L’oggetto della lite fu il Dictionary of English Language. Otto anni prima, Johnson aveva mandato in visione a Chesterfield un estratto manoscritto del suo Dictionary insieme alla proposta, che il Conte accettò, di partecipare alla sottoscrizione, per finanziare la pubblicazione dell’opera. Senza tuttavia consultarsi prima in merito con l’autore, Chesterfield – pensando di fargli semplicemente pubblicità e di stuzzicare il pubblico dei lettori, in vista dell’imminente stampa – ne pubblicò due estratti sul World, giornale politico-letterario londinese che andava, in quel tempo, per la maggiore, presentando l’intera iniziativa editoriale dell’amico. Johnson, un carattere già di per sé non facile e aduso a polemizzare, ne fu non senza ragioni irritato, anche perché poi Chesterfield non si interessò più molto della cosa. Johnson gli scrisse, allora, la celebre Letter to Chesterfield, fonte utilissima ancora oggi per illuminare le relazioni sociali fra patronage e uomini di lettere, nel Regno Unito settecentesco. Il Conte non si offese, e ne restò anzi impressionato. Tramite il libraio e editore di Mansfield Robert Dodsley (1704-1764), l’allora stampatore dei testi johnsoniani, Chesterfield si riavvicinò al Dottore e ricucì i rapporti personali, mostrando di apprezzare, a fondo e sinceramente, le pubblicazioni del critico, nei riguardi del quale fu prodigo di complimenti vivissimi.
Nel 1756, nell’immediata vigilia dello scoppio della Guerra dei Sette Anni, mentre l’Austria di Maria Teresa si era dopo vari decenni riavvicinata alla Francia borbonica, Chesterfield svolse un ruolo cruciale e di primissimo piano, nella costruzione dell’asse politico e militare anglo-prussiano, adoperandosi per rendere alleate la sua Inghilterra e la Berlino di Federico il Grande, il monarca dei Lumi. Con l’arrivo degli anni Sessanta, stanco ed affaticato dopo una lunga vita sempre sulla scena, Chesterfield rimase più in secondo piano, limitandosi a criticare, non senza acrimonia, lo Stomp Act, promosso nel parlamento inglese dal ministro George Grenville (1712-1770), all’epoca primo Lord dell’Ammiragliato e consigliere ascoltatissimo dal sovrano.
Gentiluomo e frequentatore del bel mondo, molto attento ai codici dell’etichetta e delle buone maniere, Chesterfield fu anche un grande collezionista di libri. I suoi maggiori interessi erano per la storia, le scienze geografiche, la poesia (in particolare gli epigrammi), la letteratura classica greca e latina, ma altresì per l’astronomia tecnica e di osservazione. Fu intimo amico e poi collaboratore del presidente della Royal Society, lo studioso di fisica celeste George Parker (1697-1764), più famoso come secondo Conte di Macclesfield e poi di suo figlio Thomas, con i quali studiò per individuare il meridiano passante per Greenwich. La Chesterfield Astronomical Society sarebbe stata fondata, nel 1844, dall’astronomo irlandese Lord Rosse, proprio per ricordare questi interessi, dagli storici delle scienze astronomiche spesso colpevolmente trascurati.
Chesterfield ebbe una parte importante nella modifica del calendario giuliano, introdotta, nelle Isole britanniche, fra il 1750 e il 1753. Ne fanno fece, nelle sue Letters (uscite nel 1774), le missive CXXXII e CXXXV. Cominciò a interessarsi della riforma del calendario – da tempo, gli astronomi del Royal Observatory spingevano per far adottare pure in Inghilterra il nuovo sistema di datazione introdotto a Roma, sin dal 1582, da Clavio e Danti – per far approvare un’apposita carta attestante il passaggio al calendario dei cattolici romani. Molti paesi di religione protestante erano infatti rimasti ancorati al vecchio modello giuliano di datazione – tra questi, oltre all’Inghilterra, anche la Svezia e la Russia – il che poneva problemi, per calcolare la Pasqua e le feste mobili (ne avevano discusso a Londra nel gennaio 1713 Newton e Bianchini, come confermano il diario di viaggio del monsignore veronese e i documenti manoscritti oggi custoditi nell’archivio storico del Collegio di San Isidoro a Roma). Il matematico e teologo di Oxford John Wallis (1616-1703) – che, dal 1660, erano stato tra i fondatori della Royal Society londinese – aveva anche lui studiato a lungo la questione, scrivendone per lettera all’anglicano Thomas Tenison (1636-1715), l’arcivescovo di Canterbury, nel giugno del 1699. Prima ancora, il problema era stato affrontato dal sacerdote e uomo si scienza irlandese Luke Wadding, nel 1625 (ma la sua iniziale proposta era rimasta lettera morta).
I tempi, a metà del Settecento in Inghilterra, erano quindi maturi, affinché venisse ratificata la riforma calendariale – Time, that great discoverer of truth, per riprendere in questa sede le parole di Chesterfield – con il passaggio dal vecchio al nuovo stile di computo ecclesiastico. Nel marzo 1751, il Conte si consultò con Parker e, dietro suo consiglio, prese contatti con l’astronomo e storico della cosmologia ellenica George Costard (1710-1782), docente al Wadham College di Oxford, cultore di geografia e specialmente di cronologia sacra, che lavorava, in quel periodo, sulle carte astronomiche dell’Almagesto, riprodotte da Thomas Streete nella sua Astronomia carolina, stampata, per la prima volta, a Londra nel 1661, e riedita poi nel 1710. Chesterfield portò da parte sua avanti la riforma del calendario e l’introduzione in Gran Bretagna di quello gregoriano anche sul piano politico, a lui del resto più congeniale. I calcoli matematici furono effettuati dall’astronomo James Bradley, che aveva scoperto l’aberrazione delle stelle fisse (il nostro moto di precessione degli equinozi), ed era fellow, tra in più in vista, della Royal Society di allora. L’ultima parola spettò, comunque, a Chesterfield, il quale si mosse con entusiasmo e decisione. La svolta – ricordata ed apprezzata ancora, nel 1827, dal gallese Richard Francis Walsh – venne immortalata, su tela, dal maggiore pittore ed incisore inglese del XVIII secolo, William Hogarth (1697-1764) in An Election Entertainment (1755).
Negli ultimi anni della sua vita, Chesterfield trascorse sempre più tempo presso la residenza avita di Ranger’s House, a Marble Hill, riammodernata dall’architetto Isaac Ware, tra 1741 e 1748, con vista del Parco di Greenwich in direzione Londra: un philosophical quiet come lui lo chiamava, un luogo di ritiro spirituale, uno spazio privato ove leggere gli amati Shakespeare, Bacone e Milton, circondato da imponenti gallerie di collezioni artistiche (il pittore William Hoare gli fece il famoso ritratto), davvero la sua piccola Chartres, come l’aveva denominata nelle Letters.
Dopo la pubblicazione, postuma di un anno, delle Letters, Chesterfield divenne, se possibile, ancora di più un punto di riferimento della cultura inglese, non solo illuministica, e non solo durante il XVIII secolo. Nell’Ottocento, lo ricordarono anche William Pickering, sul Gentleman’s Magazine del 1839, e soprattutto Dickens, nel toccante romanzo Barnaby Rudge (1841), ambientato all’epoca dei Gordon Riots del giugno 1780, le accese manifestazioni avvenute a Londra per protestare contro l’emanazione governativa del Catholic Relief (che nel 1778 aveva attenuato le discriminazioni nei confronti della minoranza cattolica nel Regno inglese).


I Chesterfield al tempo della Rivoluzione industriale britannica

Altro conte di Chesterfield fu Charles Stanhope (1753-1816), nobile, scienziato e diplomatico britannico. Figlio di Philip, si formò, come altri del suo casato, all’Eton College e poi completò – in occasione del suo viaggio, in Svizzera, a Ginevra – la propria preparazione culturale. Nella città di Calvino, studiò matematiche, sotto la guida di Georges-Louis Le Sage (1724-1803), fisico ginevrino rimasto famoso per aver sviluppato l’astronomia gravitazionale newtoniana, e per la sua cinetica dei gas, fra l’altro costruttore del primo telegrafo elettrico. Con lui, Charles si appassionò in particolare alle applicazioni pratiche del sapere scientifico illuministico, mettendo a punto, nel 1775, un tipo di calcolatrice meccanica a tredici cifre, atta ad effettuare le operazioni di moltiplicazione e divisione, mediante un sistema di addizioni e di sottrazioni successive. Statista e ambasciatore, accademico ed inventore, Charles Stanhope fece anche una brillante carriera politica: durante le sessioni del 1783 e 1784, sostenne il governo di William Pitt, primo ministro di Giorgio III. Simpatizzante nel 1789 dei costituzionalisti parigini, legato dal 1786 a Lord Shelburne e ai Duchi di Buckingham, della contea di High Wycombe, nel 1794 Charles difese il giurista e riformatore scozzese Thomas Muir (1765-1799), uno dei politici di Edimburgo che furono trasferiti a Botany Bay, in Australia. L’anno dopo, presentò, alla Camera dei Lords, una mozione parlamentare, tesa a deprecare le interferenze inglesi negli affari di Francia. Nel 1805, infine, venne inviato dal monarca in missione straordinaria, presso la corte di Vienna, per contrastare l’aggressivo espansionismo napoleonico. Nel 1792, inoltre, aveva fatto stampare un suo Essay sui diritti delle corti di giustizia, frutto anche di attenti studi storici sulla Common Law, gli statuti e la tradizione legislativa del Medioevo inglese.
Scrittore ed affarista – con ricche proprietà nel Devon, a Bristol e sul Canale della Manica – scienziato e poligrafo, dalla curiosità versatile ed inesausta, verso ogni ramo dello scibile, Stanhope fu un natural philosopher geniale, di vaglia. Stranissimo che non si parli più dei suoi lavori. Fellow prima della Royal Society di Londra, dal novembre 1772, poi della American Philosophical Society di Filadelfia, dal 1774, nonché attivo membro del direttivo della American Antiquarian Society, dal 1816, fu un gigante ed un protagonista di primo piano nella rete scientifico-tecnologica atlantica, fra XVIII e XIX secolo. Nel 1779 – secondo solo a Joseph Priestley, chimico ed anima, a Birmingham, della Lunar Society – Stanhope pubblicò i basilari Principles of Electricity, fra i primi compendi di tutto il secolo, riguardo fenomeni atmosferici, magnetismo terrestre e fulmini (il modello rimaneva, ovviamente, Franklin). Il libro fu, poi, dal suo autore ampliato, con le memorie scientifiche apparse, nel 1787, sulle Philosophical Transactions della Accademia londinese. Con queste ricerche e questi lavori, il nobile inglese si poneva peraltro molto al di là della consueta filosofia sperimentale di area newtoniana coltivata in Inghilterra e Scozia. Per lui, Newton e Franklin erano punti di partenza, non di arrivo e l’ideale baconiano di advancement of learning non poteva permettersi di ristagnare oltre modo, dopo più d’un secolo di gloriose conquiste scientifiche nazionali, che però avevano finito per cedere lo scettro della ricerca – fattasi, nel frattempo, da tecnica a tecnologica – agli altri paesi del continente. Un grande geologo come lo scozzese Playfair sosteneva, nel medesimo arco di anni, le stesse argomentazioni, presso le cerchie accademiche ed universitarie di Edimburgo. Il Regno Unito si doveva impegnare a riprendere in mano la leadership scientifica, che lo aveva contraddistinto, tra Sei e Settecento, al momento del sorgere della cultura illuministica.
Provvisto di un’inventiva fuori dal comune, Charles Stanhope utilizzò una gran parte delle sue rendite familiari, nel campo della sperimentazione scientifica. Inventò un metodo di fissaggio degli edifici, per proteggerli dal fuoco; lenti e dispositivi ottici per i telescopi di grandi dimensioni (siamo negli anni dei cannocchiali giganti, di William e John Herschel); varie procedure per la navigazione a vapore, tramite battelli e piroscafi (1795-1797); un congegno per accordare gli strumenti musicali, e numerose migliorie tecniche per le chiuse dei canali. Chesterfield si muoveva, pertanto, fra cultura baconiana dell’esperimento e tradizione aristocratica inglese, valorizzando le macchine, e ponendo le nuove invenzioni ed innovazioni tecnologiche al servizio della pubblica felicità, il grande ideale, anche in America, dei Lumi europei. La scienza e le applicazioni concrete erano per lui un qualcosa di nobile, al pari del lignaggio, e di tutt’altro che disdicevole per un Lord dell’Impero britannico. Le arti meccaniche, il lavoro manuale, il saper fare erano ai suoi occhi un valore ed un motore insieme dello sviluppo – sociale, politico, culturale ed economico-commerciale – di uno Stato che volesse, davvero, dirsi grande e forte, non solo sui mari. Forse più ancora degli enciclopedisti e philosophes francesi, il terzo conte di Chesterfield – uomo di larghe vedute, ed aperto ai fermenti intellettuali dei tempi nuovi che andavano, allora, squadernando inediti orizzonti ed entusiasmanti scenari – fu colui che più di altri portò a coronamento e realizzò, materialmente, l’utopia della Nuova Atlantide. Il suo nome è rimasto legato, segnatamente, al torchio tipografico per la stampa, in ferro e ghisa, inventato nel 1800, e presto diffusosi sul continente (nella Lombardia austriaca venne fabbricato ed impiegato dalla ditta Amos Dell’Orto, di Monza). La sua robustezza permise di ingrandire le dimensioni delle presse tipografiche allora in uso, e di stampare sino a quattro volte di più, permettendo in tale modo di aumentare la produzione: un metodo che consentiva di avere pagine impresse grazie a matrici di solido metallo, senza sprechi di materiali o inutili alterazioni. L’effetto moltiplicatore – di libri e di conseguenza di conoscenze – non avrebbe tardato a farsi sentire.
L’ultimo Chesterfield degno di nota fu Philip Henry Stanhope (1781-1855). Figlio di Charles, fu nobile e uomo politico, tra i più eccentrici del Regno – al pari della sorella, Lady Hester –, molto dotato sul piano intellettuale: come tanti altri membri della famiglia (una volta terminati gli studi, a Berlino e in Prussia) viaggiò a lungo, presso le corti principesche di tutta Europa. Esponente ancora nel primo Ottocento dell’alleanza whig-newtoniana (affermatasi, un secolo prima, con l’arrivo, nella Gran Bretagna dei Lumi, della dinastia hannoveriana), Philip Henry fu deputato a Wendover (1806-1807), Hull (1808-1811) e Midhurst (1812). La carriera politica non gli impedì di portare avanti gli interessi scientifici del suo casato, specie per le tecnologie della Rivoluzione industriale. Philip fu, inoltre, fra quanti si interessarono di più alla triste vicenda di Kaspar Hauser, il trovatello apparso, a Norimberga, nel 1828, e divenuto famoso per esser stato cresciuto in totale isolamento in una stanza buia, non potendo dire niente circa la propria identità. Egli prima si interessò alle sorti del ragazzo, praticamente adottandolo, fino poi a considerarlo, tuttavia, un impostore. Kasper venne, anni dopo, ritrovato ferito. Era il 1833 e affermò di esser stato aggredito da un individuo incappucciato. Per via di tale aggressione, spirò tre giorni più tardi. Si sospettò che Hauser fosse un principe ereditario di Baden e che fosse stato assassinato per motivi politici, ma il Conte fu sempre fermamente contrario a questa versione. La storia resta ancora oggi avvolta nel dramma e nel mistero.


Nell'immagine, Lord Chesterfield ritratto da John Knapton (1698-1778).


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Documento inserito il: 20/01/2024
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