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L’esercito Francese:La battaglia dei soldati [ di Massimo Zanca ]

La battaglia! Parola che in sè riassume l’essenza stessa dell’essere soldato, la prova ultima di mesi di addestramento, di lunghe marce, spesso in territori ostili, di mille privazioni. Per gli umili soldati, la battaglia non è gloria e onore, ma solo morte e confusione. L’inizio dello scontro è solitamente segnato dalla distribuzione di generalizzate quanto generose razioni di acquavite, che i soldati bevono con avidità: in fin dei conti, affrontare la morte da sobri è molto più difficile. A questo punto gli uomini formano i propri ranghi, serrano le proprie fila; poi attendono, immobili gli ordini degli ufficiali. In questi momenti di inattività prima dello scontro vero e proprio regna un silenzio quasi irreale: ognuno pensa a cosa potrà accadere di lì, a poco e cerca, nel contempo, di riuscire a captare con lo sguardo ogni piccolo, impercettibile dettaglio che possa rassicurarlo: la presenza dei propri comandanti, quella di altre truppe sui fianchi, l’ordine interno al proprio battaglione. Al limite ci si scambia qualche breve frase o qualche sorriso per dare e darsi fiducia. Sono però attimi interminabili nei quali il battito del cuore si fa più frenetico e si suda freddo. I soldati controllano l’efficienza dell’arma, sistemano la pietra focaia, ripongono quelle di riserva in tasche facilmente accessibili, per lo più in quelle del panciotto; sistemano il briquet e la borraccia in modo tale che, muovendosi, non sia di impaccio; infine aprono la giberna e si assicurano, quasi ce ne fosse bisogno, che sia piena di cartucce pronte all’uso. Schierato spalla a spalla con i suoi compagni, carica il fucile e aspetta il momento nel quale verrà dato l’ordine di avanzata o di tirare addosso al nemico. Ma ora la sua più grande preoccupazione sono le palle di cannone che arrivano e che, veramente, segnano l’inizio della battaglia. Si tratta, infatti, del fuoco di preparazione nemico. Fermi come birilli, si spera che i proiettili passino alti e che gli ufficiali, per limitare le perdite, diano l’ordine di coricarsi per terra, cosa che però avviene piuttosto di rado. Si tratta di una prova terribile che, a volte, alcuni generali praticano per punire unità che si sono dimostrate particolarmente indisciplinate nel corso della campagna, come fece, ad esempio, il generale francese di cavalleria Lassalle; altre volte, invece, è chiamata addirittura la Guardia a sostenere questo tipo di combattimento assolutamente squilibrato a favore dell’artiglieria, per tenere un tratto di fronte, come avvenne ad Aspern-Essling. Il soldato ha però una visione molto parziale e limitata della battaglia: egli non solo non riesce a capirne l’andamento generale, ma nemmeno è in grado di realizzare ciò che accade a soli 30-40 metri di distanza. Il suo orizzonte si riduce drasticamente e può vedere distintamente unicamente ciò che accade di fronte, e poi ancora per una lunghezza limitata, diciamo 200-250 metri, forse anche meno, mentre tutto ciò che avviene sui fianchi o sul retro rimane qualcosa di ignoto: d’altronde, se anche si girasse, cosa pressochè impossibile quando si combatte in ranghi serrati, non vedrebbe altro che i profili e le sagome dei compagni di reparto e il fumo dei fucili. Paradossalmente, anche quando combatte in ordine aperto le cose non cambiano di molto, a meno che non riesca a proteggersi dai proiettili nemici dietro qualche asperità del terreno. Ad aggravare questa situazione di smarrimento, insicurezza e, al contempo, di drastica limitazione dei propri orizzonti visivi, sta poi il fatto che assai di rado il soldato conosce il terreno sul quale dovrà combattere, situazione tanto più avvilente quanto più le battaglie si svolgono lontane dai confini patri e in territori occupati da una popolazione ostile se non fanaticamente anti-francese: non a caso, uno dei teatri più sanguinosi e crudeli sarà proprio quello spagnolo, dove tuttavia, nel corso dei lunghi anni di guerra, mai si avranno battaglie campali paragonabili a quelle di Wagram o Borodino, per fare solo due esempi. Lontani da casa, privi di un sistema sanitario degno di questo nome o anche lontanamente paragonabile a quello che intendiamo noi oggi, con poco cibo, sanno che non potranno contare sull’aiuto della popolazione civile e dunque sono consci che anche una piccola ed a prima vista leggera ferita superficiale può rivelarsi mortale. Non a caso, la causa di morte più letale erano proprio le infezioni e la conseguente cancrena. All’epoca non era ancora noto il concetto di microbo e dunque le ferite non venivano sterilizzate; addirittura, si pulivano anche con acqua sporca, mentre i soldati, che già non potevano curare la propria igiene personale durante la campagna, venivano alloggiati in locali altrettanto sudici e privi delle più elementari (almeno per noi…) norme igieniche. Le condizioni erano così precarie che, paradossalmente, combattere in climi rigidi poteva essere un vantaggio: ad esempio, moltissimi feriti della battaglia di Eylau, combattuta in febbraio, riuscirono a salvarsi – pur fra indicibili sofferenze – proprio grazie al freddo pungente che impediva alle ferite di diventare purulente. La ferita più comune era, ovviamente, quella provocata dai proiettili tondi sparati dai moschetti: questi, in piombo, potevano passare da parte a parte gli arti o, nel peggiore dei casi, spezzare le ossa e frantumarle: in questo caso, la cancrena era praticamente inevitabile… Da parte loro, le palle di cannone avevano effetti pi&ugarve; immediati: o la morte o l’amputazione di braccia o gambe; di solito, essendo arroventate, riuscivano a cicatrizzare immediatamente la ferita, per cui il malcapitato riusciva a sopravvivere, come accadde al generale Uxbridge a Waterloo. Ma torniamo al campo di battaglia. Gli uomini, immobili, sono pronti ad avanzare: l’attesa, tuttavia, può essere lunghissima, specie per le truppe poste in riserva, e provoca nei soldati sentimenti ambivalenti: la speranza di non combattere, ma anche l’ansia di sapere quando. Quando, poi, arrivava l’ordine tutta la tensione accumulata fino a quel momento ha finalmente modo di iniziare a scaricarsi. Sotto l’azione ipnotica ed al tempo stessa esaltante dei tamburi, ora il soldato bada a mantenere l’allineamento, il passo, le giuste distanze dai compagni e ad ascoltare gli ordini dei propri ufficiali. Mantenere l’ordine all’interno dell’unità, era, tuttavia, molto difficile, specie per dei soldati che si trovavano da poco tempo sotto le armi e che avevano avuto un addestramento raffazzonato ed estemporaneo: sotto l’azione della paura e della confusione, del terreno (specie se accidentato o in pendenza), dei corpi dei caduti o degli ostacoli che si potevano incontrare, solo i reparti meglio addestrati e che potevano contare su molti veterani riuscivano a conservare l’allineamento ed a mantenere un passo regolare. Davanti al reparto che avanzava a ranghi chiusi vengono schierati gli schermagliatori, cioè, soldati che combattevano a ranghi aperti, col compito di iniziare il combattimento: i loro obiettivi preferiti sono gli ufficiali nemici, di solito ben riconoscibili, ma anche il semplice far sparare le unità nemiche, dal momento che le armi del tempo tendevano a fare cilecca tanto più si sparava. L’azione dei volteggiatori o cacciatori – perchè così vengono chiamati gli schermagliatori all’interno dell’esercito francese – può essere molto incisiva ed è tanto più efficace quanto più i soldati si trovano ad operare su terreni difficili, che possono offrire anche semplici ripari ai proiettili nemici e che, soprattutto, siano difficili da attraversare da parte di unità in ordine chiuso. Infatti, il vero spauracchio degli schermagliatori è quello di essere attaccati alla baionetta da questo tipo di formazioni, contro le quali potrebbero fare ben poco; se poi a caricare è la cavalleria, allora la tragedia si compie: preso singolarmente, il fante non riesce a difendersi ed anche uno squadrone di cavalleria è in grado di mettere in rotta un intero battaglione che combatte a ranghi aperti, causando perdite pesantissime. Questo schermo può essere di due tipi: quello creato da apposite compagnie interne al battaglione (per i francesi, a partire dalla riforma napoleonica del 1804, detti volteggiatori) interne al battaglione e quello creato da interi battaglioni di fanteria leggera. Due le differenze: la prima riguarda l’entità numerica degli uomini adibiti a questo compito – rispettivamente 100 circa o 800 circa -, la seconda l’indipendenza sul campo di battaglia, visto che le compagnie devono supportare necessariamente il battaglione cui appartengono, mentre i battaglioni leggeri vengono utilizzati come unità indipendenti nel quadro generale della battaglia. In più, questi ultimi possono, alla bisogna, combattere anche a ranghi chiusi. Gli schermagliatori esaurivano la loro funzione una volta che l’unità in ordine chiuso che proteggevano arrivava a 100-80 metri dal nemico. Ora, come due velieri, le due formazioni avversarie iniziavano a scaricare le loro armi; i primi colpi, quelli più efficaci per il basso numero di cilecche, sparati secondo un ordine ben preciso, poi a volontà. Ma cosa accadeva nei ranghi durante un’azione di fuoco? Dopo il primo sparo, il fumo provocato dalle armi era tale che poteva persino avvolgere l’intera unità in una nube di fumo non solo difficile a disperdersi se non vi era vento, ma che anche rendeva più difficile vedere i nemici. In effetti, quest’ultimo dato era di relativa importanza, visto che i fucili erano talmente imprecisi che non si prendeva la mira ma semplicemente si puntava in direzione del bersaglio. Mano a mano che l’azione proseguiva è le perdite aumentavano, l’unità era costretta a ridurre il proprio fronte per poter compensare i vuoti così, creatisi, mentre i soldati iniziavano, in misura sempre maggiore, a fare cilecca e ad armeggiare con il tournez-vie per poter rendere di nuovo efficiente l’arma. La confusione aumenta in maniera esponenziale: il rumore assordante degli spari, la ridotta visibilità, il rullo dei tamburi, le urla di dolore dei feriti, quelle degli ufficiali che incitano i soldati a serrare i ranghi, creano una situazione infernale. I soldati perdono la coscienza di sè e agiscono, sparano, come automi, obbedendo ciecamente agli ufficiali: lo stato di stordimento e di confusione era tale che un soldato, a dispetto del rinculo, poteva anche non capire che il colpo non era partito e dunque caricasse l’arma per due, tre o più volte, o che, preso dalla smania di caricare, dimenticasse la bacchetta all’interno della bocca da fuoco: una tale colpevole disattenzione aveva come conseguenza diretta il fatto che il fante non potesse più aprire il fuoco, costringendolo a recuperare una bacchetta dal fucile di qualche compagno morto o ad attendere passivamente lo svolgersi degli eventi. Una tale azione non dura molto tempo: infatti, dopo qualche colpo (diciamo 5-10 minuti) una delle due formazioni cede. Gli uomini, semplicemente terrorizzati, fuggono dalla linea del fuoco e gli ufficiali possono dirsi già, fortunati e abili se riescono ad evitare una rotta generalizzata a favore di una ritirata più o meno ordinata. Quella che era una corazzata, si sta sciogliendo come neve al sole. Più, spesso, tuttavia, dopo i primissimi colpi o addirittura senza spararne alcuno, l’unità per così dire attaccante si lancia all’assalto alla baionetta. Calpestando i propri compagni che via via cadono, esaltati dal ritmo ossessivo dei tamburi e dalle urla di incitamento – o dalle imprecazioni – che provengono dai ranghi, i soldati avanzano d’impeto verso la linea nemica; qui, altri soldati, col sudore che ormai riga la fronte, sparano e caricano l’arma il più velocemente possibile, fino a rendere roventi le canne: sanno infatti che, in caso di contatto, le loro chances di poter resistere sarebbero assai scarse: la sola velocità e massa degli attaccanti basta decidere lo scontro. Gli assalitori aumentano la velocità mano a mano che si avvicinano: passano dal passo ordinario, a quello accelarato fino a quello, finale, di carica; sottufficiali e ufficiali, alla testa dei propri reparti per dare il buon esempio, sono fra i primi a cadere, ma ormai l’azione offensiva ha già una propria forza d’inerzia che può essere spezzata solo dai proiettili nemici. Raramente un attacco giunge a coinvolgere un mortale corpo a corpo le due unità avversarie; solitamente, negli ultimi 20-30 metri una delle due formazioni cede il terreno e fugge, tale è la paura del freddo acciaio della baionetta. Quando però questa eventualità si realizza, lo scontro raggiunge toni di ferocia mai vista: coloro che hanno ancora un colpo in canna scaricano l’arma a bruciapelo; altri utilizzano la baionetta per infilzare, altri ancora, maneggiando il fucile come una clava, cercano letteralmente di rompere la testa del nemico: in generale, dopo il primo pesante impatto, le due formazioni avversarie si mescolano in una contemporaneità, di combattimenti individuali che si risolvono per lo più con la morte, il ferimento o la resa di uno dei due contendenti. Ancora una volta, tutto questo avviene in pochi minuti, in un crescendo di esaltazione e di stordimento che prende tutti gli attori della tragica scena: a volte si diventa coraggiosi – o addirittura eroi – solo perchè non si ha più la consapevolezza del proprio io e si è trascinati dal turbine degli eventi. Una volta che l’assalto è riuscito e l’unità, nemica è stata spazzata via, gli ufficiali hanno il loro bel daffare per cercare di ricomporre, attorno alla bandiera – che funge da vero e proprio punto di riferimento – i ranghi e rendere nuovamente operativo il battaglione. Infatti, nel corso dell’azione molti soldati sono rimasti sul campo, altri si sono fermati o addirittura dati alla fuga, altri ancora hanno inseguito il nemico. Anche una volta ricomposta, tuttavia, l’unità potrà intraprendere poche altre azioni: gli uomini, ora, sono fisicamente spossati, hanno sete, hanno le armi che nella maggior parte dei casi non funzionano più, molti ufficiali, poi, sono caduti e dunque l’azione di comando si fa meno incisiva; in più le richieste di aiuto e le grida dei soldati rimasti feriti sul terreno certo non invogliano a proseguire il combattimento. Insomma, un reparto può attendere ore prima di entrare in azione ed esaurire la stessa nello spazio temporale di qualche decina di minuti: l’usura dello scontro è tale che non permette, almeno a breve, di intraprendere altre azioni di una certa importanza. Ovviamente, questo è un ragionamento di massima, che prevede, come tale, diverse eccezioni: forse una delle più famose riguarda il comportamento tenuto dal 9° reggimento cacciatori francesi nella fase finale della battaglia di Marengo, quando, dopo ripetute cariche, riuscì finalmente a sfondare le linee nemiche, ma ogni esercito europeo, durante le guerre napoleoniche, ha avuto dei reparti che, in una battaglia o nell’altra, si sono distinti per senso di sacrificio e per coraggio di fronte al nemico. Durante le pause, i soldati cercano, come diremmo oggi, di prendere fiato, bevono avidamente dalla borraccia o chiedono alla cantiniera, che segue sempre il reparto con un barilotto di acqua, un pò del prezioso liquido: combattere, specie d’estate, con addosso un equipaggiamento di 25 kg, una giubba in panno molto pesante e che non lascia traspirare alcunchè, con la bocca e la lingua sporche di polvere da sparo proveniente dalle cartucce che, come si ricorderà, vengono aperte con la forza dei denti, rende la gola veramente arsa e provoca una sete che sfocia nel dolore e nella pazzia, specie se si riportano delle ferite, anche lievi. Non appena si è ritornati un pò in sè e si è soddisfatta la sete, ci si guarda un pò, attorno, si cercano i volti dei commilitoni più cari, ci si accerta persino di non avere subito ferite, dato che la stessa sofferenza fisica non viene avvertita nei momenti di maggior tensione ed eccitamento emotivo, quando l’adrenalina non fa sentire nè la fatica, nè il dolore. Si cerca anche di fare ordine nelle migliaia di immagini che i propri occhi hanno visto, di dare un senso a ciò che si è appena vissuto. Si tratta, quest’ultima, di un’operazione che solo raramente riesce: il soldato è incapace di conferire un ordine logico e temporale a tutto ciò che &egarve; accaduto durante l’azione, ricorda solo alcuni frammenti, a volte persino dei particolari futili, ma non l’unitarietà della scena. Sappiamo però che vi è un’altra variabile nella guerra napoleonica, una variabile di assoluta importanza: la cavalleria. Una carica di cavalleria ero lo spettro di ogni fanteria, da quella più esperta a quella meno addestrata. In tal caso, l’unica speranza era quella di formare un quadrato, ovvero una formazione che non lasciasse scoperto fianchi e retro e che fosse al contempo molto profonda: tutti gli uomini, il primo rango inginocchiato, utilizzavano i fucili e baionetta per formare come un riccio impenetrabile. I cavalli, infatti, per istinto, non si scagliano contro tali ostacoli e la cavalleria è obbligata a girare intorno a tali quadrati. La cosa, detta così, sembra abbastanza facile, per non dire banale. Sul campo, però, le cose erano ben diverse. I soldati, affaticati dal combattimento, sentono d’un tratto un ordine: La cavallerie!!! Formè le carrè. Il cambio di formazione deve avvenire in pochissimi secondi, poichè, nel clangore della battaglia, la cavalleria può essere avvistata solo quando è vicina. La questione è molto semplice: riuscirà la fanteria a formare un quadrato prima di venire contattata? Il panico, il terrore, si diffonde in altrettanto poco tempo: è una lotta contro il tempo. I soldati, nel compierla, corrono, si strattonano, a volte incespicano e cadono venendo calpestati dai commilitoni, alcuni fuggono in preda al più, completo smarrimento. Per dare l’idea dell’effetto provocato sull’animo umano dal rumore di centinaia di zoccoli sul terreno, dalla sola idea di dover affrontare un cavaliere in carica, basti questo aneddoto. Per le riprese del film-colossal Waterloo con Rod Steiger nella parte dei Napoleone, il regista Bondarciuk poteva contare sull’aiuto dei soldati dell’Armata Rossa per girare le scene di massa: ebbene, la celeberrima scena dell’attacco della cavalleria francese contro la fanteria inglese chiusa in quadrato dovette essere girata diverse volte, perchè gli uomini letteralmente fuggivano terrorizzati non appena sentivano il terreno vibrare sotto i loro piedi. Tutti, ovviamente, sapevano che si trattava di un film e le comparse erano per di più soldati regolarmente addestrati; eppure, alla resa dei conti, le fughe furono tali e tante da dover ripetere la scena più e più volte. Pensiamo dunque nella realtà che effetto dovesse fare una vera carica di cavalleria, specie se effettuata da reparti di cavalleria pesante, come i corazzieri, l’Household inglese o i granatieri a cavallo… Se però, il quadrato si chiudeva e gli uomini non scappavano, la fanteria aveva ottime chances di resistere: gli esempi di quadrati formati distrutti sono veramente pochi ed anche all’epoca questa realtà era unanimemente conosciuta, persino dai soldati, anche se, certo, in certi momenti la razionalità può comprensibilmente lasciare il passo al terrore e dunque a cercare una fuga solitaria che porta certamente alla morte. Stretti, compressi, gli uni dietro agli altri e gli uni di fianco agli altri, i fanti sono costretti tuttavia all’immobilità: l’unica cosa che possono fare, e comunque con grande fatica dati gli spazi estremamente ridotti, è sparare. Inutile dire che se dovesse all’improvviso sbucare una batteria di cannoni o un battaglione di fanteria, il destino del quadrato sarebbe segnato letteralmente in un bagno di sangue. Da parte loro, i cavalieri, avevano da affrontare due grossi problemi: mantenere la formazione durante la carica ed effettuarla in modo tale da affaticare il meno possibile i cavalli. Se quest’ultimo punto veniva risolto facilmente riservando ai soli ultimi 50 metri il massimo sforzo degli animali, il primo richiedeva una più lunga gestazione, poichè riguardava l’addestramento di uomini e cavalli, un addestramento che richiedeva mesi se non anni. Basti pensare che la cavalleria francese, praticamente dissoltasi nel 1791-92 con la fuga all’estero dei nobili, per ritornare a potere reggere il confronto con quella nemica in campo aperto dovrà, attendere il 1805. Sul campo di battaglia la cavalleria assolveva a tre fondamentali quanto diversi compiti: controllava che non vi fossero forze nemiche sulle ali dello schieramento; attaccava per sfondare le linee nemiche o per prendere d’impeto alcune importanti posizioni; quando posta nelle retrovie, era un valido deterrente per evitare che i soldati, semplicemente, scappassero, come, ad esempio, accadde a Waterloo, dove la cavalleria leggera alleata venne tenuta in fondo allo schieramento. Dei tre compiti, ovviamente, quello più drammatico era il secondo: uno scontro che poteva essere o contro altra cavalleria – e allora si concludeva con un brutale contatto fisico, nel quale si utilizzavano le spade e pistole, nel quale si sferravano fendenti tali da spezzare se non tagliare arti, nel quale ci si sparava letteralmente in faccia – o contro la fanteria – e abbiamo visto cosa accadeva – o, infine, contro batterie di artiglieria. In quest’ultimo caso, più, ancora che le sciabole, la vera arma era la velocità,: riuscire a piombare sugli artiglieri nel minor tempo possibile si traduceva nel ricevere meno colpi e dunque nel subire meno perdite. Condurre una carica frontale contro un tale obiettivo era comunque, sempre, una brutta faccenda: l’artiglieria, male che andasse, riusciva sempre a sparare una salva a mitraglia a distanza abbastanza ravvicinata, il che assicurava la morte o comunque la messa fuori combattimento di gran parte della prima ondata di cavalieri, con gravi ripercussioni sia morali che pratiche per i compagni che seguivano. Non solo, infatti, vedere morire a pochi metri di distanza un proprio compagno può scuotere i nervi anche dei più, coraggiosi, ma l’intralcio provocato dai cadaveri di uomini ed animali rendeva difficile proseguire l’attacco mantenendo i ranghi ordinati e in tempi limitati. Una volta, per6ograve;, arrivati ai pezzi, gli artiglieri non avevano scampo e venivano inesorabilmente falciati uno dopo l’altro; solo i più fortunati, proteggendosi sotto l’affusto del pezzo, potevano sperare di salvare la vita: a questo punto, se i cavalieri avevano abbastanza sangue freddo e il giusto equipaggiamento, potevano scendere dai loro animali e chiodare i pezzi, ovvero inserire a forza nel focone uno spuntone in legno o metallo che, non potendo essere estratto, impediva al pezzo di poter sparare lungo quantomeno tutto il resto della battaglia. Proprio durante questi caotici momenti nei quali i cavalieri inseguivano le proprie prede, il reparto era molto vulnerabile agli attacchi di una cavalleria avversaria che l’avesse controcaricata a ranghi compatti. La differenza fra la vittoria e la sconfitta a volte può essere molto labile. Certo è che alla fine di una giornata di combattimenti il terreno era punteggiato di cadaveri di uomini e di cavalli più o meno orrendamente mutilati, di feriti urlanti al cielo tutto il loro dolore, di soldati che, magari aiutandosi con il fucile usato a mò di stampella, cercano di portarsi ai più vicini fuochi, nella speranza di essere aiutati: infatti, i vincitori, se non hanno più la forza fisica di inseguire, iniziano ad accamparsi per la notte, mentre ai perdenti si prospetta una notte spesa a fuggire, a lasciare quanta più strada possibile fra sè ed il nemico; ma vi sono anche civili che, come veri e propri sciacalli, depredano e spogliano i caduti di ogni loro avere, dalle scarpe al fucile: d’altronde, pensano, dopo tutto quello che abbiamo subito in termini di distruzione di case e campi, è giusto recuperare, per così dire, le spese. Wellington alla fine della battaglia di Waterloo ebbe a dire che: non vi è nulla di peggio di una battaglia vinta che una battaglia persa. I servizi di sanità sono praticamente inesistenti: ci si arrangia alla meglio e non è raro che i veterani si improvvisino anche infermieri, mentre i pochi medici operano a ritmo serrato, amputano tutto ciò che possono, senza anestesia e con rozze quanto orribili seghe, per evitare che insorga la cancrena. In questi interventi servono solo tre cose: alcool per stordire il malcapitato, un pezzo di cuoio da fargli stringere fra i denti e due robusti infermieri che lo tengano stretto. Ben presto questi posti di medicazione, che solitamente vengono posti all’interno delle più vicine case, diventano un inferno, tanto più che, ovviamente, non esistono nemmeno latrine: l’aria stessa diventa irrespirabile, pestilenziale, mentre mancano anche i viveri per poter dare un pò di forza a corpi straziati dalla forza delle armi e dalla potenza del dolore. Ecco come il chirurgo Piercy descrive uno di questi posti; siamo a Jena, due giorni dopo la battaglia: Quella mattina tutti quei disgraziati erano ancora nella sporcizia, in mezzo, agli escrementi di quelli che non potevano alzarsi, braccia e gambe tagliate, cadaveri insanguinati, un orribile concime prodotto dalla poca paglia sulla quale sono sdraiati. In qualche posto è stato dato loro un pò di brodo e del pane. Non si sa come abbiano potuto resistere fino ad ora. La notte successiva alla battaglia non si sentono canti ai bivacchi, ma solo lamenti e urla; l’aria si fa pesante per il fumo che ancora non si disperde e per quello prodotto dagli incendi; i soldati, sporchi, sudati, stanchi non hanno voglia di far altro che mangiare e dormire, coricarsi anche se questo comporta buttarsi sull’erba già umida per il calare della sera… già… mangiare… ma cosa? Si fa ricorso alle provviste che ognuno porta con sè nello zaino, un pò di pane, un pò di formaggio e poco altro… ci si vorrebbe spogliare, lavare, cambiare i vestiti, fare un buon pasto, addormentarsi e svegliarsi scoprendo di aver fatto solo un brutto, terribile sogno.

Per gentile concessione dell’Associazione Napoleonica d’Italia
Documento inserito il: 24/12/2014

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